Anche il contributo previdenziale è un “tributo”

lo stato di dissesto dell’imprenditore, che prosegue l’attività d’impresa senza adempiere all’obbligo previdenziale e neppure a quello retributivo, non elimina il carattere di illiceità penale dell’omesso versamento dei contributi

Lo stato di dissesto dell’imprenditore – il quale prosegua ciononostante nell’attività d’impresa senza adempiere all’obbligo previdenziale e neppure a quello retributivo – non elimina il carattere di illiceità penale dell’omesso versamento dei contributi. Infatti i contributi non costituiscono parte integrante del salario ma un tributo, in quanto tale da pagare comunque ed in ogni caso, indipendentemente dalle vicende finanziarie dell’azienda. Ciò trova la sua «ratio» nelle finalità, costituzionalmente garantite, cui risultano preordinati i versamenti contributivi e anzitutto la necessità che siano assicurati i benefici assistenziali e previdenziali a favore dei lavoratori. Ne consegue che la commisurazione del contributo alla retribuzione deve essere considerata un mero criterio di calcolo per la quantificazione del contributo stesso(cfr. Cassazione, 11962/2009 e 27641/2003).

 

Questa in breve la sentenza n. 20845 del 25 maggio 2011 con cui la Suprema Corte dà una buona conferma verso la natura tributaria dei contributi previdenziali.

L’obbligo del versamento nasce ex lege in virtù della prestazione lavorativa e deve essere adempiuto comunque (articolo 2, comma 1, legge 638/1983) in quanto finalizzato alla realizzazione dei seguenti obiettivi: assicurare i mezzi economici necessari per provvedere ai benefici assistenziali e previdenziali a favore dei lavoratori; realizzare l’autonomia fra rapporto di lavoro e quello previdenziale (nel senso dell’autonomia dell’obbligo di corrispondere all’Inps le ritenute previdenziali in quanto obbligo che prescinde dall’effettività di una materiale corresponsione della retribuzione (Cassazione 18223/2002); utilizzazione della retribuzione quale criterio di calcolo (parametro) al fine di determinare la commisurazione del contributo avente natura di tributo.

La sentenza, dopo aver preso atto che l’imprenditore aveva versato gli stipendi ai dipendenti, ma non aveva versato anche i relativi contributi previdenziali, ha puntualizzato i motivi del proprio convincimento:

  1. obbligatorietà della prestazione;

  2. destinazione del gettito a fini sociali;

  3. misura della retribuzione quale indice di capacità contributiva.

 

Sono questi gli elementi indispensabili da riscontrare nelle prestazioni imposte, per poterle qualificare come tributi. La scelta della Corte, sia pure in sede penale, segue un percorso già tracciato, ma foriero ora di grandi sviluppi in più sedi.

Una prospettiva – quella aperta dalla giurisprudenza – che infatti può essere utilizzata per una più corretta ed attuale qualificazione dei contributi previdenziali, laddove si concordi sulla inconfigurabilità della contribuzione in termini di corrispettività e soprattutto sull’esistenza di un collegamento fra contributo e spesa dell’ente previdenziale.

Si tratterebbe, dunque, di una vera e propria imposta potendosi parimenti escludere sia la configurazione quale tassa che quale tributo speciale.

La natura di tassa può infatti escludersi perché il rapporto fra il contribuente che versa il contributo previdenziale obbligatorio e lo Stato che deve eseguire la prestazione previdenziale sembra disvelare due prestazioni unilaterali non collegate da alcun rapporto sinallagmatico, e prive di qualsiasi correlazione commutativa.

Rimarrebbe una possibile qualificazione come tributo speciale che – secondo alcuni- emergerebbe dall’enfatizzazione di alcuni dei caratteri della contribuzione quali la destinazione del prelievo ad una spesa pubblica determinata (cosiddetta causa finalis) e la sua ripartizione posta a carico di una circoscritta categoria economica o professionale, di volta in volta individuata in base al criterio del «beneficio» seppur non individualisticamente inteso.

Se però si respinge l’idea di una solidarietà di categoria, in quanto in contrasto con gli attuali principi costituzionali che negano l’esistenza di una capacità contributiva speciale del gruppo, si deve necessariamente concludere per il superamento anche di tale impostazione teorica.

Già, un’apertura verso una unificazione delle procedure di liquidazione, verifica e riscossione coattiva dei tributi e dei contributi previdenziali è certamente il recentissimo D.l. n. 70, pubblicato sulla G.U. n. 110 del 13 maggio 2011 (legge di conversione 12 luglio 2011, n. 106) che all’art. 7 ha introdotto significative disposizioni di coordinamento, mirate alla semplificazione fiscale, ma sostanzialmente ad eliminare le differenze tra le preesistenti procedure relative ai tributi erariali ed ai contributi previdenziali.

Peraltro, va segnalata la nuova tutela offerta al contribuente sottoposto alla verifica congiunta degli ispettori erariali e previdenziali, ai sensi dell’art. 12 dello Statuto del contribuente. La nuova norma prevede ora la possibilità di segnalare al Garante del contribuente anche le verifiche effettuate dagli ispettori previdenziali “con modalità non conformi a legge”, attivando le procedure di autotutela, consistenti, in questo caso, nella cessazione della procedura illegittima e nell’annullamento degli atti procedimentali illegittimi.

Ed ancora, la Suprema Corte, a Sez.Un., con decisione n. 16858 del 2 agosto 2011 ha chiarito che il giudice tributario non può dichiarare il difetto di giurisdizione in seguito alla contestazione degli atti della riscossione con i quali il concessionario recupera anche entrate non tributarie.

Per la Cassazione, il credito vantato dall’agente della riscossione nella controversia non era “tutto di origine extratributaria”. Quindi, il giudice d’appello non poteva declinare la propria giurisdizione. Infatti, cartelle di pagamento, fermi amministrativi e iscrizioni ipotecarie sono parzialmente impugnabili innanzi alle commissioni tributarie se vengono emanati anche per il recupero di entrate che non hanno natura fiscale.

L’intervento del D.L. 31 maggio 2010 n. 78, poi, (convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2010, n. 122) ha riguardato anche la materia previdenziale, radicalmente riformata attraverso la disposizione dell’art. 30, che con decorrenza dal 1°gennaio 2011, prevede la possibilità per l’INPS di procedere al recupero delle pretese creditorie derivanti anche da accertamenti degli Uffici, senza la previa iscrizione a ruolo e notifica della cartella di pagamento.

L’esazione dei crediti conseguenti ad accertamenti contributivi potrà essere effettuata mediante la notifica di un avviso di addebito con valore di titolo esecutivo. Con una chiara scelta sistematica, il legislatore ha dettato nel medesimo decreto regole che potenziano il processo di riscossione tributaria e contributiva.

Le disposizioni sull’efficacia esecutiva degli atti emessi dall’Agenzia delle Entrate e dall’Inps dimostrano come la materia della riscossione sia in costante evoluzione con tendenza all’avvicinamento delle due discipline che, peraltro, ancora non si incontrano in ambito processuale, essendo le rispettive controversie devolute a organi giurisdizionali diversi.

Da tale ricostruzione – che peraltro si inserisce in una linea interpretativa tendente ad una nozione generica di prestazione imposta come dimostra la sentenza pubblicata – dovranno necessariamente discendere conseguenze sistematiche quale una razionalizzazione e sistematizzazione della «categoria dei contributi» ed un ulteriore allargamento dell’oggetto della giurisdizione tributaria.

Tutti segnali di una necessaria ed urgente riforma del processo tributario: il giudice tributario deve essere a tempo pieno e con specifica competenza professionale, tenuto conto della difficoltà e particolarità della materia fiscale e deve essere adeguatamente retribuito; le parti (pubbliche e private) devono essere poste sullo stesso piano processuale senza limitazioni nella fase istruttoria, consentendo la citazione dei testi nonché il giuramento; la norma deve prevedere la possibilità di conciliare anche in grado di appello, logicamente riparametrando le sanzioni, nonché la possibilità di ottenere le sospensive anche in grado di appello, per evitare una buona volta per tutte il contrasto interpretativo recente tra la Corte Costituzionale ed alcuni giudici di merito che ancora oggi negano in grado di appello la sospensiva delle sentenze impugnate. In definitiva, anche in prospettiva della riduzione dei riti processuali prevista dal novellato codice di procedura civile, il processo tributario deve essere disciplinato e gestito come un “vero” processo ordinario, con l’auspicio, peraltro, che possa essere inserito nella riforma della Costituzione.

 

14 febbraio 2012

Maurizio Villani

Iolanda Pansardi