Le dichiarazioni rese da terzi nel P.V.C.

quale valore processuale hanno le dichiarazioni raccolte dai verificatori ed inserite nel p.v.c., stante il divieto di utilizzare prove testimoniali nel processo tributario?

Aspetti generali

Nel confronto tra contribuenti e uffici fiscali, sia in sede amministrativa che in sede giudiziale, possono assumere una rilevante importanza le dichiarazioni di «terze parti», le quali oltretutto sopperiscono al divieto di prova testimoniale che caratterizza l’ambito giurisdizionale tributario (art. 7, c. 4, D.Lgs. 31.12.1992, n. 546).

In particolare, si sottolinea la valenza delle dichiarazioni inserite nei verbali e nelle dichiarazioni rese in sede di accertamento: va infatti rammentato che:

  • l’ufficio fiscale può disporre l’audizione di persone al fine di acquisire dati o notizie rilevanti (artt. 32, c. 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, e 51, c. 2, n. 2, D.P.R. n. 633/19729;

  • i verificatori civili e miliari possono raccogliere «sommarie informazioni» dai soggetti sottoposti a indagine, o da altri soggetti (ai sensi degli artt. 203 e 267 del c.p.p., come riformulati dagli artt. 7 e 10 della L. 1.3.2001, n. 63).

Una recente pronuncia della Corte di Cassazione, di seguito esaminata (ordinanza 9.11.2011, n. 23397), mette in luce la questione, affermando in sostanza che le dichiarazioni rese da terzi – nel caso di specie, i dipendenti del contribuente sottoposto a controllo – non sono coperte da fede pubblica e, quindi, non giustificano da sole l’emissione dell’avviso di accertamento.

 

Il processo verbale di constatazione in ambito tributario

Nella cornice del procedimento tributario volto al controllo e alla rettifica degli imponibili dichiarati dai contribuenti, il processo verbale di constatazione (pvc) è un documento, redatto a cura dei verificatori, nel quale è fornito il resoconto degli elementi fattuali riscontrati, delle informazioni acquisite sulla situazione economico-patrimoniale dell’impresa, nonché le eventuali proposte di recupero a tassazione di componenti reddituali imponibili, con le sanzioni applicabili.

La verbalizzazione costituisce uno degli aspetti più delicati dell’attività di verifica, in quanto è su di essa che si andrà a fondare l’atto conclusivo della verifica.

Quotidianamente, nel corso del controllo, i verificatori procedono a delle verbalizzazioni.

In esito alla verifica è quindi chiuso il pvc, che è poi consegnato agli uffici fiscali per la successiva attività di accertamento (oltre che al contribuente in funzione di garanzia).

Se il contribuente si rifiuta di ricevere o di sottoscrivere il pvc, i verificatori ne danno atto nel pvc stesso, procedendo alla sua notifica nei modi consentiti dalla legge (art. 60, D.P.R. n. 600/1973, a mezzo messo comunale, messo speciale, o con raccomandata a/r., in conformità alle norme del c.p.c.).

Il pvc ha carattere di atto pubblico e valore probatorio; i fatti in esso attestati si considerano quindi provati fino a querela di falso, ma solo relativamente alla parte del pvc in cui il pubblico ufficiale descrive operazioni materiali accadute in sua presenza o da lui compiute; nessuno speciale valore probatorio va invece attribuito alla parte logico-critica del verbale, contenente le deduzioni ulteriori (di solito argomenti presuntivi) dei verificatori .

Si tratta di un atto istruttorio interno – e quindi non autonomamente impugnabile – strumentale ai fini del successivo accertamento dell’ufficio.

In qualsiasi campo, non solo in quello dei controlli tributari, la funzione primaria del verbale consiste nella rappresentazione fedele degli atti e/o dei fatti, avvenuti alla presenza del verbalizzanti.

Il pvc ha un rapporto diretto con l’avviso di accertamento successivamente emanato, imperniato sulla motivazione dell’attività di controllo, che solitamente si forma nell’attività istruttoria esterna e viene trasfusa nell’atto di accertamento.

La motivazione degli atti impositivi e, in particolare, degli atti di accertamento, descrive l’insieme delle argomentazioni su cui si fonda la pretesa dell’ufficio, con la doppia finalità:

  • di rendere edotto il contribuente delle ragioni di fatto e di diritto su cui tali atti si fondano;

  • di informare il destinatario dell’atto sulle ragioni di un provvedimento autoritativo, che può incidere sulla sua sfera giuridica.

Secondo i Supremi Giudici, l’avviso di accertamento ha carattere di provocatio ad opponendum, soddisfacendo pertanto l’obbligo della motivazione tutte le volte che il suo contenuto sia tale da mettere il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei propri elementi essenziali, e, quindi, di contestarne efficacemente l’an ed il quantum .

 

Motivazione e prova

La motivazione dell’attività accertativa compiuta dall’ufficio fiscale – prescritta dagli artt. 42, D.P.R. n. 600/1973, e 56, D.P.R. n. 633/1972 – non comporta per l’Amministrazione l’obbligo di fornire le relative prove a sostegno, le quali, semmai, devono essere fornite in sede contenziosa.

Occorre tuttavia distinguere tra motivazione e prova, perché potrebbero esserci avvisi di accertamento sicuramente motivati, ma basati su fatti assolutamente non provati.

Nel processo tributario, l’ufficio deve provare i fatti posti a fondamento della pretesa creditoria, poiché esso – in quanto avanza la pretesa – ha l’onere della prova.

La prova documentale, in campo tributario, è rara: vengono quindi spesso utilizzate delle presunzioni, che – ai sensi dell’art. 2727, c.c. – sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto.

A tale proposito, la Cassazione ha più volte affermato che non occorre che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignorato come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, essendo invece sufficiente rispettare un «canone di probabilità» (ciò che generalmente viene indicato nelle pronunce come id quod plerumque accidit).

Quanto alla suscettibilità del pvc a concorrere alla «prova», pronunce anche risalenti della S.C. (cfr. Cass. Sez. I, 17.12.1994, n. 10855) chiariscono che tali documenti «fanno fede fino a querela di falso, esclusivamente per quel che concerne le dichiarazioni su fatti o atti compiuti dai verbalizzanti o da loro direttamente rilevati; mentre vanno dimostrati i rilievi o le infrazioni relativi a condotte non direttamente percepite dai verbalizzanti medesimi».

Le valutazioni dei verbalizzanti, a norma dell’art. 2700, c.c., non sono invece coperte da alcuna efficacia probatoria privilegiata, sicché gli uffici fiscali sono tenuti ad operare una valutazione critica dei dati e degli elementi informativi loro forniti dagli organi competenti a svolgere le indagini ispettive, potendo certamente disattendere le relative valutazioni .

L’avviso di accertamento è spesso motivato per relationem al pvc, sicché l’atto istruttorio interno è utilizzato per il perfezionamento ed il sostentamento dell’atto amministrativo esterno.

Come sostenuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalenti, la funzione di informazione della motivazione è rispettata anche nel caso di motivazione per relationem, quando questa rinvia ad un precedente pvc, se tale atto è in possesso del contribuente ed è idoneo ad illustrare le ragioni della rettifica, in quanto descrive chiaramente tutti i passaggi logici che conducono all’accertamento e pertanto consente l’esercizio del sindacato di legittimità .

 

Le dichiarazioni contenute nel pvc secondo la giurisprudenza

Di fronte agli accertamenti che fondano la propria motivazione – per relationem – su processi verbali di verifica nei quali sono contenute dichiarazioni del contribuente o di terzi soggetti, la giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato che si tratta solamente di indizi.

Diversamente dalla prova testimoniale, infatti, le dichiarazioni contenute nel pvc non sono assunte con le garanzie e le modalità previste nel codice di procedura civile; pertanto, l’accertamento – per essere validamente motivato – non potrà fondarsi solamente su di esse (Cass. 22.3.2000, n. 3427 del 22 marzo 2000; Cass. n. 24200 del 18 ottobre 2006).

La possibilità di far valere comunque (ancorché non come prove in senso proprio) questi riscontri all’interno del procedimento tributario trova supporto nella sentenza della Corte Costituzionale n. 18 del 12-21 gennaio 2000, la quale ha conferito dignità giuridica alle «testimonianza improprie», quali indizi in grado di concorrere a formare il convincimento del giudice (se accompagnati da elementi oggettivi).

La successiva sentenza della Cassazione n. 20353 del 26.6.2007, depositata il 27.9.2007, ha riaffermato che costituisce principio consolidato quello secondo il quale, in tema di contenzioso tributario, le dichiarazioni di terzi raccolte dai verificatori ed inserite nel pvc non hanno natura di prove testimoniali, bensì di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative, e assumono pertanto, il valore probatorio proprio degli elementi indiziari.

Esse devono quindi essere valutate dal giudice entro tali limiti, con la conseguenza che non possono costituire da sole il fondamento della decisione, potendo, invece, essere utilizzate quando trovino ulteriore riscontro nel contesto probatorio emergente dagli atti.

Un orientamento difforme era invece contenuto nella pronuncia della S.C. n. 450 del 13.11.2007 (depositata l’11.1.2008), la quale affermava che costituisce valutazione in fatto, non sindacabile nel giudiziodi legittimità, l’attendibilità riconosciuta alle dichiarazioni di un terzoraccolte dalla Guardia di Finanza, che ben possono da sole costituire laprova della natura fittizia di operazioni economiche e quindi il fondamentodi un accertamento.

La sentenza n. 16418 del 23.1.2008 (depositata il 18.6.2008) ha anch’essa confermato la legittimità dell’avviso di accertamento fondato sulle dichiarazioni di terzi, ritenendo pacifico «che le dichiarazioni di terzi, nel caso di specie clienti, ben possono costituire la base di un ragionamento induttivo circa il reddito presumibile del contribuente. E tale utilizzazione non contrasta con il divieto di assunzioni di prove testimoniali nel processo tributario».

Emerge quindi un andamento non univoco della giurisprudenza di legittimità, la quale, pur non contestando – per le dichiarazioni nel pvc – la natura di elementi indiziari («non prove»), a volte ammette e a volte esclude che esse possano da sole integrare le motivazioni dell’accertamento.

La distinzione tra le dichiarazioni che possono essere accolte in ambito amministrativo, nell’istruttoria e nel contraddittorio, e quelle che, in ambito giurisdizionale, assurgono al rango di prove, è posta bene in luce nella sentenza n. 25333 del 1° dicembre 2009 (udienza del 21.10.2009), la quale ha confermato che «il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio tributario … deve intendersi esclusivamente riferito alla prova testimoniale quale tipico mezzo di prova orale da costituire, in contraddittorio, nell’ambito del processo, e non osta, quindi, a che le dichiarazioni di terzi raccolte dalla polizia tributaria in sede di indagine e quelle rese su fatti tributariamente rilevanti in seno a procedimento penale assumano, ai fini del giudizio tributario, valenza di elementi indiziari, suscettibili di valutazione da parte del giudice nell’ambito complessivo delle risultanze processuali».

 

Gli orientamenti più recenti della Cassazione

Alcune pronunce della S.C. devono essere esaminate con attenzione perché espressione più recente dell’orientamento della giurisdizione di legittimità in ordine alle «prove improprie» costituite dalle dichiarazioni contenute nel pvc:

  • Cass. 30.12.2009, n. 28004 (udienza del 10.11.2009)  il divieto di prova testimoniale nel processo tributario non contrasta con l’utilizzo, ai fini della decisione, delle dichiarazioni che l’amministrazione finanziaria è autorizzata a raccogliere da terzi; tali dichiarazioni tuttavia, perché rese in sede extraprocessuale, rilevano quali semplici elementi indiziari, il cui valore può essere contestato dal contribuente nell’esercizio del suo diritto di difesa (anche se rese nell’ambito di un procedimento penale);

  • Cass. 10.12.2010, n. 24958 (udienza del 30.9.2010)  relativamente all’analoga questione della valenza dell’atto di notorietà, ha affermato che questo ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative, ma è priva di efficacia in sede giurisdizionale: esso assume quindi valenza indiziaria, quale documento facente fede solo riguardo alla data, all’esistenza ed alla provenienza delle dichiarazioni contenute, ma non quanto alla loro attendibilità;

  • Cass. 10.6.2011, n. 12763 (udienza del 2.2.2011)  il divieto di assunzione di talune fonti di prova (giuramento e prova testimoniale) non implica l’inutilizzabilità delle dichiarazioni raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale e rese da soggetti terzi, le quali si pongono come elementi indiziari che, qualora dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, possono assumere natura di presunzione (e quindi fondare la decisione del giudice).

La sentenza del novembre 2011

La sentenza per ora più recente – la qui commentata pronuncia n. 23397 del 2011 – fa seguito a un contenzioso di merito avviato con il ricorso dell’imprenditore accertato, al quale era stata contestata l’omessa esecuzione delle ritenute d’acconto per il lavoratore dipendente.

In sede di verifica, il dipendente aveva individuato la data in cui aveva iniziato a svolgere l’attività alle dipendenze dell’imprenditore.

Tali dichiarazioni, rese in sede di verifica nel pvc, in un momento successivo erano state smentite dal lavoratore stesso con una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà.

Secondo la CTR, il ricorso presentato dall’imprenditore avverso l’avviso di accertamento risultava infondato, poiché alle dichiarazioni rese dal lavoratore nel pvc era attribuito un valore prevalente rispetto a quelle successivamente rese, in ragione della fede privilegiata dell’atto pubblico in cui erano contenute.

Dovendo comparare due tipi di dichiarazioni «non prova», ambedue dotate di semplice valore indiziario, la Cassazione si è dovuta pronunciare, in sostanza, sul punto della valenza dell’atto pubblico (verbale), che, come è noto, fa fede fino a querela di falso (art. 2700, c.c.: «l`atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formata, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti»).

Secondo consolidata giurisprudenza, la valenza privilegiata dell’atto pubblico fino a querela di falso deve intendersi limitata alla provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, alle dichiarazioni rese al pubblico ufficiale stesso e agli altri fatti dal compiuti dal medesimo o che questi attesti essere avvenuti in sua presenza.

Non si estende invece tale valenza alla veridicità delle dichiarazioni rese al pubblico ufficiale da terzi, le quali continuano a costituire elementi probatori liberamente valutabili e apprezzabili dal giudice, unitamente agli altri elementi istruttorii.

Su tale base la Corte ha accolto il ricorso del contribuente, cassando e rinviando la controversia alla CTR della Campania.

 

19 aprile 2012

Fabio Carrirolo