Socio accomandante di Sas e accertamento nei confronti della società

l’accertamento di un maggior reddito anche al socio accomandante di una Sas (che non detiene poteri gestori sulla società) è un automatismo corretto? (di Marco Ertman da una riflessione di Luigi Vitale)

Se è vero che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva” (art. 53 Cost), se è vero che la Costituzione della Repubblica è tutt’oggi il riferimento, l’ispirazione ed il limite posto al legislatore ordinario, se è vero che l’amministrazione finanziaria esercita non un potere ma una potestà di accertamento nell’interesse della comunità dei consociati è allora altrettanto certo che l’accertamento di un reddito evaso in capo ad una società in accomandita semplice non deve sfociare in un’automatica maggiore base imponibile per il socio accomandante.

La prassi è diversa, ne sono consapevole. Nella normalità dei casi all’accertamento effettuato in capo alle società di persone corrisponde, in rapporto di intima concatenazione, l’attribuzione di maggiore base imponibile dei soci.

Gli uffici finanziari, nell’esercizio delle proprie attribuzioni, liquidano senza eccezione la maggior Irap della società e maggiori Irpef ed addizionali in capo ai soci, siano essi accomandanti, accomandatari o semplici partecipanti di società in nome collettivo. Ciononostante non è affatto ovvio che tale interpretazione del ruolo di accertatore sia costituzionalmente orientata e sostenibile.

La capacità contributiva è un concetto altissimo con cui i padri costituenti hanno superato il principio obsoleto che l’imposizione tributaria possa essere fondata sulla semplice ricchezza o capacità economica del cittadino.

È un principio di elevata modernità giuridica e spessore morale, ma pur sempre astrattissimo e, per essere applicato in terra, deve contaminarsi con le tecniche di rilevazione e misurazione delle basi imponibili e con prosaiche moltiplicazioni per l’aliquota d’imposta.

L’archetipo trascendente della capacità contributiva può compiere il necessario cammino logico giuridico dalla supremazia della Carta Costituzionale verso la pragmaticità del Modello Unico solo attraverso i suoi indici indicatori.

Nessuna imposta può concretamente fondarsi su un semplice riferimento diretto alla costituzione, ma di contro il legislatore ordinario deve strutturare i tributi su presupposti d’imposta che siano obbiettivi indici rilevatori della ricchezza del contribuente e quindi della sua attitudine economica e patrimoniale al concorso alle spese pubbliche.

I presupposti d’imposta sono dunque manifestazioni misurabili della ricchezza dei singoli consociati e traggono la propria legittimazione giuridica dalla superiore levatura del principio di capacità contributiva con cui si pongono in subordinato rapporto gerarchico.

Un presupposto d’imposta che, in astratto come nel concreto, sia svincolato dalla nozione di capacità contributiva è delegittimato.

È questo il caso di specie che mi propongo di approfondire riferendomi alla posizione soggettiva del socio accomandate nelle sas sottoposte ad accertamento.

Notoriamente il presupposto d’imposta dell’irpef è un formidabile indicatore di capacità contributiva.

Recita l’art. 1 del Dpr 917/86 “Presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura…

Il possesso di un reddito è infatti una manifestazione concreta dell’attitudine del singolo a contribuire alle spese pubbliche ed in quanto tale si atteggia a perfetto indicatore di capacità contributiva. Ebbene il prelievo sarebbe arbitrario e delegittimato ogni qual volta il possesso di reddito fosse solo apparente o presunto e, quindi, la capacità contributiva del consociato fosse un’illusione ottica.

Il possesso di reddito deve essere reale, non ipotetico, perché se il tributo è concreto anche la capacità contributiva deve essere tale.

In una simile ottica l’art. 5, c. 1, del dpr D17/86, se mal interpretato, potrebbe stridere con il dettato costituzionale dell’art. 53. La norma infatti prevede che “I redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.”

La circostanza che i redditi maturati dalle società di persone siano imputati ai lori soci indipendentemente dalla percezione ed in proporzione alle quote di partecipazione di ciascuno è già di per sé una modesta lesione rispetto al dettato costituzionale, ma finché il piano di analisi permane sulle società in nome collettivo o sulle società semplici, ove tutti i soci sono attori della gestione sociale, e finché l’imputazione per trasparenza inerisce redditi dichiarati oserei pensare che la fattispecie conserva un sufficiente grado di sostenibilità costituzionale.

Il vulnus si aggrava però laddove alcuni soci sono estranei alla gestione societaria, gli accomandanti, e la base imponibile è un maggior reddito accertato in fase d’ispezione fiscale.

In tali casi, ogni qual volta il maggior reddito imponibile è determinato da attivi evasivi degli accomandatari, non è affatto ovvio che i soci accomandanti abbiano di fatto posseduto o possederanno mai maggiori redditi occulti.

Da giorni è sulla mia scrivania un accertamento a carico di un socio accomandante determinato dalla ripresa a tassazione di fatture per operazioni inesistenti che l’accomandatario ha contabilizzato e dei cui frutti illegittimi ha goduto in proprio. Nessun vantaggio è stato attribuito all’accomandante, che era completamente ignaro dei fatti e che, anzi, negli esercizi passati ha percepito redditi di partecipazione artatamente compressi.

In tali circostanze il danno per l’accomandante è duplice, non solo non riceve i redditi reali, ma in sede d’accertamento è altresì chiamato ad assolvere l’imposizione diretta su somme o utilità del tutto figurative che gli sono state automaticamente attribuite per trasparenza.

Questa è la prassi, non è ovvio che questo sia il reale assetto dell’ordinamento tributario. L’abitudine di imputare meccanicamente ai tutti i soci delle società di persone il maggior reddito accertato in capo alla società deriva da una miope lettura congiunta del citato art. 5 del Dpr 917/86 e dell’art. 40 del Dpr 600/73 che, testualmente, dispone che “Alla rettifica delle dichiarazioni presentate dalle società e associazioni indicate nell’art. 5 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 597, si procede con unico atto ai fini dell’imposta locale sui redditi dovuta dalle società stesse e ai fini delle imposte sul reddito delle persone fisiche o delle persone giuridiche dovute dai singoli soci o associati.”

Un unico avviso di accertamento, dunque, i cui risultati sono ripartiti fra le basi imponibili dei soci secondo un’idraulica della trasparenza liberamente tratta dalla lettera dell’art. 5.

In vero l’accertamento tributario non è l’esercizio di un potere od una facoltà, ma è una potestà concessa all’amministrazione finanziaria nell’interesse dei consociati. È quindi un potere-dovere nel cui ambito l’agenzia delle entrate deve compiere i propri atti ispettivi in danno del reale evasore ed a beneficio della collettività, tutelando gli incolpevoli.

Le norme sull’accertamento devono essere applicate tutte e tutte integralmente a sistema, talché l’amministrazione non è né in concreto né in teoria libera di scegliere se applicare o meno un precetto e quali regole rispettare, quali no. L’accertamento non è arbitrario ed anche chi né esercita la potestà è soggetto al vincolo delle regole in materia.

L’amministrazione finanziaria è dunque tenuta ad applicare, ex multis, l’art. 37, c. 3, del Dpr 600/73 in virtù del quale “In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona.”

L’ufficio accertatore deve quindi indagare chi sia il reale possessore dei redditi evasi, chi né abbia tratto utilità e beneficio, e deve altresì tralasciare chi, di contro, sia solo titolare apparente dei maggiori redditi.

L’art. 37 non è una facoltà, è un potere-dovere da cui l’ufficio non può esimersi. Diversamente opinando si cadrebbe nell’arbitrio di attribuire pigramente e senza alcuna valutazione critica un reddito al socio accomandante che lo stesso non ha mai posseduto e che mai possederà.

È un non raro caso di imposta senza capacità contributiva che si manifesta intollerabile sotto un profilo logico costituzionale.

Si acclara quindi come l’unica lettura sostenibile è quella che pone a sistema gli artt. 5 del Dpr 917/86 e 40 del Dpr 600/73 con l’art. 37 del decreto medesimo imponendo all’amministrazione finanziaria di accertare e dimostrare chi sia l’effettivo titolar del maggior reddito che ha recuperato a tassazione.

Il legislatore, con l’art. 37, ha voluto attribuire una doverosa prevalenza della sostanza sull’apparenza proprio onde far sì che il prelievo incida su chi è l’effettivo possessore del reddito.

L’accertamento tributario deve sempre dimostrare, anche sulla base di presunzioni qualificate, chi sia il vero titolare del reddito occultato proprio perché il tributo deve imporre il concorso alla spese pubbliche a chi effettivamente ha capacità contributiva e non a chi ne manifesta solo il sembiante.

L’attribuzione del reddito evaso ad un soggetto come il socio accomandate di una sas, che non ha alcun potere gestorio, richiederebbe la prova che quest’ultimo ha goduto del dell’illecito in concorso con l’accomandatario.

In altri termini il prelievo non deve penalizzare chi ha come unica colpa quella di convivere nell’atto costitutivo con soci accomandatari che hanno condotto l’impresa in danno delle ragioni del fisco, ma anche in danno dei diritti economici degli accomandanti.

Del pari l’amministrazione finanziaria non può garantire al socio accomandatario il beneficio di aver trattenuto ed evaso somme affrancate da imposizione solo perché è più agevole per i sui uffici procedere sulla pigra via dell’automatica ripartizione della maggior base accertata in proporzione alle quote di partecipazione determinate nei patti sociali.

L’indagine delle vero tributario è un’attività spesso abdicata sull’altare dell’efficienza e della semplificazione dei controlli. Si verifica meno e si ottiene maggior gettito con gli studi di settore, con i parametri, con le rilevazioni statistiche che ormai, caso per caso, affollano gli avvisi di accertamento.

È del tutto ovvio che provare chi sia realmente evasore e chi no sulla base di un’indagine calibrata è un’attività ben più onerosa che applicare uno studio di settore in danno dell’economia e del contribuente. La razionalizzazione dei costi della pubblica amministrazione è quindi coincisa con una diffusa tendenza del legislatore ordinario di consentire agli uffici finanziari l’utilizzo sempre più sbrigliato di presunzioni pseudo semplici, quasi legali e quasi assolute, ma tale processo è nel lungo periodo oppressivo perché allontana sempre di più il prelievo tributario dall’effettiva capacità contributiva.

In tale ottica è certo improbabile che l’amministrazione riconosca di essere soggetta all’onere di dover accertare il vero possessore del reddito dietro l’apparenza dei rapporti di partecipazione di accomandante e accomandatario, che sono certi nei patti sociali, ma che ben possono essere stati violati nei fatti determinando una iniqua distorsione a danno dell’accomandante. Lo Stato, nell’esercizio delle sue funzioni anche tributarie, dovrebbe porre rimedio a tale distorsione invece di aggravarla imponendo all’accomandante stesso tributi su un reddito in vero posseduto dall’altro socio.

Finché la prassi permarrà tale l’art. 37 del Dpr 600/73 sarà solo una facoltà e la potestà di accertamento sempre più un potere nel rischio che il rapporto fra i consociati e l’erario viri verso la matrice del suddito e non del cittadino.

 

1 dicembre 2012

Marco Ertman