Accertamento induttivo a presunzione di compensi fuori busta al dipendente

Nel caso di accertamenti induttivi verso un contribuente a cui si contesta di aver percepito compensi fuori dalla busta paga, l’onere di provare l’evasione del datore di lavoro spetta al Fisco che non può delegare tale prova al giudice tributario.

 

“La mancata esibizione di idonea documentazione è stata inequivocabilmente avvalorata dall’amministrazione con la censura concernente la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, commi 3 e 4, ovverosia per il mancato esercizio di poteri istruttori ufficiosi da parte del giudice di secondo grado.

In proposito questa Corte ha più volte affermato il principio secondo cui, a fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del soggetto onerato il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d’ufficio le prove in forza dei poteri istruttori attribuitigli dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, perchè tali poteri sono meramente integrativi dell’onere probatorio principale e vanno esercitati, al fine di dare attuazione al principio costituzionale della parità delle parti nel processo, soltanto per sopperire all’impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell’altra parte” (giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione).

 

La sentenza impugnata ha accolto il principio sopra esposto e la Corte ha rigettato l’appello poiché si era in assenza di qualsiasi prova, attese le doglianze generiche in ordine al negato rilievo probatorio della documentazione extra contabile, mai messa peraltro a disposizione della commissione di primo e secondo grado, gli elementi probatori presuntivi,

“venivano a mancare di quel carattere di gravità, univocità e rilevanza che debbono contraddistinguerli per addivenire a livello di prova”. “

 

In particolare, un lavoratore dipendente della società oggetto della sentenza in commento, impugnava l’avviso di accertamento ai fini dell’IRPEF per il periodo d’imposta 1991 emesso, in relazione a compensi “fuori busta”, a seguito della verifica eseguita presso quest’ultima dalla Guardia di finanza di Como.

La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, rilevando che in sede di verifica presso la società si era evidenziato un rilevante ammanco, e dalle dichiarazioni dei dipendenti e dei responsabili era emerso che parte delle some mancanti erano state corrisposte, come compensi fuori busta, ai dipendenti di vari cantieri.

I documenti extracontabili esibiti, posti a fondamento dell’accertamento venivano ritenuti,

“costituire una semplice presunzione che, in mancanza di riscontri più diretti facenti capo al contribuente, non poteva assumere il valore di prova dell’effettiva riscossione di compensi fuori busta e quindi dell’evasione contestata”.

 

La Commissione tributaria regionale rigettava il gravame, ritenendo la mancanza di qualsiasi prova, in quanto non era stato prodotto

“il processo verbale, con eventuali allegati oltre alle dichiarazioni degli interrogati… anche unitamente ad uno stralcio o una fotocopia, sia pure incompleta, del brogliaccio”, che avrebbero consentito al contribuente una più adeguata presa di conoscenza, ed eventualmente una difesa di merito, e quindi ad esso giudice d’appello “la possibilità di esame di un materiale probatorio più o meno esaustivo sul quale esprimere il proprio convincimento”.

 

Il Ministero delle finanze e l’Agenzia delle entrate, propongono ricorso per cassazione, sostenendo, tra l’altro, che il giudice tributario, in mancanza di prove, può compiere accertamenti anche di ufficio.

Si dispone così la riunione al ricorso.

Per prima osservazione, si precisa che i ricorsi sono identici e vanno riuniti per essere definiti con un’unica decisione.

 

In particolare la Corte sostiene che:

  • l’amministrazione ricorrente denunciando “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, commi 3 e 4, nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3”, sostiene che il D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 39, conferirebbe valore di prova anche a contabilità informale ed occulta, in modo che il rinvenimento di una seconda contabilità informale costituirebbe indizio grave, preciso e concordante dell’esistenza di imponibili non registrati nella contabilità ufficiale, valido per sorreggere l’accertamento induttivo ai fini delle imposte dirette e dell’IVA;

  • la CTR omesso di chiedere, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3, il deposito dei documenti emergenti dagli allegati all’avviso di accertamento, compreso il verbale di sommarie informazioni che richiamava tutta una serie di documenti comprovanti la fondatezza dell’accertamento.

 

Il ricorso è da considerare infondato e va rigettato, in quanto:

  • per all’asserita violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, il giudice d’appello non ha negato l’utilizzabilità degli atti indicati dai quali emergerebbe la “seconda contabilità informale”, ma si è limitato a riscontrare l’omessa produzione di tale seconda contabilità informale, definendo di conseguenza del tutto privi di qualsiasi supporto probatorio gli elementi indiziari posti dall’ufficio a fondamento della sua pretesa.

 

La mancata esibizione di idonea documentazione è stata avvalorata dall’amministrazione con la censura concernente la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, commi 3 e 4, ovverosia per il mancato esercizio di poteri istruttori ufficiosi da parte del giudice di secondo grado.

La Corte precisa che è sua giurisprudenza consolidata il principio secondo cui,

“a fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del soggetto onerato, il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d’ufficio le prove in forza dei poteri istruttori attribuitigli dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, perchè tali poteri sono meramente integrativi dell’onere probatorio principale e vanno esercitati, al fine di dare attuazione al principio costituzionale della parità delle parti nel processo, soltanto per sopperire all’impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell’altra parte”.

 

Respingendo il ricorso e confermando la sentenza della Commissione Tributaria Regionale, la Corte ha rilevato che, in virtù del disposto dell’art.2697 del codice civile, chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.

 

In sintesi, il fisco nel caso di accertamenti induttivi nei confronti di un contribuente contestandogli di aver percepito dal datore di lavoro compensi fuori dalla busta paga, ha l’onere di provare l’evasione del datore di lavoro, e non può delegare tale prova al giudice tributario.

 

6 febbraio 2010

Sonia Cascarano