Differenza tra reddito e acquisti: l’imprenditore rischia la confisca

In presenza di procedimenti penali l’imprenditore può essere oggetto di confisca se gli acquisti fatti sono sproporzionati al reddito dichiarato e possono essere logicamente riferibili ai reati contestati.

La sentenza della Corte di Cassazione n.25894 del 1 luglio 2011, fornisce un interessante principio in materia di confiscabilità dei beni per un imprenditore; per i giudici di legittimità se viene provata l’esistenza di una sproporzione tra il reddito dichiarato da un imprenditore od i proventi della sua attività economica ed il valore economico dei beni da confiscare e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza di essi, ci possono essere gli estremi per una confisca per equivalente per il solo fatto che esiste uno squilibrio tra quanto indicato nella dichiarazione dei redditi e i possedimenti dell’imprenditore condannato.

 

Il caso

La vicenda nasce a seguito di un ordinanza deliberata nel dicembre 2009 e depositata in cancelleria l’anno successivo, il 17 dicembre 2010, del GIP del Tribunale di una città Toscana che rigettava l’opposizione avanzata da un contribuente imprenditore avverso l’ordinanza emessa dal GUP del Tribunale della stessa città, quale giudice dell’esecuzione, che aveva confermato la confisca dei beni disposta con sentenza del marzo 2009 del Giudice della Udienza preliminare del Tribunale .

 

La difesa

Avverso il citato provvedimento, tramite il proprio difensore, l’imprenditore ha proposto ricorso per cassazione chiedendone l’annullamento per violazione di legge e vizi motivazionali; in particolare nel ricorso si afferma che:

a) col primo motivo veniva sostenuta la preesistenza dell’acquisto degli immobili rispetto alla data di consumazione dei reati contestati, atteso che le condotte di peculato risultavano essere state consumate negli anni tra il 2003 e il 2006 e quindi successivamente alla data di acquisto degli immobili;

b) col secondo motivo si censurava che nulla veniva argomentato in ordinanza in relazione alla dimostrazione della lecita provenienza limitandosi il giudice a interloquire in merito all’interposizione fittizia dei beni;

c) col terzo motivo veniva eccepito che il giudice non aveva tenuto conto della documentazione prodotta;

d) col quarto motivo veniva infine censurata la mancata parziale restituzione del danaro appartenuto al suocero.

 

 

La confisca per equivalente

L’art. 322-ter del codice penale, disposizione inserita dall’art. 3 della la Legge 29 settembre 2000, n. 300, ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della c.d. confisca per equivalente. Con tale espressione si indica il provvedimento ablatorio che viene assunto a seguito di condanna per determinati reati ed in relazione a cose che non rappresentano il profitto o il prezzo del reato commesso, bensì con riferimento a beni o altre utilità nella disponibilità del colpevole e di valore corrispondente al prezzo od al profitto del reato.

Le ragioni che hanno spinto il legislatore ad introdurre nel nostro ordinamento tale istituto sono molteplici. In primo luogo, deve osservarsi come negli ultimi anni le scelte del legislatore in materia di politica criminale hanno cercato fortemente di focalizzare l’intervento repressivo non più sulla persona del delinquente, bensì sul risultato economico dell’attività delittuosa. L’istituto mira a impedire che l’impiego economico dei beni di provenienza delittuosa possa consentire al colpevole di garantirsi il vantaggio che era oggetto specifico del disegno criminoso. La confisca per equivalente, pertanto, trova il suo fondamento e il suo unico limite nel profitto derivato dal reato, non essendo commisurata in alcun modo né alla colpevolezza del reo, né alla gravità dell’illecito, e prescinde dalla pericolosità che in qualsiasi modo possa derivare dalla cosa o dall’uso della stessa.

Per questo motivo, nonostante la definizione codicistica dell’istituto come misura di sicurezza patrimoniale, la dottrina ritiene che “l’effettiva ratio dello stesso consista nel sostanziale ampliamento dell’ambito oggettivo delle cose confiscabili per finalità prettamente sanzionatorie, al più accompagnate dal valore rieducativo insito nella dimostrazione all’autore del reato e ai consociati che ‘il crimine non paga'”.

 

 

L’analisi dei giudici della Cassazione

sentenza corte di cassazionePer i giudici di legittimità il ricorso dell’imprenditore è da ritenersi privo di fondamento e come tale va respinto. Deve rilevarsi che le censure difensive si profilano generiche, posto che, a fronte dell’affermazione del giudice che le condotte illecite risultano dall’accertamento giudiziale come risalenti al 1998 e dunque anteriormente all’acquisto degli immobili in questione, la ricorrente si limita ad assumere la negatoria di tale assunto senza dare alcuna prova della propria asserzione venendo così meno al proprio onere di corredare di autosufficienza il ricorso .

Per i giudici di legittimità, come già affermato dall’orientamento giurisprudenziale della Cassazione, il legislatore nell’individuare i reati dalla cui condanna discende la confiscabilità dei beni ex art. 12 sexies, allorché sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il reddito dichiarato dal condannato od i proventi della sua attività economica ed il valore economico dei beni da confiscare e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza di essi, è necessario che, ai fini della ‘sproporzione’, i termini di raffronto dello squilibrio, oggetto di rigoroso accertamento nella stima dei valori economici in gioco, siano fissati nel reddito dichiarato o nelle attività economiche non al momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma nel momento dei singoli acquisti rispetto al valore dei beni di volta in volta acquisiti.

Per la Corte di Cassazione gli assunti formulati in ricorso altro non sono che semplici valutazioni di fatto non proponibili in sede di ricorso in Cassazione. Di contro, la motivazione del provvedimento gravato dà ampio risalto, con argomentazioni scevre di vizi logici e giuridici, delle ragioni della reiezione dell’istanza di riesame. Sono state infatti richiamate puntualmente dal giudice di merito le approfondite ed esaurienti indagini patrimoniali svolte a carico della ricorrente da cui emerge una redditualità del tutto insufficiente a giustificare la compravendita degli immobili.

Correttamente il giudice rileva che le giustificazioni addotte dal ricorrente, che suggerisce un’alternatività lecita alla provenienza dei fondi per l’acquisto dei beni in questione, erano pienamente confutabili atteso che la somma che si è assunto “essere stata versata dal suocero … in realtà era risultata essere stata versata sul conto corrente di tale soggetto (senza che si desse in ogni caso contezza della provenienza di essa somma) e quindi versata per l’acquisto”.

 

Le conclusioni

Per la Corte di Cassazione le motivazione dell’imprenditore sono da respingere; per i giudici di legittimità scatta il sequestro per il solo fatto che esiste squilibrio fra i possedimenti dell’imprenditore condannato nell’ambito di un’inchiesta per affari illeciti e la sua dichiarazione dei redditi.

 

4 agosto 2011

Federico Gavioli