La disapplicazione e l’accertamento sulle società non operative

Per molte società, soprattutto per quelle che operano in ambito immobiliare, la normativa sulle società di comodo rischia di essere particolarmente penalizzante; ecco una rassegna della recente giurisprudenza di merito in tema di interpelli disapplicativi.

Le società non operative

società non operative e accertamento fiscaleLa possibilità di gestire attraverso delle società non operative dei «meri» beni patrimoniali, nell’assenza di un’effettiva attività di impresa, viene contrastata, come è noto, dall’art. 30 della L. n. 724/1994, innovato dapprima dal decreto Visco-Bersani del 2006, e successivamente dalle leggi Finanziarie 2007 e 2008.

La normativa speciale prevede, con riferimento a un arco di tempo triennale, la correlazione tra i beni detenuti dalla società e un reddito minimo presunto (test di redditività), il quale va inteso come una soglia minima convenzionale (ritenuta «congrua» dal legislatore). Se tale soglia non viene raggiunta, viene sostanzialmente presunta la natura non operativa (di comodo) della società, ossia la sua finalizzazione (come «schermo» fittizio) all’indebito ottenimento di vantaggi tributari.

Ai contribuenti è consentito di far valere l’esistenza di «circostanze oggettive» esimenti, in presenza delle quali il competente direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate può disporne la disapplicazione, nelle forme consentite dall’art. 37-bis, ottavo comma, del D.P.R. n. 600/1973.

In epoca recente, peraltro, la normativa speciale sulle società di comodo è stata estesa alle società in perdita per più periodi di imposta (D.L. n. 138/2011).

Mentre la prassi interpretativa ufficiale e la pubblicistica hanno esaminato le più varie problematiche relativamente alla procedura di ruling, e quindi alla possibilità di evitare in via preventiva l’applicazione della norma speciale, è ancora poco considerata la tematica delle attività di controllo ex post, rispetto alle quali il contribuente deve difendersi.

Gli accertamenti sulle società non operative

Sotto il profilo tributario, la società non operativa subisce gli effetti di una norma estranea al «sistema», in forza della quale – sia essa una società personale fiscalmente trasparente, ovvero una società di capitali – non può procedere alla determinazione analitica del reddito secondo le regole delle imprese, dovendo invece effettuare un calcolo piuttosto astratto, che «trasforma» – per così dire – in reddito presunto il semplice possesso di beni dell’attivo immobilizzato.

La semplice mancata o irregolare compilazione del prospetto dedicato – in Unico – all’evidenziazione della situazione di non operatività, nonché dell’eventuale risposta positiva da parte del direttore regionale, che avesse concesso la disapplicazione, costituisce per il Fisco una fonte di innesco per l’attività di accertamento, che non ha bisogno di ulteriori istruttorie.

L’attività dovrebbe quindi poter essere classificata tra quelle oggetto di accertamento «automatico», ex art. 41-bis del D.P.R. n. 600/1973, non preclusive per gli eventuali successivi controlli e approfondimenti.

Il carattere immediato di tali accertamenti, fondati sul semplice riscontro tra due dati (il reddito minimo presunto e quello – inferiore – dichiarato dalla società), esclude la possibilità di formalizzare un controllo preventivo (una verifica fiscale), in esito alla quale potrebbe essere emanato un processo verbale suscettibile di definizione agevolata con la riduzione delle sanzioni.

Rimangono invece aperte le strade della definizione dell’invito al contraddittorio dell’ufficio, ovvero dell’attivazione del contraddittorio nelle forme «classiche» dell’accertamento con adesione: percorso, quest’ultimo, che potrebbe consentire alla società di produrre prove e argomentazioni che non erano state fornite con l’istanza di disapplicazione, legittimando di fatto un riesame di merito della questione.

 

L’ipotesi della disapplicazione parziale

La disapplicazione parziale della norma sulle società di comodo può essere concessa «per imposte» (ad esempio, relativamente all’IVA, o all’IRAP, e non alle imposte sui redditi), ovvero – ciò che rappresenta la situazione più frequente – per cespiti.

Per un determinato asset patrimoniale – ad esempio, un immobile A/10 – può quindi essere stata concessa la disapplicazione, perché in relazione allo stesso sono stati forniti elementi sufficienti aventi carattere di «oggettività»; al contrario, per un altro asset della stessa società – ad esempio, un terreno edificabile -, gli elementi possono essere stati ritenuti insufficienti o incongrui.

In tale ipotesi, gli amministratori della società devono nuovamente effettuare il calcolo del reddito minimo presunto, per verificare se, a seguito della disapplicazione parziale, questo sia uguale o inferiore al reddito effettivo, ovvero per determinare le imposte dovute in base al reddito minimo presunto ridotto a seguito del provvedimento del direttore regionale.

Mentre la disapplicazione integrale, della quale viene resa evidenza in dichiarazione, consente ai contribuenti di determinare il reddito mediante il sistema analitico che caratterizza le imprese commerciali, la disapplicazione parziale conserva quindi l’applicazione dell’art. 30, anche se a valori rideterminati.

Conseguentemente, l’attività di recupero delle maggiori imposte (e irrogazione delle connesse sanzioni per infedele dichiarazione) dovrebbe avvenire anche se la società, risultando destinataria di un provvedimento di disapplicazione parziale, avesse fornito una erronea indicazione in dichiarazione, «segnalando» una disapplicazione totale.

Sembra invece a chi scrive che la semplice omissione in dichiarazione, cioè l’errata/omessa compilazione del quadro RF di Unico, da parte di una società non operativa che avesse ricevuto un provvedimento di disapplicazione «piena», potrebbe comportare la mera applicazione delle sanzioni previste per le violazioni formali1.

Naturalmente, nel caso in cui fosse già stato avviato il procedimento di accertamento, il provvedimento di disapplicazione costituirebbe un valido titolo per chiedere e ottenere l’annullamento dell’atto impositivo in sede di autotutela dell’amministrazione.

 

L’omessa presentazione dell’istanza e il mancato adeguamento alla risposta

Come è noto, l’«interpello disapplicativo» in materia di società di comodo, che viene a configurarsi come «obbligatorio» sulla base degli indirizzi forniti dall’Agenzia delle Entrate con la propria circolare n. 32/E del 2010, consente ai contribuenti di affermare e dimostrare la sussistenza di condizioni oggettive (cioè non attribuibili alla libera determinazione dell’«imprenditore»), le quali possono consentire la disapplicazione della norma, previa valutazione discrezionale da parte del direttore regionale.

È a tale riguardo opportuno rilevare che la corretta presentazione dell’istanza di disapplicazione ha luogo se la stessa viene inoltrata all’Agenzia almeno 90 giorni prima della scadenza del termine ordinario di presentazione di Unico, con riferimento alla dichiarazione del periodo di imposta per il quale la disapplicazione è richiesta.

Se, ricorrendone le condizioni, la società non presenta l’istanza di disapplicazione, tale comportamento viene visto dall’Agenzia come un’ipotesi di sottrazione agli uffici di elementi utili ai fini del controllo, e per tale ragione – secondo le indicazioni della circolare n. 32/E – causa:

  • l’applicazione sia della sanzione di cui all’art. 11, primo comma, lett. a), del D. Lgs. 18.12.1997, n. 471 (omissione di comunicazioni prescritte dall’amministrazione finanziaria), da 258 a 2065 euro;
  • in assenza delle condizioni che legittimino la disapplicazione – l’applicazione delle sanzioni per infedele dichiarazione, nella misura massima prevista dalla legge (corrispondente al 200% della maggiore imposta connessa al recupero effettuato dall’ufficio).

Si evidenzia a tale riguardo che, rispetto all’ipotesi dell’«omessa istanza», viene considerato in modo meno sfavorevole il comportamento del contribuente (società) che, avendo ottenuto risposta negativa all’istanza, regolarmente presentata, non si sia adeguato a tale risposta: quest’ultima rimane infatti (ancorché obbligatoria) non vincolante.

 

Le possibilità della società in sede amministrativa e contenziosa

Sulla base della indicazioni fornite dalla citata circolare n. 32/E del 2010, soci, amministratori e consulenti delle società non operative dovrebbero tener conto delle seguenti circostanze:

  1. è più conveniente presentare comunque l’istanza di disapplicazione, anche potendo prevedere il suo respingimento, che non presentarla, perché in tale ultima ipotesi l’Agenzia riterrà – in sostanza – di essere stata ostacolata nella propria attività di controllo;
  2. il controllo sulla società non operativa non si configura come formale (riscontro dei parametri e delle percentuali), bensì come sostanziale, verificando l’idoneità degli elementi addotti dal contribuente nell’istanza di disapplicazione, e comunque rendendo possibile la ricostruzione della reale situazione di operatività – o non operatività -, anche (si ritiene) con effetti favorevoli al contribuente2;
  3. la predetta circolare n. 32/E ha superato alcuni precedenti orientamenti in merito alla possibilità di ricorrere in via giurisdizionale avverso l’atto di accertamento se non è stata previamente presentata l’istanza di disapplicazione: è stato quindi riconosciuto che il diritto all’impugnativa del contribuente sussiste in ogni caso: da ciò consegue la possibilità per il giudice – nell’ambito del processo di «impugnazione-merito» – di conoscere la questione che non è stata oggetto di ruling, ossia la problematica dell’operatività/non operatività, che può essere dallo stesso giudice risolta autonomamente ovvero mediante consulenza tecnica;
  4. la possibilità di ridiscutere – ovvero di discutere ex novo – la questione dell’operatività della società avanti i giudici tributari, dovrebbe valere anche di fronte all’ufficio fiscale in sede di controllo, alla luce del generale principio del contraddittorio che informa i rapporti tra contribuenti e Fisco: nell’ambito dell’accertamento con adesione l’ufficio preposto ha infatti la possibilità di acquisire le informazioni che non erano state precedentemente prodotte, anche per cause non imputabili alla volontà del contribuente, oltre a valorizzare circostanze nuove suscettibili di riflettersi retroattivamente sulla situazione della società, giustificandone la temporanea non operatività3.

Occorrerebbe infine considerare una questione non irrilevante quanto agli effetti del silenzio in caso di inerzia dell’amministrazione, ossia di comunicazione assente o tardiva del provvedimento di disapplicazione: a norma infatti del sesto comma dell’articolo unico del regolamento attuativo dell’istituto di cui all’art. 37-bis, ottavo comma, del D.P.R. n. 600/1973 – D.M. 19.6.1998, n. 259 -,

«le determinazioni del direttore regionale delle entrate vanno comunicate al contribuente, non oltre novanta giorni dalla presentazione dell’istanza, con provvedimento che è da ritenersi definitivo».

Coordinando tale disposizione con l’art. 20, primo comma, della legge generale sul procedimento amministrativo4 – L. n. 241/1990 -, potrebbe evincersi – in caso di inerzia – un possibile effetto di silenzio-assenso.

 

Le innovazioni introdotte nel 2011

I commi da 36-quinquies a 36-duodecies dell’art. 2 del D.L. 13.8.2011, n. 138, convertito dalla L. 14.9.2011, n. 148 (c.d. manovra di ferragosto 2011), hanno innovato la disciplina in materia di società di comodo:

  • disponendo una maggiorazione del 10,5% sull’IRES;
  • estendendo l’applicazione della maggiorazione alle società che presentano dichiarazioni in perdita fiscale per tre periodi d’imposta consecutivi.

Le nuove disposizioni risultano, come si può facilmente cogliere, alquanto stringenti e penalizzanti per il soggetti che dovessere ricadere entro il meccanismo dell’art. 30 della L. n. 724/1994, soprattutto considerando che le società in perdita possono anche essere pienamente operative, cioè orientate a un’effettiva attività economica. Ora, però, il campo visuale si sposta e si amplia, includendo i fenomeni di seguito indicati in tabella.

 

tipo di società soggetta all’art. 30
elementi critici
circostanze da dimostrare per ottenere la disapplicazione
non operativa «classica» mancato superamento del test di operatività circostanze oggettive che hanno escluso il raggiungimento dei ricavi minimi
non operativa in perdita perdite fiscali per 3 periodi di imposta consecutivi circostanze relative alla genesi (inerenza, etc.) delle perdite

 

Ai sensi del comma 36-septies dell’art. 2 del decreto legge, la norma si applica anche con riguardo alla quota di reddito imputata per trasparenza da una società di comodo ad una società o ente che abbia esercitato l’opzione per la tassazione di gruppo (consolidato fiscale).

Il successivo comma 36-octies prevede che le società di comodo che hanno esercitato, in qualità di partecipate, l’opzione per la trasparenza fiscale (artt. 115 e 116, TUIR), assoggettano autonomamente il proprio reddito imponibile alla maggiorazione e provvedono al relativo versamento.

Il medesimo comma regola anche – al secondo periodo – il caso in cui una società di comodo abbia esercitato, in qualità di partecipante, l’opzione per la trasparenza fiscale: in tal caso, nell’assoggettare il reddito imponibile alla maggiorazione, tale società non deve tener conto del reddito imputato dalla società partecipata.

Le nuove disposizioni, ai sensi del comma 36-novies, si applicano a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge (cioè dal 2012).

Nella determinazione degli acconti dovuti per il periodo di imposta di prima applicazione si assume, quale imposta del periodo precedente, quella che si sarebbe determinata applicando la nuova disciplina.

L’applicazione della normativa speciale in materia di società di comodo, nonché della maggiorazione IRES, è estesa – per effetto dei commi da 36-decies a 36-duodecies – alle società che presentano dichiarazioni in perdita fiscale per tre periodi di imposta consecutivi.

In dettaglio, il comma 36-decies specifica che, nei casi in cui non ricorrano i presupposti per considerare la società non operativa, le società e gli enti che presentano dichiarazioni in perdita fiscale per tre periodi di imposta consecutivi sono considerati non operativi a decorrere dal successivo quarto periodo di imposta. La norma fa comunque salve le clausole di esclusione previste dall’articolo 30 della legge n. 724 del 1994.

Ai sensi del comma 36-undecies, la condizione di società non operativa ricorre anche se per tre periodi di imposta consecutivi le società e gli enti si trovano per due periodi di imposta in perdita fiscale e in uno abbiano dichiarato un reddito inferiore all’ammontare determinato ai sensi dell’art. 30, terzo comma, della L. n. 724/1994 (c.d. reddito minimo presunto).

Le perdite degli esercizi precedenti possono essere computate soltanto in diminuzione della parte di reddito eccedente quello minimo presunto.

Anche queste previsioni si applicano con decorrenza dal periodo di imposta 2012, e nella determinazione degli acconti dovuti per il periodo di prima applicazione si assume quale imposta del periodo precedente quella che si sarebbe determinata applicando la nuova disciplina.

Le innovazioni sopra commentate si sposano alle previsioni introdotte dal D.L. n. 78/2010 (art. 24) in materia di programmazione dei controlli nei confronti delle imprese in «perdita sistemica» (così definite in quanto presentano dichiarazioni in perdita fiscale per più di un periodo di imposta).

Cercando di interpretare la norma sul punto della decorrenza, la prima applicazione della stessa con riguardo al periodo di imposta 2012 indurrebbe a ritenere che la verifica del triennio in perdita (ovvero del biennio in perdita e dell’anno di non operatività secondo i criteri dell’art. 30 della L. n. 724/1994) debba compiersi con riferimento ai periodi di imposta 2009-2010-2011 (per i soggetti «solari»).

La prima dichiarazione fiscale nella quale la nuova situazione potrebbe assumere rilevanza sarebbe così il modello Unico 2013.

Un effetto anticipato delle nuove disposizioni normative si registra però in sede di determinazione degli acconti di imposta, e ciò potrebbe indurre alla presentazione di istanze di disapplicazione già nella prima parte del 2012 (la preventività dell’istanza dovrebbe a tale riguardo far riferimento non alla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione, bensì al termine stabilito per il versamento: 16 giugno 2012 → la preventività sarebbe rispettata in caso di istanza presentata almeno 90 giorni prima, ossia entro il 16 marzo 2012).

La questione esaminata dalla CTR Toscana

Nel presupposto che il parere emesso dall’Agenzia in esito al procedimento di cui all’art. 37-bis, ottavo comma, sia un provvedimento, e come tale sia impugnabile avanti agli organi della giurisdizione tributaria, si registra già in materia di società non operative un diffuso contenzioso, non sull’atto impositivo, ma proprio sul diniego di disapplicazione.

A tale riguardo, si ritiene che il livello di giurisdizione sul provvedimento rappresenti ormai per il contribuente un’ulteriore chance di difesa di fronte all’amministrazione: un’eventuale sentenza a esso favorevole, infatti, caducherebbe l’atto presupposto del successivo – e non ancora attivato – procedimento di accertamento, svuotandolo della sua motivazione.

D’altro canto però, a parere di chi scrive, l’annullamento del provvedimento di diniego non impedirebbe all’amministrazione di procedere – mediante un accesso con i poteri di cui agli artt. 32 e 33 del D.P.R. n. 600/1973, e agli artt. 51 e 52 del D.P.R. n. 633/1972.

Il contenzioso di merito giunto all’esame della CTR Toscana – pronunciatasi con sentenza n. 5 del 30.1.2012 – trae origine dal diniego di disapplicazione della competente direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate, e si innesta non sul provvedimento, bensì sul successivo atto di accertamento e sulla cartella esattoriale.

Nell’accogliere l’appello della società, ha innanzi tutto rilevato la CTR che i giudici di prime cure avevano dedotto l’infondatezza del ricorso (pur procedendo a una parziale rideterminazione degli importi)

«dalla semplice ed astratta considerazione che la direzione regionale della Toscana si fosse pronunciata negativamente sulla istanza di interpello (…) ai fini della disapplicazione della normativa sulle società di comodo, stante il mancato superamento, secondo la valutazione dello stesso ufficio finanziario, di apposito test di operatività».

Osservava però il giudice d’appello che l’accertamento dell’ufficio non aveva enunciato «con qualche concretezza» le motivazioni poste alla base del recupero, limitandosi a valorizzare l’incongruenza del reddito dichiarato rispetto al reddito minimo presunto.

 

La congruità dei canoni di locazione immobiliare

Secondo la ricostruzione effettuata nella sentenza della CTR, la direzione regionale della Toscana aveva focalizzato la propria attenzione sulle proprietà immobiliari della società istante, rilevando, con riferimento all’esercizio 2006, come non rispondesse a verità che la maggior parte dei beni immobili detenuti fosse stata acquistata nella contestuale pendenza di rapporti di locazione venuti in essere per iniziativa dei precedenti proprietari degli immobili (e che, pertanto, non fosse possibile modificare i canoni preesistenti).

Si osserva incidentalmente che la tesi della società, fin dalla proposizione dell’istanza, sarebbe risultata coerente (ove fossero stati provati i fatti da essa società affermati) con la circolare n. 44/E del 9.7.2007, al cui paragrafo 2.5 è affermato che, in presenza di vecchi canoni di locazione,

«salvo eventuali profili elusivi, l’istanza può essere accolta nel presupposto che la determinazione del canone pattuito non è riconducibile alla volontà del contribuente. Questi, invero, è subentrato nel contratto di locazione in corso alla data di acquisto e non ha potuto influenzare il relativo contenuto, definito da soggetti terzi indipendenti».

L’Agenzia aveva dunque ritenuto infondato l’assunto della società in ordine alla impossibìlità di una maggiorazione dei canoni di locazione fino a quando non fossero venuti a scadenza i rapporti in essere con i conduttori, aventi una durata minima di sei anni.

Inoltre, l’Agenzia aveva escluso che i canoni di locazione praticati fossero compatibili con i valori della banca data dell’osservatorio immobiliare (OMI).

Infine, con riguardo a un immobile sito in Forte dei Marmi e acquistato nel 2004, era stata affermata dalla direzione regionale l’assenza di documentazione atta a comprovare che la vetustà del fabbricato avesse richiesto opere di restauro finalizzate alla sua locazione.

Secondo quanto è affermato dalla CTR,

«sotto questo profilo non può che prendersi atto della oggettiva carenza nella decisione della CTP di motivi utili ad avallare le determinazioni del fisco, determinazioni che sono state confermate da detta decisione pressoché integralmente, senza tuttavia dar conto degli elementi sui quali era stato giudicato negativamente il test di operatività della (…) per la corretta applicazione della normativa sulle società di comodo. In particolare è risultata priva di una adeguata verifica la tesi con la quale il 9 maggio 2007 la direzione regionale della toscana, ufficio fiscalità delle imprese e finanziaria, informava nel dettaglio la Farmi delle ragioni del rigetto della istanza di interpello presentata dalla società nel precedente mese di marzo e che proprio alla disapplicazione della normativa in parola era volta.

Tutt’altro che fondata appare infatti la smentita che la (…) avesse “ereditato” più contratti di locazione da precedenti proprietari dei relativi immobili adibiti ad ufficio».

 

In buona sostanza, l’Agenzia delle Entrate aveva ritenuto (peraltro in coerenza con le indicazioni fornite in precisi indirizzi di prassi, come ad esempio la circolare n. 44/E del 2007) che alla ricorrente società «non operativa» fosse possibile incrementare i canoni locativi degli immobili detenuti in proprietà, soddisfacendo così i valori minimi richiesti dal test di operatività.

Diversamente argomentando, la CTR ha affermato la veridicità del «blocco» al canone locativo, disconoscendo inoltre la suscettibilità del valore normale a costituire un valido indicatore dei valori effettivi di mercato, in alternativa rispetto alle percentuali del test, soprattutto dopo la legge Comunitaria 2008 (art. 24, L. 7.7.2009, n. 88), la quale ha modificato gli artt. 13 e 14 del D.P.R. n. 633/1972, disponendo altresì l’abrogazione delle norme sulle rettifiche in base al valore normale per imposte sui redditi e IVA, di fatto ripristinando la situazione  previgente.

Si rammenta a tale riguardo che, secondo quanto ha affermato l’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 25/E del 4.5.2007, n. 25/E [paragrafo 8], richiamando la precedente circolare n. 5/E del 2007,

«con riguardo alle società immobiliari che hanno per oggetto la realizzazione e successiva locazione di immobili, è possibile ottenere la disapplicazione qualora si dimostri l’impossibilità di praticare canoni di locazione utili per superare il test di operatività ovvero per conseguire un reddito effettivo superiore a quello minimo presunto.

Per la determinazione del valore di mercato dei canoni di locazione si potrà fare riferimento ai valori (espressi in euro per mq al mese) riportati nella banca dati delle quotazioni immobiliari dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare, consultabile gratuitamente presso il sito internet dell’Agenzia del Territorio».

Analoghe considerazioni ha fatto la CTR relativamente a una villa di proprietà in Forte dei Marmi, per la quale la società ricercava

«una adeguata collocazione dell’immobile sul mercato, collocazione che non poteva essere sacrificata alla “tempestività” di un canone purché sia».

Accertamento e società non operative: considerazioni di sintesi

L’attività di accertamento in applicazione delle disposizioni speciali in materia di società non operative è ricca di «criticità», in parte dovute alle complicazioni procedurali (ossia al sovrapporsi tra la procedura di disapplicazione, quella di accertamento e il successivo contenzioso, che può concernere sia l’una che l’altra fase).

Inoltre, l’estensione della disciplina in esame alle società in «perdita sistemica» (soprattutto considerando le peculiarità del presente periodo di recessione economica) richiederà nelle istruttorie amministrative un vaglio particolarmente attento, onde distinguere chiaramente le situazione di abuso da quelle di oggettiva difficoltà (manifestate dalle perdite dell’attività economica).

In questo contesto, la CTR Toscana – con sentenza comunque impugnabile per cassazione – ha in sostanza superato il sistema di presunzioni per effetto delle quali l’argomento della società (impossibilità di adeguare i canoni locativi) era stato ritenuto insincero.

A tale riguardo può solo osservarsi che, in verità, nel meccanismo ex art. 37-bis, ottavo comma, è solo consentito di adire l’amministrazione per ottenere la disapplicazione nel caso specifico di una norma tributaria che – ordinariamente, in assenza di istanza – produrrebbe i propri effetti giuridici.

Il regime ordinario di imposizione per le società non operative, quindi, è quello derivante dall’applicazione del doppio test (operatività + ricavi minimi), e l’amministrazione ha solo la facoltà (non certo l’obbligo) di concedere la disapplicazione, allorquando il contribuente-società riesca a «convincerla» attraverso idonei riscontri documentali.

Non si tratta, tuttavia, di un procedimento di accertamento: e l’accertamento potrebbe (dovrebbe) infatti arricchire le proprie motivazioni attraverso elementi ulteriori rispetto a quelle contenute nel provvedimento di disapplicazione (mediante l’esercizio di tutti i poteri previsti dal D.P.R. n. 600/1973 e dal D.P.R. n. 633/1973).

Il contenzioso era, nel caso di specie, proprio avverso l’accertamento: però i giudici, decidendo nel merito, di fatto si sostituiscono all’amministrazione concedendo «a monte» la disapplicazione.

Inoltre, occorrerebbe meditare sul disconoscimento dei criteri di valutazione «normale» degli immobili e dei canoni, considerando l’estensione fatta dalla Commissione dei principi della richiamata legge comunitaria del 2008.

 

29 marzo 2012

Fabio Carrirolo

 

NOTE

1 Si tratta della sanzione di cui all’art. 8, c. 1, D.Lgs. n. 471/1997, da un minimo di 258 a un massimo di 2.065 euro.

2 Si pensi alla società che non abbia presentato alcuna istanza, e che a seguito di controllo fiscale venga qualificata come operativa: a parte l’applicazione della sanzione per la violazione formale (riferita alla mancata presentazione dell’istanza), l’ufficio non potrebbe ricostruire alcun maggiore imponibile, fatta salva l’ipotesi in cui vengano contestate ulteriori situazioni, indipendenti dal rispetto del test di operatività (ad esempio, la società operativa ha indebitamente dedotto dei costi non inerenti).

3 A parere di chi scrive, se l’esito produttivo di un investimento o di un impegno, dopo un prolungato periodo di inattività, dimostra inequivocabilmente che la società non è uno schermo fittizio preordinato all’ottenimento indebito di vantaggi fiscali, l’ufficio dovrebbe poterne tener conto.

4 Afferma la norma citata che «nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide».