L’impugnazione degli atti non accertativi, quelli non traducentisi in atti espressi, ma in dinieghi/rifiuti quali disapplicazione ex art. 37-bis/600 e dinieghi di annullamento di atti in autotutela

un problema molto importante per il contenzioso tributario italiano è quello dell’eventuale impugnazione degli atti non accertativi: quali sono le opzioni per il contribuente intenzionato ad impugnare tale tipologia di atti?

Aspetti generali

La possibilità di impugnare gli atti emessi dall’amministrazione finanziaria, ovvero anche le attività non traducentisi in atti espressi, ma in dinieghi/rifiuti, è nel nostro ordinamento espressione di principi di rilevanza costituzionale, come quello a non essere gravati dalla richiesta di prestazioni patrimoniali non fondate sulla legge, ovvero incongruenti rispetto al canone della capacità contributiva, nonché del generale diritto di difesa dei cittadini.

Soprattutto in epoca recente, gli orientamenti della Corte di Cassazione hanno assunto una funzione «additiva» rispetto all’opera del legislatore, ampliando in via di interpretazione giurisprudenziale le tipologie degli atti impugnabili: ciò ha fatto emergere nuove problematiche, che sembrerebbero richiedere un’opportuna «messa a punto» normativa.

In particolare, il presente contributo prenderà in considerazione le problematiche relative all’impugnazione dei provvedimenti di disapplicazione ex art. 37-bis, ottavo comma, del D.P.R. n. 600/1973, nonché dei dinieghi di annullamento di atti in autotutela da parte dell’amministrazione.

 

Gli atti impugnabili aventi le giurisdizioni tributarie

Il notissimo art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 traccia la mappa degli atti impugnabili aventi le commissioni tributarie, che sono i seguenti (si riportano le previsioni di cui alle varie lettere del primo comma):

a) l’avviso di accertamento del tributo;

b) l’avviso di liquidazione del tributo;

c) il provvedimento che irroga le sanzioni;

d) il ruolo e la cartella di pagamento;

e) l’avviso di mora;

e-bis) l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’art. 77 del D.P.R. n. 602/1973, e s.m.;

e-ter) il fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86 del decreto del D.P.R. n. 602/1973, e s.m.;

f) gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’art. 2, secondo comma;

g) il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti;

h) il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari;

i) ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle commissioni tributarie.

Il terzo comma del medesimo art. 19 stabilisce che:

  • gli atti diversi da quelli indicati nella lista sopra riportata non sono autonomamente impugnabili;

  • ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solamente per vizi propri;

  • la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo.

Si evidenzia che:

  • il rifiuto della restituzione di tributi e sanzioni può anche essere tacito, e in tal caso è ugualmente impugnabile avanti la CTP (impugnazione del silenzio-rifiuto);

  • il diniego di agevolazioni (categoria nella quale vengono fatte rientrare le impugnazioni di provvedimenti di disapplicazione) deve essere esplicitato dall’amministrazione.

 

I problemi delle società non operative

Uno degli atti che l’amministrazione riteneva pacificamente non impugnabili avanti le CTP e le CTR, e che invece la recente giurisprudenza di legittimità ha ricondotto tra le ipotesi di possibile ricorso, sono i provvedimenti / pareri relativi alle società non operative. O, per meglio dire, tutte le risposte rese dall’amministrazione in esito alla procedura di disapplicazione di cui all’art. 37-bis, ottavo comma, del D.P.R. n. 600/1973, la quale può includere anche ipotesi differenti rispetto a quella dell’art. 30 della L. n. 724/1994 (società di comodo), e ora dell’art. 2, commi da 36-quinquies a 36-duodecies, del D.L. 13.8.2011, n. 138 (società in perdita sistematica).

A tale riguardo, quanto all’impugnabilità degli interpelli in generale, deve affermarsi che questi sono atti aventi natura di «parere», ai quali non è obbligatorio uniformarsi.

Però gli interpelli ordinari sono in buona sostanza delle espressioni di un orientamento dell’amministrazione su problemi di interpretazione normativa; le istanze di disapplicazione, invece, che forse troppo frettolosamente vengono assimilate ai primi, attribuiscono all’amministrazione un potere – appunto – di disapplicazione della norma nel caso concreto, e quindi possono causare un effetto nella sfera giuridica del contribuente-istante.

A ciò si aggiunga l’ulteriore elemento di confusione rappresentato dalla scarsa chiarezza intorno al concetto di norma antielusiva (in determinate ipotesi, non è possibile stabilire chiaramente se una certa disposizione normativa è «di sistema», ovvero antielusiva, salvo quando il legislatore espressamente utilizzi tale definizione).

A ogni modo, in determinate ipotesi (società non operative, società in perdita sistemica, perdite fiscali e interessi passivi nell’ambito delle fusioni e delle scissioni) lo strumento del c.d. interpello disapplicativo viene e anzi deve essere utilizzato, qualificandosi secondo l’Agenzia delle Entrate come obbligatorio (circolare 14.6.2010, n. 32/E).

Si è quindi in presenza di una procedura che deve essere obbligatoriamente esperita (a pena dell’applicazione delle sanzioni per omessa comunicazione e, in sede di accertamento, delle sanzioni dichiarative nella misura massima), ma che da’ luogo a un parere non vincolante, al quale il contribuente può anche non adeguarsi. Salva però la concreta possibilità di essere sottoposto ad attività di controllo, e in tale sede dimostrare l’inapplicabilità della disciplina speciale nel proprio specifico caso.

Come si è visto sopra, ogni atto può essere impugnato avanti la CTP solo per vizi propri, e la mancata impugnazione di un primo atto dell’amministrazione preclude l’impugnazione dell’atto successivo, salvo che non si intendano contestare i vizi propri di quest’ultimo (come accade per l’accertamento e la cartella di pagamento). Se quindi la Cassazione ritiene che il parere di diniego di disapplicazione sia atto impugnabile, come si è manifestato in recenti pronunce giurisdizionali, ciò significa che esso «deve» essere impugnato prima o in luogo dell’atto di accertamento, e ciò sta generando notevoli problematiche quanto alla gestione di un nuovo e moltiplicato contenzioso.

La soluzione più pragmatica offerta dall’Agenzia delle Entrate è quella della qualificazione del diniego come semplice parere, e ciò significa evidentemente disconoscere la qualificazione come provvedimento compiuta dal D.M. attuativo 19.6.1998, n. 259 (che dovrebbe essere intesa come atecnica).

Peraltro, come è già stato evidenziato in precedenti interventi, la qualificazione come provvedimento comporterebbe la necessità di rispettare un termine perentorio – e non meramente ordinatorio – per la risposta, e il possibile operare del silenzio-assenso.

Inoltre, se l’atto finale della procedura di disapplicazione venisse concepito come provvedimento, potrebbe porsi l’ulteriore questione dell’impugnabilità del silenzio-rifiuto, in caso di mancata emanazione dello stesso.

Un’altra criticità è quella degli effetti di un giudizio sull’attività dell’amministrazione: qual è infatti il potere della sentenza? Quello di «ordinare» all’amministrazione di procedere alla disapplicazione di una norma, attività di sua esclusiva competenza secondo le disposizioni normative di riferimento? Ricordiamo che, nelle ipotesi qui considerare, si è in presenza di norme che operano «a regime», e che l’amministrazione non può manipolarle a suo arbitrio: in assenza di dimostrazione delle circostanze oggettive, infatti, la società di comodo «deve» per legge adeguarsi al reddito minimo presunto, e ora anche determinare le imposte considerando la super-IRES al 38%.

Al massimo, il potere del giudice causerà quindi l’illegittimità di un atto di diniego, ma non farà venir meno il potere accertativo dell’amministrazione.

Ma anche a tale riguardo occorrerebbe tarare bene gli strumenti: le Corti richiedono difatti un’attività di rettifica «pesante», con tutti i meccanismi di interlocuzione e salvaguardia per il contribuente offerti dall’accertamento (motivazioni, contraddittorio); però, se il contribuente semplicemente compila il prospetto delle società non operative evidenziando in dichiarazione un reddito minimo presunto superiore al reddito che va a dichiarare, e sul quale liquida le imposte, «scatta» automaticamente un recupero di tipo formale (ex art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973), e ciò causa degli evidenti problemi quanto alla possibilità di controargomentare in una fase successiva.

A parere di chi scrive, le disposizioni richiamate sono mal coordinate tra loro e generano criticità che prima o poi dovranno essere affrontate da un legislatore attento: si segnala a tale riguardo che il disegno di legge delega per la riforma fiscale del 2012 prevede il riordino e l’omogeneizzazione della disciplina degli interpelli. Occorrerà quindi attendere gli sviluppi futuri, che potrebbero riguardare anche il regime degli atti in rassegna sotto il profilo della tutela giurisdizionale. Perlomeno, stabilendo con precisione se oggetto di impugnativa possa essere il parere, ovvero l’atto impositivo emesso per rettificare ex post la situazione dichiarata dal contribuente.

 

La giurisprudenza di legittimità sulle società di comodo

Il disallineamento tra normativa, interpretazioni di prassi e giurisprudenza della Suprema Corte, sembra giustificarsi considerando la natura ibrida delle disposizioni qui richiamate, al crocevia di attività amministrative e discrezionalità amministrative da una parte, e tutela giurisdizionale e processo, dall’altra.

La Corte di Cassazione si sta misurando con le predette problematiche, sostanzialmente affermando che i provvedimenti direttoriali devono essere impugnati, ma che l’impugnazione è inammissibile se essi non contengono statuizioni nel merito (risolvendosi in semplici declaratorie di improcedibilità o – si ritiene – anche di inammissibilità1). Infatti:

  • secondo Cass. 15.4.2011, n. 8663 «le determinazioni del direttore regionale delle Entrate sulla istanza del contribuente volta ad ottenere il potere di disapplicazione di una norma antielusiva ai sensi dell’art. 37-bis, 8° comma, DPR n. 600 del 1973, costituiscono presupposto necessario ed imprescindibile per l’esercizio di tale potere. Le determinazioni in senso negativo costituiscono atto di diniego di agevolazione fiscale e sono soggette ad autonoma impugnazione ai sensi dell’art. 19, I comma, lett. h del D.Lgs. n. 542 del 1992. Tale atto rientra tra quelli tipici previsti come impugnabili da detta disposizione normativa, e pertanto la mancanza di impugnazione nei termini di legge decorrenti dalla comunicazione delle determinazioni al contribuente ai sensi dell’art. 1, comma 4, D.M. 19.6.1998, n. 259, rende definitiva la carenza del potere di disapplicazione della norma antielusiva in capo all’istante. Il giudizio innanzi al giudice tributario a seguito della impugnazione si estende al merito delle determinazioni impugnate»;

  • secondo Cass. Cass. 13.4.2012 n. 5843 la risposta resa dall’Agenzia delle Entrate su interpello del contribuente in tema di società non operative è impugnabile solamente se contiene affermazioni sul merito della pretesa, giacché solo in tale ipotesi si è in presenza di un atto impositivo, nella specie di un diniego di agevolazione. Se, invece, la DRE dichiara improcedibile l’istanza perché la fattispecie non è stata compiutamente descritta, la risposta non può essere impugnata. La tutela giurisdizionale dovrebbe quindi esperirsi in maniera piena nel ricorso avverso l’accertamento.

L’orientamento manifestato appare inequivoco: il diniego di disapplicazione è un atto impositivo, in quanto diniego di agevolazione. Ciò significa che il giudice tributario può sindacarne il merito (si rammenta a tale riguardo che il processo tributario è di «impugnazione-merito»). Quanto agli effetti, essi sono tutti da verificare: soprattutto considerando che, a seguito dell’annullamento del parere / provvedimento di diniego, gli uffici possono sempre procedere ad attività accertativa applicando, per la determinazione del reddito, le disposizioni dell’art. 30 della L. n. 724/1994 e dell’art. 2, commi da 36-quinquies a 36-duodecies, del D.L. 13.8.2011, n. 138.

In tale sede, se il contribuente non potrà dimostrare la ricorrenza di condizioni oggettive che nel suo caso specifico escludono gli effetti delle norme antielusive citate, l’attività rettificativa e sanzionatoria dell’Agenzia dovrà ritenersi del tutto legittima.

 

L’autotutela

Il potere di autotutela, che comprende i poteri di annullamento d’ufficio, rimozione e convalida degli atti amministrativi invalidi; nonché il potere di revoca e di sospensione degli effetti degli atti medesimi, risponde in primissimo luogo all’interesse dell’ordinamento (sotto il profilo del buon andamento dell’attività amministrativa): ciò nondimeno, non può negarsi all’istituto la suscettibilità a incidere la sfera giuridica del cittadino, al quale è pure concesso, in determinate condizioni, di promuovere tale potere della P.A., nel quadro dei rapporti «dialogici» tra soggetti privati e pubblici.

L’autotutela dell’Amministrazione si connota tuttavia per la sua discrezionalità, nell’ambito della quale l’ufficio competente deve constatare l’esistenza del vizio che inficia l’atto – condizione necessaria ma non sufficiente per procedere all’annullamento – e valutare se esiste o meno un interesse pubblico e attuale all’annullamento dell’atto medesimo2.

L’istituto si pone, dunque, come una forma di salvaguardia rispetto agli esiti indesiderabili dell’atto viziato, il cui mantenimento esporrebbe a disfunzioni dei successivi procedimenti, oltre che al rischio del contenzioso.

Sotto il profilo normativo, guardando in particolare all’Amministrazione finanziaria, l’autotutela è stata espressamente disciplinata dall’art. 68, primo comma, del D.P.R. 27.3.1992, n. 287, e quindi dall’art. 2-quater del D.L. 30.9.1994, n. 564, convertito dalla L. 30.11.1994, n. 656. In attuazione di tale ultimo atto normativo, è stato quindi emanato il D.M. 11.11.1997, n. 37. L’art. 27 della L. 18.2.1999, n. 28 ha infine aggiunto all’art. 2-quater tre ulteriori commi, prevedendo in particolare – al comma 1-bis – il potere di sospendere gli effetti dell’atto che appaia illegittimo o infondato.

In tale contesto, l’Amministrazione può annullare d’ufficio un atto nel caso in cui si ravvisino dello stesso profili di illegittimità (ossia vizi procedimentali/formali) o di infondatezza (ossia vizi di merito: ad esempio, nel caso degli atti a contenuto impositivo, i presupposti dell’imposizione).

Tra le possibili situazioni legittimanti l’esercizio del potere di annullamento rientrano, alla luce del decreto ministeriale del 1997, i casi di errore di persona, di evidente errore logico o di calcolo, l’errore sul presupposto dell’imposta, la doppia imposizione, la mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente eseguiti, la mancanza di documentazione successivamente sanata entro i termini di decadenza, la sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, le detrazioni, i regimi agevolativi precedentemente negati, nonché l’errore del contribuente facilmente riconoscibile dall’Amministrazione.

Si consideri a tale proposito la rilevanza dell’errore dell’agente – nei casi che qui interessano, del contribuente – nei diversi ambiti giuridici: errore sul fatto ed errore di diritto, il primo ritenuto rilevante in campo penale, ex art. 47, c.p., il secondo accolto quale esimente dall’applicazione delle sanzioni tributarie amministrative, ma anche (in quanto situazione deficitaria del requisito psicologico imposta dalle norme) delle sanzioni penali di cui al D.Lgs. n. 74/20003. L’errore di diritto evoca inoltre quella situazione di scarsa chiarezza e di non inequivoca formulazione della norma che, insieme alle altre fonti di incertezza (contraddittorietà della prassi, contrasti giurisprudenziali …) può legittimare la proposizione di interpello – a norma dell’art. 11 della L. n. 212/2000 – finalizzato a ottenere un parere qualificato da parte dell’Amministrazione.

L’esercizio del potere di autotutela è limitato dall’esistenza di un giudicato, il quale però, per poter risultare «preclusivo», dev’essere sostanziale, cioè riguardare il merito della controversia.

L’autotutela può o meno scaturire da un’istanza del contribuente, ovvero prevedere, ai sensi della richiamata L. n. 212/2000, l’attività di impulso del Garante del contribuente; a seguito dell’annullamento dell’atto viziato, decadono automaticamente tutti atti ad esso consequenziali(ad esempio, per l’accertamento, gli atti della riscossione), con il connesso obbligo di restituzione delle somme indebitamente riscosse.

 

Il problema dell’impugnabilità

In quanto atto che faccia seguito a una specifica istanza, l’autotutela – o, meglio, il suo diniego – ha dato luogo a problematiche quanto alla possibilità di attivare per essa una forma di tutela giurisdizionale. Sotto tale profilo, evidentemente, l’istituto doveva essere inquadrato sotto il profilo giuridico non più come espressione delle «guarentigie» della P.A., bensì come alveo di posizioni giuridiche soggettive del contribuente (del cittadino), di per sé meritevoli di una salvaguardia giuridica avanti un giudice terzo.

Per quanto attiene alla possibilità di impugnare atti non espressamente indicati nell’elenco dell’articolo 19 del decreto legislativo n. 546 del 1992, e all’estensione della giurisdizione delle commissioni tributarie, merita evidenziare che la sentenza delle SS.UU. della Cassazione Civile del 10 agosto 2005, n. 16776, ha affermato quanto segue: «la riforma del 2001 ha (…) comportato una modifica dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992; l’aver consentito l’accesso al contenzioso tributario in ogni controversia avente ad oggetto tributi, comporta infatti la possibilità per il contribuente di rivolgersi al giudice tributario ogni qual volta la Amministrazione manifesti (anche attraverso la procedura del silenzio-rigetto) la convinzione che il rapporto tributario (o relativo a sanzioni tributarie) debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare (in assenza di simile manifestazione di volontà espressa o tacita non sussisterebbe l’interesse del ricorrente ad agire in giudizio ex articolo 100 del codice di procedura civile)». «(…) sussiste nella materia in esame la giurisdizione tributaria anche in ordine alle impugnazioni proposte avverso il rifiuto espresso o tacito dell’Amministrazione a procedere ad autotutela; così come ripetutamente riconosciuto dalla giustizia amministrativa».

Per quanto attiene alla posizione espressa in ambito giurisdizionale amministrativo, è opportuno rammentare l’orientamento del Consiglio di Stato espresso nella sentenza n. 6269 della sezione IV del 9.11.2005.

In tale sede, era ritenuta rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo il ricorso proposto dal contribuente avverso il provvedimento con il quale la direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate aveva respinto l’istanza di sospensione della riscossione delle somme iscritte a ruolo con la cartella esattoriale. Il potere di sospensione era infatti ritenuto espressione non del potere cautelare in senso stretto, associato alla giurisdizione tributaria, bensì – quale atto proveniente dalla stessa Amministrazione finanziaria – del potere di autotutela, di fronte al quale la posizione del contribuente veniva a configurarsi quale interesse legittimo, con la conseguente giurisdizione del G.A.4.

 

La sentenza n. 7388 del 2007

La sentenza delle Sezioni Unite civili della S.C. n. 7388 del 27.3.2007 ha recato importanti precisazioni in materia, riaffermando che, successivamente alla devoluzione alle Commissioni di tutte le questioni «tributarie», anche le controversie in materia di diniego di autotutela spettano al giudice tributario.

La vertenza era sorta, nel caso di specie, dall’istanza presentata dal contribuente, e vedeva contrapposto quest’ultimo all’Amministrazione in un giudizio per conflitto di giurisdizione, mentre il merito della controversia riguardava l’esistenza dei presupposti per beneficiare del regime agevolativo (collegato allo status di coltivatore diretto).

In tale prospettiva sono stati valorizzati i principi già espressi nella succitata sentenza della sezione tributaria del 2005, puntualizzando che l’estensione della giurisdizione tributaria ha di fatto comportato l’allargamento dei confini dell’art. 19 del decreto sul contenzioso.

Sotto il profilo dei rapporti con l’ambito della giurisdizione amministrativa, la Corte ha altresì precisato che « … la natura discrezionale dell’esercizio dell’autotutela tributaria non comporta la sottrazione delle controversie sui relativi atti al giudice naturale, la cui giurisdizione è ora definita mediante una clausola generale, per il solo fatto che gli atti di cui tale giudice si occupa sono vincolati». Infatti, l’attribuzione al giudice tributario di una controversia in tema di interessi legittimi non incontra un limite nell’art. 103 Cost., giacché « … non esiste una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore del giudice amministrativo, potendo il legislatore attribuire la relativa tutela ad altri giudici (…)».

 

È inoltre posto in evidenza dalla Corte che:

  • l’invasione, da parte del giudice, della sfera discrezionale propria dell’esercizio dell’autotutela comporterebbe un superamento dei limiti esterni della giurisdizione attribuita alle commissioni tributarie;

  • sulla base della normativa in materia di autotutela e del relativo decreto ministeriale attuativo, i poteri di annullamento d’ufficio e di revoca dell’Amministrazione finanziaria possono essere esercitati soltanto nel perseguimento di interessi pubblici;

  • in particolare, ai sensi dell’art. 3 del regolamento, nell’esercizio di tali poteri va data priorità «alle fattispecie di rilevante interesse generale e, fra queste ultime, a quelle per le quali sia in atto o vi sia il rischio di un vasto contenzioso»;

  • l’esercizio del potere, che non richiede istanza di parte, non costituisce un mezzo di tutela del contribuente, sostitutivo dei rimedi giurisdizionali;

  • nel giudizio contro il mero ed esplicito diniego dell’autotutela può esercitarsi un sindacato solamente sulla legittimità del rifiuto, e non sulla fondatezza della pretesa tributaria;

  • il carattere discrezionale dell’autotutela comporta l’inapplicabilità dell’istituto del silenzio-rifiuto, non esistendo, all’epoca dell’atto impugnato, alcuna specifica previsione normativa in materia.

La sentenza più recente tra quelle che vengono qui esaminate è la n. 9669 del 23.4.2009, emanata dalle Sezioni Unite civili per:

  • riaffermare (contro l’avversa opinione del giudice di merito) la giurisdizione delle Commissioni tributarie sull’impugnativa del rifiuto di autotutela;

  • dichiarate l’improponibilità della domanda, che sostanzialmente era volta a promuovere una pronuncia sul merito della controversia, laddove invece avrebbero dovuto essere tempestivamente impugnati (entro il termine normativamente stabilito di 60 giorni) gli atti impositivi emessi dagli uffici.

 

Il risarcimento del danno da parte dell’amministrazione

Il potere di autotutela consente all’amministrazione di rimuovere gli effetti di un provvedimento illegittimamente adottato, ma – evidentemente – non fa venir meno la tutelabilità dei diritti dei contribuenti in sede civile.

A tale riguardo si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 5120 del 3.3.2011, innescata dal ricorso per cassazione dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza con la quale il Giudice di Pace aveva condannato l’Agenzia stessa al risarcimento dei danni, oltre agli interessi legali.

La contestazione, nel caso di specie, derivava dall’erronea richiesta di somme con più avvisi di accertamento, ai quali aveva fatto seguito la notifica della cartella esattoriale e il pagamento da parte del contribuente, poi oggetto di rimborso da parte dell’ufficio, accortosi si aver commesso un errore contabile.

Richiamando i propri precedenti indirizzi giurisprudenziali, la S.C. ha osservato che «l’attività della pubblica amministrazione, anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi nei limiti posti dalla legge e dal principio primario del neminem laedere, codificato nell’art. 2043 c.c., per cui è consentito al giudice ordinario accertare se vi sia stato da parte della stessa pubblica amministrazione, un comportamento doloso o colposo che, in violazione di tale norma e tale principio, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo».

L’amministrazione pertanto, alla luce dei principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., che si pongono come limiti esterni alla sua attività discrezionale, è tenuta a subire le conseguenza stabilite dall’art. 2043 c.c.

«È ovvio che, nel caso in specie, il comportamento tenuto dalla Pubblica Amministrazione, violando le più comuni regole di prudenza e di diligenza, ha causato un danno economico al sig. [Omissis] che non può che essere risarcito e che comprende, tra l’altro, le spese sostenute dallo stesso per il commercialista e per le varie trasferte verso l’ufficio della Pubblica Amministrazione, nonché le spese accessorie e consequenziali sostenute per conferire con la Pubblica Amministrazione».

 

I più recenti indirizzi della Corte

Alcune pronunce recenti circoscrivono ulteriormente il campo dell’impugnazione dell’autotutela: in particolare, l’ordinanza della S.C. n. 10020 del 18.6.2012 riafferma che «contro il diniego dell’amministrazione di procedere all’esercizio del potere di autotutela può essere proposta impugnazione soltanto per dedurre eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa tributaria (…). Giacché fuori dalla ridetta situazione, l’atto con il quale l’amministrazione finanziaria manifesta il rifiuto di ritirare in autotutela un atto impositivo divenuto definitivo – stante la relativa discrezionalità – non è suscettibile di essere impugnato innanzi alle commissioni tributarie (…)».

Per quanto attiene all’autotutela, il giudice – secondo la sentenza richiamata – non può quindi procedere a un esame nel merito della controversia, ma deve limitarsi ai profili di illegittimità dell’atto.

Tale limitazione non sembra invece valere per quanto riguarda i processi sui dinieghi di disapplicazione, i quali, a quanto sembra, possono riguardare il merito della controversia. Con quali effetti reali o potenziali, è difficile dirlo.

A tale riguardo è opportuno guardare anche a un’altra pronuncia della Corte – ordinanza n. 11127, depositata il 3.7.2012 -, la quale ha trattato la problematica dell’impugnazione del provvedimento di diniego di annullamento in autotutela in relazione alla domanda di sgravio dell’IVA richiesta da una cartella esattoriale relativa all’anno 2000.

Secondo la Corte, la risoluzione della questione sembra poter essere risolta in base all’orientamento «secondo cui è da ritenersi inammissibile l’impugnazione del provvedimento con il quale si opponga un rifiuto alla domanda di procedere in via di autotutela all’annullamento di precedente atto impositivo, trattandosi di attività discrezionale».

La causa è stata quindi rinviata ad altra sezione della CTR Lombardia, «la quale procederà al riesame e, quindi, sulla base del quadro normativo di riferimento e dei principi alla relativa stregua affermati, deciderà nel merito, ed anche sulle spese del giudizio di cassazione, offrendo congrua motivazione».

 

3 ottobre 2012

Fabio Carrirolo

1 Le ipotesi di improcedibilità, previste dalla prassi pregressa dell’Agenzia delle Entrate, sono state tutte trasformate in ipotesi di inammissibilità dalla circolare n. 32/E del 2010.

2 Cfr. P. Borrelli – S. Capolupo – F. Carrirolo – G. Tucci, «Contribuenti e Fisco: un percorso di collaborazione», Il Sole 24 Ore, 2007 – S. Capolupo, cap. 7, «L’autotutela», pp. 541 e ss..

3 Si veda sul punto la C.M. 10.7.1998, n. 180/E.

4 Cfr. M. Villani, «Problematiche sull’autotutela», Il Commercialista Telematico (www.https://www.commercialistatelematico.com).