Ricavi e compensi uguali sono

anche i professionisti, oramai è pacifico per la giurisprudenza, sono equiparati agli imprenditori nelle presunzioni relative alle indagini finanziarie sui movimenti bancari

Con due ordinanze di analogo contenuto, sono state sollevate, dalla CTP di Pescara, questioni di legittimità costituzionale del secondo periodo del numero 2 del primo comma dell’articolo 32 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, come modificato dal numero 1 della lettera a del comma 402 e dal comma 572 dell’articolo 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311 – legge finanziaria 2005 -, entrata in vigore il 1° gennaio 2005, nella parte in cui stabilisce che “sono … posti come ricavi o compensi a base delle … rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei … rapporti od operazioni” di natura finanziaria, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nel corso di due giudizi nei quali un professionista aveva impugnato gli avvisi di accertamento delle imposte sui redditi, dell’IVA e dell’IRAP degli anni, rispettivamente, 2003 e 2004, emessi per omessa presentazione delle correlative dichiarazioni.

Secondo il rimettente:

a) la disposizione denunciata, nel testo vigente fino al 31 dicembre 2004, pone la presunzione che i «prelevamenti» (e non anche gli «importi riscossi»), se non giustificati e non contabilizzati e se effettuati da un imprenditore, sono considerati «ricavi» d’impresa, con conseguente inapplicabilità della presunzione ai prelevamenti effettuati da un esercente un’arte o professione;

b) la stessa disposizione, nel testo in vigore il 1° gennaio 2005 ed applicabile ratione temporis nei giudizi principali, amplia la portata di tale presunzione stabilendo che non solo i «prelevamenti», ma anche gli «importi riscossi» (se non giustificati e non contabilizzati) costituiscono «ricavi o compensi», con la conseguenza che la presunzione opera anche nel caso in cui i prelevamenti siano effettuati dagli esercenti un’arte o professione;

c) quest’ultimo testo dell’articolo 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 è applicabile anche ai periodi d’imposta anteriori a quello in corso alla data della sua entrata in vigore e, quindi, riguarda anche le attività di arti o professioni ed i correlativi «compensi» professionali che si presumono percepiti in tali periodi.

 

Pertanto, ad avviso del giudice a quo, la censurata normativa – per effetto del rilevato ampliamento della portata della presunzione, applicabile agli esercenti arti e professioni anche con riguardo agli anni d’imposta anteriori a quello in corso al 1° gennaio 2005 – víola:

a) l’art. 3 Cost., perché: a.1.) assimila irragionevolmente, per il passato, due figure (l’imprenditore e l’esercente un’arte o professione) che seguivano, di norma, diverse regole di gestione dell’attività: l’imprenditore, infatti, aveva cura che la contabilità dei movimenti finanziari dell’impresa rimanesse separata da quella relativa agli altri affari; l’esercente un’arte o professione, invece, utilizzava in modo promiscuo i conti correnti bancari, impiegandoli per finalità sia professionali che familiari ed effettuando, perciò, una molteplicità di operazioni anche di piccolo importo, delle quali di solito non conservava traccia e memoria; a.2.) trascura il fatto che l’assunto secondo cui una spesa “occulta” è finalizzata ad un ricavo “occulto” costituisce una presunzione «generalmente sostenibile», per i suddetti anni d’imposta, se riferita non ad un esercente un’arte o professione, ma ad un imprenditore;

b) l’art. 24 Cost., perché la difesa dei contribuenti che esercitano arti o professioni può essere resa troppo difficile dalla necessità di dover ricostruire a posteriori, con riferimento ai periodi d’imposta anteriori a quello in corso al 1° gennaio 2005, “operazioni professionali per le quali non veniva richiesta – neanche da princípi aziendalistici o civilistici – una contabilità separata” e per le quali, quindi, non è ragionevole pretendere, ora per allora, l’adempimento dell’onere di precostituire una prova contraria “puntuale e documentale”, al fine di consentire in futuro l’indicazione del soggetto beneficiario e superare cosí la presunzione legale di percezione di un compenso professionale.

 

Il rimettente conclude, in punto di non manifesta infondatezza delle questioni, nel senso che la normativa denunciata si pone in contrasto con gli evocati parametri costituzionali, nella parte in cui non prevede che essa “si applichi ai compensi percepiti nell’esercizio di arti e professioni solo a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 311 del 2004” (1° gennaio 2005).

Per il medesimo giudice, infine, le sollevate questioni sono rilevanti, perché, da un lato, non è possibile fornire della disposizione censurata una interpretazione adeguatrice che possa “spingersi … fino al punto di disapplicare la presunzione di corrispondenza di ciascun movimento finanziario non formalmente giustificato a un compenso da attività professionale” e, dall’altro, l’applicazione della presunzione porterebbe ad un risultato “sproporzionato, tenuto conto che al di là della indicazione dei beneficiari e delle incertezze sulla natura dei versamenti, gli imponibili accertati appaiono incongrui rispetto alle condizioni di salute del professionista negli anni in questione e alle medie dei redditi dichiarati da professionisti”.

L’Avvocatura generale dello Stato ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, manifestamente infondate.

L’inammissibilità è eccepita sotto il profilo che le ordinanze di rimessione motiverebbero la rilevanza delle questioni in modo meramente apparente, non chiarendo quale concreto vantaggio il contribuente potrebbe conseguire dalla auspicata pronuncia di illegittimità costituzionale, posto che per la ricostruzione del suo reddito sarebbero comunque applicabili, per effetto della mancata presentazione delle dichiarazioni degli anni 2003 e 2004, le presunzioni previste dall’art. 41 del D.P.R. n. 600 del 1973, piú sfavorevoli per il contribuente (perché non richiedono i requisiti di gravità, precisione e concordanza) rispetto a quelle previste dalla disposizione denunciata.

Nel merito, la difesa statale osserva che:

a) anche prima della legge n. 311 del 2004 – in base alle modifiche introdotte dall’art. 18 della legge 30 dicembre 1991, n. 413 all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, in tema di imposte sui redditi, ed all’art. 51 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’impostasul valore aggiunto), in tema di IVA – gli accertamenti bancari eranoesperibili nei confronti degli esercenti di arti e professioni (comericonosciuto dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 260 del 2000);

b)la legge n. 311 del 2004 si è limitata ad estendere ai professionisti non lapossibilità di accertamento del reddito mediante movimentazioni bancarie, ”ma – se mai – unicamente la norma concernente il regime probatorio deiprelevamenti”, nel senso che a base delle rettifiche sono posti, in qualità di «compensi», i prelevamenti bancari non risultanti dalle scritturecontabili e per i quali il contribuente non indichi il soggettobeneficiario;

c) la presunzione prevista dal denunciato art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 era applicabile al reddito di lavoro autonomo anche anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 311 del 2004, come piú volte affermato dalla Suprema Corte di cassazione.

 

Pertanto, a parere della medesima difesa, le sollevate questioni sono manifestamente infondate perché non sussistono le dedotte violazioni degli evocati parametri; che, in particolare, non è violato l’art. 3 Cost., perché l’inapplicabilità della presunzione ai professionisti (esercenti un’arte o professione) ed ai loro compensi avrebbe comportato un’irragionevole discriminazione tra due categorie di contribuenti e perché, comunque, la stessa Agenzia delle entrate, con la circolare del 19 ottobre 2006 n. 32/E, proprio in considerazione dell’eventuale promiscuità dei conti degli esercenti arti o professioni, ha previsto che le presunzioni a carico di questi siano applicate secondo criteri di proporzionalità e ragionevolezza e, quindi, con valutazioni “non particolarmente rigide e formali”.

Sempre per l’Avvocatura generale dello Stato, non è violato neppure l’art. 24 Cost., perché l’art. 1 della legge n. 311 del 2004 ha «natura procedimentale», con la conseguente “sua possibile e legittima retroattività”, in quanto si limita ad apportare la “regolamentazione istruttoria e probatoria di una particolare ipotesi di movimento bancario” ed a prevedere “in modo vincolato come vada fornita la prova liberatoria” avverso le presunzioni bancarie introdotte, anche a carico dei professionisti, sin dal 1991.

 

Breve nota

Il dettato normativo di riferimento dei controlli bancari/finanziari si rinviene, per le imposte dirette, negli artt. 32, c. 1, n. 2, 5 e 7 del D.P.R. n. 600/1973, e per l’IVA, nell’art. 51, c. 2, del D.P.R. n. 633/1972, così come modificati dai commi 402, 403 e 404, dell’art. 1, dalla legge n. 311/2004 – cd. Finanziaria 2005, e dalle norme introdotte dall’art. 37, cc. 4 e 5, del D.L. n.223/06, conv. con modif. in Legge n. 248/2006.

Tale forma di indagine trae alimento dalla presenza di presunzioni iuris tantum, e dunque dall’inversione dell’onere della prova, posto a carico dei soggetti sottoposti a controllo.

Sulla base del dettato normativo, gli elementi risultanti dal conto sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza per lo stesso fine: pertanto, i prelevamenti, oltre che i versamenti, si considerano ricavi tassabili ai fini delle imposte sul reddito, qualora non sia indicato il beneficiario o non si abbia riscontro nelle scritture contabili tenute dal contribuente.

Ai fini Iva i prelevamenti sono considerati come pagamenti per operazioni passive non autofatturate (limitatamente ai soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili), e sia le operazioni imponibili (desunte dagli accreditamenti) sia gli acquisti (desunti dagli addebitamenti), che sulla base dei conti intrattenuti non trovano riscontro nella dichiarazione, si considerano effettuati all’aliquota che mediamente risulta prevalente o che in prevalenza avrebbe dovuto essere applicata.

In pratica, l’equazione prelevamenti uguale ricavi deriva dal fatto che normalmente le uscite non giustificate riguardano costi sostenuti in nero proprio perché correlati a ricavi non contabilizzati.

Con sentenza n. 802 del 14 gennaio 2011 (ud. del 9 dicembre 2010) la Corte di Cassazione, nel riconfermare la non necessarietà del contraddittorio per le indagini finanziarie, ha ribadito che la locuzione “ricavi”, utilizzata dal legislatore antecedentemente alle modifiche normative apportate dalla legge n. 311 del 2004, ricomprende anche i “compensi “, così che la norma si applicava già, oltre che ai titolati di reddito d’impresa, anche a quelli di lavoro autonomo.

Nel fatto sottoposto ai giudici supremi, il contribuente, si duole, fra l’altro, della violazione, da parte del giudice di appello, dell’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973. “Rileva, invero, il ricorrente che, in sede di accertamento delle imposte suiredditi – ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2)novellato della L. n. 311 del 2004, comma 402 – i dati raccolti dall’Ufficio in sede di accesso ai conti correnti bancari di un contribuente consentono, in forza della presunzione contenuta in detta normativa, di imputare direttamente gli elementi da essi risultanti a “ricavi o compensi”, risultanti dall’attività svolta dal contribuente. L’originario testo dell’art. 32, peraltro, riferiva espressamente tale presunzione ai soli “ricavi” conseguibili in un’attività di impresa, escludendo – almeno nel tenore letterale – i compensi dell’attività svolta dai prestatori di lavoro autonomo”.

La norma novellata consente, invece, agli Uffici finanziari di applicare la presunzione in parola anche nei confronti dei professionisti (come l’odierno ricorrente), fatta salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della propria attività.

E tuttavia, ad avviso del ricorrente, la disciplina introdotta dalla L. n. 311 del 2004, che ha effetto dal 1° luglio 2005, non potrebbe avere efficacia retroattiva e non potrebbe applicarsi, dunque, alla presente vicenda insorta prima della sua entrata in vigore, trattandosi di disciplina ampliativa dell’inversione dell’onere della prova in danno del contribuente.

Per la Corte, l’assunto del ricorrente è infondato e va disatteso. “Ed invero, anche con riferimento al testo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, antecedente l’entrata in vigore della novella del 2004 (temporalmente applicabile alla fattispecie in esame), è del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la norma in questione, e la presunzione in essa contenuta, seppure letteralmente riferibile ai soli “ricavi”, sia da intendersi applicabile anche al reddito da lavoro autonomo, e non solo al reddito di impresa (Cass. nn. 4601/02, 430/08, 11750/08)”.

Di qui la piena utilizzabilità, da parte dell’Ufficio finanziario, nella vicenda oggetto del presente giudizio, della presunzione di ascrivibilità ad operazioni imponibili dei dati raccolti in sede di accesso ai conti correnti bancari del ricorrente.

L’ordinanza che si annota ribadisce, quindi, che la norma in questione è applicabile anche ai lavoratori autonomi, pur se precedentemente alle modifiche apportate dalla legge n. 311/2004, il dettato normativo si riferiva esclusivamente ai ricavi.

La legge 30 dicembre 2004, n. 311 ha esteso, fra l’altro, espressamente l’ambito soggettivo di applicazione normativa ai lavoratori autonomi, così che anche nei confronti dei professionisti sono considerati compensi i prelevamenti e gli importi riscossi dei quali non viene indicato il beneficiario.

 

28 dicembre 2011

Francesco Buetto