Il problema della deducibilità delle sanzioni

è emersa la rilevante problematica relativa alla deducibilità (o indeducibilità) delle sanzioni, cioè di quelle somme la cui corresponsione è prevista dall’ordinamento a fronte della responsabilità dell’imprenditore

 

Aspetti generali

Nell’ambito del reddito di impresa, è emersa la rilevante problematica relativa alla deducibilità (o indeducibilità) delle sanzioni, cioè di quelle somme la cui corresponsione è prevista dall’ordinamento a fronte della responsabilità civile, ovvero di violazioni delle norme con rilevanza amministrativa o penale.

La questione non è peregrina, semplicemente considerando che non esistono disposizioni normative che esplicitamente escludono la deducibilità di tali componenti reddituali negativi, i quali trovano solitamente la propria «fonte» in fatti che (anche se antigiuridici) sono inerenti all’attività dell’impresa.

Rispetto a tale problematica si registra un recente intervento della Suprema Corte, la quale ha rifiutato la tesi della deducibilità delle sanzioni affermando – nella sostanza – che esse si pongono al di fuori del reddito, e che inoltre la loro natura afflittiva esclude che possano tradursi in un «vantaggio» per l’impresa sotto il profilo tributario (scaricando peraltro il relativo onere sulla collettività).

Sulla deducibilità (o indeducibilità) delle sanzioni

A fronte di un orientamento volto al disconoscimento della deducibilità delle sanzioni in generale (perché non «strumentali» rispetto all’attività esercitata), si sono registrate posizioni favorevoli ad ammettere il concorso al reddito di impresa delle sanzioni aventi funzione risarcitoria (anziché afflittiva).

I fautori della deducibilità incondizionata fanno tuttavia leva sul principio in base al quale la valenza delle sanzioni in sede tributaria non potrebbe escludersi sulla base di criteri che sono estranei al diritto tributario (relativi alla natura delle sanzioni medesime) e, per l’appunto, sull’assenza di disposizioni specifiche.

Spicca in tale contesto la nozione di «neutralità etica» del Fisco, che non assume posizione rispetto alla «riprovabilità» giuridica, morale, sociale, del comportamento sanzionato, limitandosi a richiedere l’applicazione di una norma tecnica(1).

Il problema dei «costi da reato»

Come è noto, il legislatore ha stabilito dapprima la tassazione in linea generale dei proventi derivanti da illecito penale, civile e amministrativo (art. 14, quarto comma, L. 24.12.1993, n. 537), e successivamente l’indeducibilità dei componenti reddituali negativi riconducibili a fatti, atti o attività illecite (art. 14, comma 4-bis, L. n. 537/1993, come introdotto dall’art. 2, ottavo comma, L. 27.12.2002, n. 289).

In particolare, la disposizione sull’indeducibilità prevede che nella determinazione dei redditi « … non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti».

Come è facile constatare, i costi indeducibili sono quindi questi che si ricollegano a fatti (atti, attività) che danno luogo a reati: ad esempio, le spese di costituzione di una società «cartiera», finalizzata alla commissione di frodi fiscali.

Nulla invece è stato stabilito in ordine ai costi derivanti da altre tipologie di illecito (civili, amministrative), a fronte della loro imponibilità ex art. 14, quarto comma . Trascegliendo entro una serie vastissima di ipotesi, quindi, può essere tassato il provento riveniente dalla cessione di un immobile costruito abusivamente, ma non potrebbe essere negato il riconoscimento fiscale dei relativi costi inerenti.

Ferma restando la regola asimmetrica della tassabilità per tutti gli illeciti e della deducibilità per i soli costi connessi a illeciti amministrativi e civili, occorre valutare l’ulteriore questione della rilevanza delle sanzioni, le quali solo in senso lato possono intendersi come «costi» connessi a una determinata attività.

Le indicazioni dell’Agenzia delle Entrate: le sanzioni non sono «costi»

È a tale riguardo opportuno guardare all’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate nella propria circolare n. 42/E del 26.9.2005, ove è stato chiarito che:

  • le sanzioni Antitrust sono indeducibili in quanto non inerenti rispetto all’attività di impresa (tale soluzione è coerente con la posizione precedentemente espressa nella circolare n. 98/E del 17.5.2000, par. 9.2.6, nonché nella circolare n. 55/E del 20.6.2002, par. 5, e nella risoluzione n. 89 del 12.6.2001);

  • in generale, « … le sanzioni mancano di qualsiasi nesso funzionale con l’attività imprenditoriale ed anzi, in quanto irrogate da un organo estraneo all’impresa, rispondono per definizione ad una finalità extraimprenditoriale, quella repressiva e preventiva del comportamento illecito»;

  • la regola generale della deducibilità dei costi illeciti (purché non derivanti da illecito penale) non si traduce quindi nella possibilità di fruire in deduzione, nell’ambito del reddito d’impresa, anche degli oneri sostenuti a titolo di sanzione amministrativa (o civile-extracontrattuale): le sanzioni non costituiscono infatti «costi» di origine illecita, bensì il frutto della reazione dell’ordinamento al comportamento illecito.

L’interpretazione dell’Agenzia conferma che è preclusa la deducibilità dei proventi generati da illecito penale, ma non dei proventi derivanti da illecito civile e amministrativo, ma – senza entrare nel merito della questione relativa alla «disapprovazione» del comportamento sanzionato, che evidentemente esce dal campo di interessa della normativa tributaria – semplicemente esclude che le sanzioni assumano natura di «costi inerenti».

Le sanzioni Antitrust

Le sanzioni antitrust sono irrogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato nell’abito della sua attività istituzionale di vigilanza, e vanno a colpire i di comportamenti che compromettono o limitano l’altrui diritto di iniziativa economica tutelato dall’art. 41 della Costituzione.

Si tratta di sanzioni direttamente irrogate all’impresa (anziché a una persona fisica determinata), e commisurate al fatturato della stessa. Con le interpretazioni sopra brevemente rammentate, l’amministrazione finanziaria si è espressa sfavorevolmente quanto alla possibilità di dar loro rilevanza nella determinazione del reddito d’impresa, facendo peraltro riferimento a una sentenza del Consiglio di Stato(2), nella quale è stata affermata la natura non risarcitoria, bensì punitiva, delle sanzioni in esame.

La questione sottoposta all’esame della Cassazione

La sentenza della Corte di Cassazione n. 5050 del 3.3.2010 ha di recente affermato che la sanzione consegue alla violazione di un divieto da parte dell’impresa, e non può pertanto qualificarsi come fattore produttivo (concorrente all’economia dell’impresa).

La condotta dalla quale è scaturita l’applicazione della sanzione è infatti non soltanto esterna rispetto alla normale attività imprenditoriale, ma addirittura antitetica rispetto al corretto svolgimento della stessa.

In particolare, nel caso in esame la società ricorrente per cassazione aveva chiesto il rimborso di somme inserite (a suo dire erroneamente) tra le variazioni del reddito imponibile, riferite a sanzioni Antitrust, affermandone la natura di componente reddituale passivo deducibile.

La sentenza della CTR, sfavorevole alla società, era stata da questa impugnata e sottoposta all’esame della S.C., con affermazioni sostanzialmente imperniate intorno all’irrilevanza del carattere illecito del comportamento «a monte».

La soluzione elaborata dalla Corte

Affermando il carattere «amministrativo» delle sanzioni Antitrust, la Cassazione ha puntualizzato che queste, ancorché determinate – in misura variabile – nei limiti del 10% dei ricavi dell’esercizio precedente, non possono qualificarsi come «sopravvenienze passive»: perché ciò si verifichi è infatti necessario che il ricavo abbia concorso a formare il reddito nell’esercizio di competenza, ovvero che si riferisca a ricavi che abbiano concorso a formare il reddito in precedenti esercizi.

In tale contesto, la sanzione non va infatti «… ad incidere su un incremento di reddito, che potrebbe non esservi stato, ma ha soltanto funzione affittiva e deflativa, in funzione di deterrente di futuri possibili analoghi illeciti».

Analogamente a quanto accede per la condanna al risarcimento – la quale non influisce sulla nascita dell’obbligazione tributaria, perché logicamente e cronologicamente successiva al verificarsi del presupposto d’imposta -, la sanzione non esplica effetti apprezzabili sotto il profilo reddituale (non derivando da un’attività connessa all’esercizio di attività d’impresa).

La sanzione non può poi tradursi in un «premio» per le imprese che abbiano violato le norme del diritto positivo, ciò che avverrebbe – secondo la Corte – ove si intendesse riconoscerne la deducibilità.

Considerazioni di sintesi

L’orientamento espresso dalla Cassazione appare coerente con l’impostazione sistematica della questione della deducibilità, che distingue i proventi e i costi «illeciti» dalle sanzioni irrogate in conseguenza delle violazioni.

Il criterio discriminante tra i due ambiti sembra costituito dalla diretta riferibilità a concreti accadimenti economici, apprezzabili nel contesto del «sistema d’impresa», anziché a un fenomeno puramente giuridico, come accade per le sanzioni.

Non si tratta pertanto di attribuire alla normativa fiscale un tenore «etico» che di per sé non possiede, bensì di riconoscere il funzionamento delle norme sul reddito d’impresa per ciò che sono, escludendo quindi la rilevanza delle sanzioni quali «costi» inerenti.

Altre argomentazioni particolarmente convincenti, a parere di chi scrive, sono in verità quelle relative all’insuscettibilità delle sanzioni a essere «traslate» sulla collettività attraverso la deducibilità dal reddito.

La logica che guida l’interpretazione della Corte appare coerente con le rammentate indicazioni dell’amministrazione finanziaria, che dall’antigiuridicità del comportamento fanno discendere la sua estraneità al mondo dell’impresa, e quindi la possibile inerenza del «costo». Tale costo dovrebbe anzi fuoriuscire del tutto dal «reddito», e quindi dalla previsione generale di cui all’art. 109, primo comma, del TUIR.

Quanto sopra affermato è vero per lo meno con riferimento alle sanzioni non penali aventi natura «afflittiva», mentre diverse considerazioni si impongono per le sanzioni «risarcitorie», aventi la funzione di reintegrare il danno extracontrattuale: per queste ultime infatti (senza pretesa di poter esaurire il tema in questa sede), può ipotizzarsi un trattamento parallelo rispetto a quanto previsto, per la tassazione in capo al percipiente, dall’art. 6, secondo comma, del Testo Unico.

Dunque, giacché di regola avviene la tassazione in capo al percipiente (risarcito), alla stregua di proventi conseguiti in sostituzione di redditi, in capo all’«erogante» sanzionato (che operi in regime d’impresa) dovrebbe riconoscersi la deducibilità quali componenti reddituali negativi a pieno titolo.

NOTE

1) Cfr. G. Rebecca, E. Zanetti, «La deducibilità delle sanzioni dal reddito di impresa: qualche riflessione sulle ragioni del “sì” e del “no”»Il fisco n. 38 del 21.10.2002, pag. 1-6052.

2)  Cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, dec. 20.3.2001, n. 1671.

6 aprile 2010

Fabio Carrirolo