L'indebito risparmio d'imposta vale anche per il passato

Una sentenza di Cassazione tocca di nuovo il tasto dolente della retroattività dell’applicazione delle norme sull’abuso del diritto…

Con sentenza n.19234 del 7 novembre 2012 la Corte di Cassazione ha confermato che l’indebito risparmio d’imposta vale anche per le ipotesi sorte prima dell’8 novembre 1997, data di entrata in vigore delle norme antielusive.

 

Il fatto

La CTR della Lombardia, confermando la sentenza di primo grado, ha annullato l’avviso d’accertamento con il quale era stato determinato in capo alla X S.p.A. il reddito imponibile che la società aveva omesso di dichiarare in conseguenza dell’operazione, ritenuta elusiva ex art 37 bis del DPR n. 600 del 1973, di fusione per incorporazione della contribuente da parte della Y)S.p.A. (ora S. S.p.A.).

Dopo aver evidenziato che l’incorporante Y già deteneva l’intero pacchetto azionario della contribuente e che l’intera operazione era, dunque, riferibile alla prima, i giudici d’appello hanno ritenuto, per quanto ancora interessa, che:

1) il progetto di fusione, stipulato il 22.12.1997, risaliva al giugno 1997, epoca antecedente l’entrata in vigore dell’art. 37 bis del DPR n. 600 del 1973;

2) la fusione si giustificava, comunque, sotto il profilo economico, con la scelta imprenditoriale di dismettere il settore motociclistico, tanto che altre società dello stesso gruppo imprenditoriale avevano ceduto a terzi il relativo ramo d’azienda, e di razionalizzare la struttura societaria, evitando inutili costi di gestione;

3) la retrodatazione dell’efficacia della fusione al 25.9.1996, epoca anteriore alla cessione a terzi del ramo d’azienda motociclistica, era legittima e resa necessaria dagli accordi inter partes.

 

La sentenza

Il D.lgs. n. 358 del 1997, intitolato “Riordino delle imposte sui redditi applicabili alle operazioni di cessione e conferimento di aziende, fusione, scissione e permuta di partecipazioni”, ha introdotto, con l’art 7, 1° co, l’art. 37-bis del DPR n. 600 del 1973, secondo cui sono inopponibili al Fisco e soggetti ad imposizione secondo le norme eluse – al netto di quelle dovute per effetto del comportamento inopponibile – gli atti, fatti e negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti, sempreché nel comportamento inopponibile vengano utilizzate determinate operazioni, tra cui le

“trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e distribuzioni ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle formate con utili” (c. 3 lett. a).

L’art. 9 del D.lgs. n. 358 del 1997, che detta la decorrenza e le disposizioni attuative, dispone, al comma 5, che

“le disposizioni di cui all’articolo 7, comma 1, si applicano agli atti, fatti e procedimenti posti in essere dopo l’entrata in vigore del presente decreto”

e, cioè, dopo l’8.11.1997.

Nella specie, secondo i dati, incontroversi, riportati nel ricorso, l’atto di fusione è stato stipulato, id est, ai fini della disciplina qui in rilievo, è stato “posto in essere” il 22.12.1997, quando già la disposizione antielusiva era entrata in vigore, sicché la fusione ricade nell’ambito temporale di applicazione della norma, a nulla rilevando l’epoca in cui la relativa operazione era stata “ideata e progettata” o quella alla quale, convenzionalmente, le parti ne hanno fatto risalire gli effetti (elemento che, secondo la tesi dell’Ufficio, unito all’anticipata chiusura dei bilanci delle Società implicate nell’operazione, costituisce, appunto, la modalità elusiva).

Inoltre, la Corte rileva che, secondo la consolidata giurisprudenza (Cass. SU n. 30055 del 2008, Cass. n. 4737 del 2010, n. 11236 del 2011),

“ sussiste nell’ordinamento un principio generale antielusivo, la cui fonte va rinvenuta nei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, di cui all’art. 53, co 1 e 2, Cost., che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto, beninteso, di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici”.

 

 

L’indebito risparmio d’imposta – Brevi note

abuso del dirittoIl potere dell’Amministrazione finanziaria di contestare la deducibilità della componente passiva esposta dalla contribuente, ritenendola inopponibile, in forza del generale principio antielusivo, immanente nell’ordinamento, e la cui fonte va rinvenuta nei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, di cui all’art. 53 della Costituzione, non viene meno in assenza di una norma specifica.

Anzi, l’orientamento ormai consolidato della Corte conferma l’esistenza di una regola generale in tal senso e l’espressa previsione d’inopponibilità all’amministrazione finanziaria di una data operazione mediante disposizioni emesse in epoca successiva al suo compimento, non è altro che circostanza idonea ad offrire indiretta conferma dell’illiceità fiscale dell’operazione stessa.

A nulla quindi giova invocare che il comportamento è illecito a partire da una determinata data – perché c’è la norma – quando comunque l’ordinamento giuridico, pur accordando al privato l’autonomia e la tutela degli atti posti in essere per il perseguimento di interessi meritevoli, disconosce validità all’esercizio di poteri, diritti ed interessi in violazione del principio di buona fede oggettiva. E ciò è immanente nell’ordinamento.

L’abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. È ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede.

Ricordiamo che nella sentenza n. 20106 del 18 settembre 2009 (ud. dell’8 giugno 2009), la Corte di Cassazione aveva avuto modo di affermare che

“gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto – ricostruiti attraverso l’apporto dottrinario e giurisprudenziale – sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte”.

La Corte prende atto che nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l’abuso del diritto e che la cultura giuridica degli anni ‘30 fondava l’abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su di un concetto di “natura etico morale”, con la conseguenza che “colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica”.

Tuttavia, è

“ormai acclarato che anche il principio dell’abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell’ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano”.

Ed ancora di recente, con sentenza n. 2193 del 16 febbraio 2012 (ud. 15 dicembre 2011), la Corte di Cassazione, ritenendo immanente nel nostro ordinamento il principio dell’abuso del diritto, ne ha sancito la legittimità anche per il passato.

La Corte, pur prendendo atto che la sentenza impugnata ha ritenuto elusivo un comportamento sanzionato solo dal 1° gennaio 2004,

“ciò non esclude, però, il potere dell’Amministrazione di contestare la deducibilità della componente passiva esposta dalla contribuente, ritenendola inopponibile, in forza del generale principio antielusivo, immanente nell’ordinamento, e la cui fonte va rinvenuta nei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, di cui all’art. 53 Cost., commi 1 e 2. Secondo l’orientamento ormai consolidato di questa Corte (Cass. SU n. 30055 del 2008, Cass. n. 4737 del 2010, n. 11236 del 2011) deve, infatti, ritenersi presente nell’ordinamento, come diretta derivazione delle menzionate norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale.

La circostanza che siano disciplinate specifiche norme antielusive non contrasta con l’individuazione nell’ordinamento del cennato principio antielusione, ma, anzi, conferma l’esistenza di una regola generale in tal senso; per converso, l’espressa previsione d’inopponibilità all’amministrazione finanziaria di una data operazione mediante disposizioni emesse in epoca successiva al suo compimento, – come nella specie, trattandosi di pagamento di interessi a soggetti non residenti in uno Stato dell’Unione Europea – è circostanza idonea ad offrire indiretta conferma dell’illiceità fiscale dell’operazione stessa (in tal senso, cfr. Cass. SU n. 30055 del 2008 cit., in tema di ‘dividend washing’).

Né siffatto principio può in alcun modo ritenersi contrastante con la riserva di legge in materia tributaria di cui all’art. 23 Cost., in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali (cfr. pure Cass. n. 8772/08.)”.

 

29 novembre 2012

Francesco Buetto