Associazioni e società tra professionisti: conferimento, recesso dei soci, cessione dello studio

Nell’associazione tra professionisti, l’elemento caratterizzante dello studio associato è dato dalla possibilità per il singolo professionista di compiere negozi giuridici sia mediante la stipula sia mediante l’esecuzione del contratto.
Larga maggioranza degli studi associati esistenti ha adottato statuti e forme organizzative che si rifanno a quelli delle società di persone.

Legge Bersani e società tra professionisti

associazione tra professionistiRiguardo l’esercizio in forma associata delle professioni intellettuali c.d. <<protette>>,  la Legge 23.11.1939, n.  1815 conteneva:

  • L’obbligo di ricorrere alla forma dello studio associato e l’obbligo di comunicazione agli Ordini (art. 1);
  • il divieto di adottare la forma societaria o altre forme diverse dallo studio associato (art. 2). 

 

L’art. 24 della Legge 7.8.1997, n. 266 (Legge Bersani) ha abrogato l’art. 2 della suddetta Legge n. 1815/1939, in particolare il comma 2 del citato art. 24 ha previsto l’emanazione da parte del ministero di Grazia e Giustizia, di un decreto, mai pubblicato, che avrebbe dovuto fissare i requisiti per l’esercizio dell’attività professionale in forma societaria.

Attualmente la disciplina giuridica sugli studi associati è, pertanto, contenuta nell’art. 1 della Legge n. 1815/1939, il quale impone, accanto alla dizione “studio associato”, la specificazione del nome e cognome con i relativi titoli professionali dei singoli associati.

Lo studio associato é privo di personalità giuridica ma la legge ne conferisce capacità di porsi come centro autonomo di rapporti giuridici.

 

Elemento caratterizzante dello studio associato

Nell’associazione tra professionisti, l’elemento caratterizzante dello studio associato è dato dalla possibilità per il singolo professionista di compiere negozi giuridici sia mediante la stipula sia mediante l’esecuzione del contratto.

Larga maggioranza degli studi associati esistenti ha adottato statuti e forme organizzative che si rifanno a quelli delle società di persone.

 

 

Associazione tra professionisti (Legge n. 1815/1939): i caratteri peculiari

associazione professionale

La legge n. 1815/1939 disciplina solo alcuni aspetti della disciplina dell’associazione tra professionisti.  In particolare, l’art. 1 impone ai professionisti di utilizzare la dizione di studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario seguito dal nome e cognome, con i titoli professionali, degli associati. 

Viene, inoltre, imposta la notificazione dell’esercizio associato della professione all’organizzazione sindacale da cui sono rappresentati i singoli associati. 

Secondo la Corte di Cassazione è possibile l’esclusione di uno degli associati sulla base della delibera presa da tutti gli altri associati (fatta eccezione dell’escludendo).

La Suprema Corte (Cass. 16 aprile 1991, n. 4032)  ha stabilito che:

L’associazione tra professionisti si caratterizza per la natura di contratto associativo atipico regolato dalla volontà delle parti;

  • l’associazione è diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c.;
  • l’associazione tra professionisti (qualora i rapporti tra professionisti e i relativi apporti si basino sulla totale pariteticità) per regolare i rapporti interni tra i propri associati può adottare le regole organizzative dettate per la società semplice, senza per ciò divenire tale;
  • l’associazione tra professionisti può prevedere dei patti, per la risoluzione del rapporto contrattuale in seguito ad inadempimento di una o più parti, in difformità con quanto contenuto nel codice civile.

 

Contenuto del contratto associativo

Pertanto, il contratto associativo deve indicare con chiarezza e precisione:

  • i conferimenti degli associati, specificando la collaborazione effettivamente svolta all’interno dello studio o i mezzi conferiti per lo svolgimento dell’attività, quali denaro, beni, rapporti contrattuali;
  • i beni o i rapporti che devono essere restituiti al socio in caso di scioglimento del rapporto;
  • la garanzia ed i rischi dei conferimenti;
  • la ripartizione dei guadagni e delle perdite;
  • la restituzione dei beni conferiti in godimento;
  • la liquidazione della quota del socio receduto.

Ove il contratto associativo non prevede nulla, allora si applicano le norme del codice civile sulle società personali.

 

Conferimenti nello studio associato

L’art. 2253 c.c. dispone che

<<il socio è obbligato a eseguire i conferimenti determinati nel contratto sociale. Se i conferimenti non sono determinati, si presume che i soci siano obbligati a conferire, in parti uguali tra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale>>.

I conferimenti possono essere in denaro, in proprietà di beni in natura, in godimento di beni in natura, di credito e di servizi.

 

Nomina degli amministratori

La legge non regola direttamente la nomina degli amministratori, si limita soltanto a disciplinare l’amministrazione. Qualcosa sulla nomina dell’amministratore è rinvenibile nell’art. 2259 c.c. sulla revoca della facoltà di amministrare, ove viene attribuita una differente rilevanza alla nomina contenuta nell’atto costitutivo rispetto a quella contenuta in un atto separato. 

Pertanto, l’amministrazione spetta a ciascun socio illimitatamente responsabile. La nomina dell’amministratore può essere contenuta nell’atto costitutivo oppure può avvenire con un atto separato.

Riguardo le modalità di esercizio del potere di amministrazione la legge stabilisce che in mancanza di diversa pattuizione, l’amministrazione spetta a ciascun socio disgiuntamente dagli altri. L’atto costitutivo può disporre diversamente, prevedendo ad esempio l’amministrazione congiuntiva a più soci (art. 2258 c.c.) o l’amministrazione disgiuntiva ad alcuni di essi (art. 2257, secondo comma).

In caso di amministrazione disgiuntiva, ciascun socio amministratore può compiere gli atti di gestione indipendentemente dagli altri senza neanche l’obbligo della preventiva comunicazione agli stessi in relazione all’atto che deve compiere.

 

Revoca degli amministratori

Nel caso in cui l’atto costitutivo non prevede a chi spetta l’amministrazione della società, il potere di amministrare non può venire meno al socio illimitatamente responsabile se non a seguito di una modificazione del contratto sociale o a seguito dell’uscita del socio dalla società.

Viceversa, la revoca dell’amministratore nominato nel contratto sociale può avvenire solo qualora ricorra una giusta causa, in mancanza della quale la revoca non ha effetto.  In una simile ipotesi, comportando una modificazione del contratto sociale, la revoca dovrà essere adottata ai sensi dell’art. 2252 c.c., cioè con il consenso di tutti i soci, salvo diversa pattuizione. 

Infine, se l’amministratore è nominato con atto separato, la nomina può avvenire mediante le norme sul mandato che consentono la revoca del mandatario in qualsiasi tempo, ma se la revoca avviene senza giusta causa l’amministratore ha diritto al risarcimento dei danni come da art. 1725 c.c. 

Naturalmente, l’ultimo comma dell’art. 2259 c.c., dispone che la revoca per giusta causa può essere richiesta giudizialmente da ciascun socio. In tal modo viene data al socio la possibilità ad agire per la revoca dell’amministratore in tutti i casi sopra specificati (amministratore nominato con contratto sociale, amministratore nominato in atto separato, amministrazione per tutti i soci). 

 

Responsabilità degli amministratori

L’art. 2258 c.c. (amministrazione congiuntiva) stabilisce che è necessario il consenso di tutti i soci amministratori per il compimento delle operazioni sociali.

Tuttavia il contratto sociale può disporre che per l’amministrazione di per sé considerata o per il compimento di determinati atti sia necessario il consenso della maggioranza da calcolarsi secondo la parte attribuita a ciascun socio negli utili.

La norma non consente al singolo amministratore di compiere atti da solo, salvo il caso in cui ricorra l’urgenza di evitare un danno alla società.  L’urgenza di cui all’ultimo comma dell’art.  2258 c.c. va intesa nel senso che il danno non potrebbe essere comunque evitato se esistesse il consenso di tutti gli amministratori.

Per quanto concerne i diritti e gli obblighi degli amministratori trovano applicazione le disposizioni di cui all’art. 2260 c.c. in base al quale si applicano le regole sul mandato.  In caso di violazione dei loro obblighi, gli amministratori sono solidalmente responsabili nei confronti della società, tranne quelli che dimostrino di essere esenti da colpa.

La responsabilità solidale si ha solo quando l’amministrazione viene esercitata congiuntamente o collegialmente, non anche quando essa spetti disgiuntivamente a tutti i soci.

Occorre tenere conto, inoltre, che in regime di amministrazione disgiuntiva ciascun socio amministratore può agire senza informare gli altri. Pertanto la coesistenza della responsabilità solidale degli amministratori ex art. 2260 c.c. e il regime di amministrazione disgiuntiva presuppone che ciascun amministratore abbia il dovere di vigilare sull’attività posta in essere dagli altri. Solo ponendo la necessaria diligenza nella detta vigilanza, l’amministratore può essere esente da colpa.

La responsabilità degli amministratori sussiste nei confronti della società, vale a dire riguarda il danno provocato alla collettività dei soci .

Tuttavia, può sussistere responsabilità anche nei confronti del singolo socio. 

 

Scioglimento del rapporto limitatamente ad un socio

Tale tipo di scioglimento avviene nei casi di morte, recesso ed esclusione.

Nelle società di persone, in caso di morte di uno dei soci (art. 2284 c.c.), salva contraria disposizione del contratto sociale, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società o continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano.

La suddetta norma (coordinata con l’art. 2289 del C.c.), relativa alla liquidazione della quota del socio uscente, prevede tre casi:

  • liquidazione della quota del socio defunto e continuazione del rapporto tra i soci superstiti;
  • liquidazione della quota del socio defunto e scioglimento della società;
  • continuazione del rapporto societario con gli eredi del socio defunto

In materia di società di professionisti, la possibilità di continuazione del rapporto societario con gli eredi trova comunque taluni limiti, dal momento che l’ingresso del nuovo socio è subordinata alla presenza del requisito della professionalità ed onorabilità propri del tipo di attività svolta.  Il contratto sociale può contenere specifiche in tal senso. 

Riguardo la liquidazione della quota spettante al socio, il socio o i suoi eredi hanno diritto soltanto ad una somma di danaro che rappresenta il valore della quota, con la conseguente impossibilità per il socio o gli eredi di pretendere la restituzione dei beni conferiti in proprietà, o in godimento, fino allo scioglimento della società, salva diversa pattuizione.  Il valore della quota deve essere determinato in base alla situazione patrimoniale della società al momento dello scioglimento, tenendo in considerazione le operazioni in corso.

 

La disciplina delle società tra avvocati: forma di s.n.c. e conferimenti dei soci

Il D.Lgs. 2.2.2001, n. 96, di attuazione della direttiva 98/5/CE (per facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui é stata acquistata la qualifica professionale) ha introdotto la possibilità di svolgere la professione forense in forma associata secondo il tipo della società tra avvocati.

L’art. 16 del D.Lgs. n. 96/2001 ha stabilito che l’attività professionale di rappresentanza, assistenza e difesa in giudizio può essere esercitata in forma comune esclusivamente secondo il tipo della società tra professionisti (denominata società tra avvocati).  E’ previsto che la società tra avvocati sia regolata dal suddetto D.Lgs. e, ove non diversamente disposto, dalle norme relative alla società in nome collettivo. 

La società di avvocati è tenuta all’iscrizione in una sezione speciale, relativa alle società tra professionisti del registro delle imprese, che ha la funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia.

La società di avvocati non è soggetta a fallimento ed  è prevista l’iscrizione in una sezione speciale dell’albo degli avvocati tenuto presso il Consiglio dell’ordine nella cui circoscrizione è situata la sede legale (art. 16 e art. 28).

Restano in vigore le disposizioni della legge n. 1815/1939 relative alla costituzione di associazioni tra professionisti.

 

Questi i criteri generali cui ci si è ispirati per la disciplina civilistica del nuovo tipo sociale della società tra avvocati.

<<la società tra avvocati ha per oggetto esclusivo l’esercizio in comune della professione dei propri soci. La società può rendersi acquirente di beni e diritti che siano strumentali all’esercizio della professione e compiere qualsiasi attività diretta a tale scopo>>.

 

Il conferimento dei soci viene visto dalla dottrina come un conferimento d’opera, ciò poiché l’oggetto speciale della società consiste nell’esercizio della professione, l’incarico professionale viene affidato direttamente alla società e non al professionista socio

Dal canto suo l’Agenzia Entrate, con la risoluzione n. 118/E del 28.5.2003, ha chiarito che l’esercizio in forma associata dell’attività di avvocato, realizzato ai sensi del D.Lgs. n. 96/2001, deve essere ricondotto nell’ambito del lavoro autonomo giacché il rinvio alle disposizioni della s.n.c. opera ai soli fini civilistici, mentre ai fini fiscali, per ragioni di coerenza del sistema impositivo, occorre dare risalto al reale contenuto professionale dell’attività svolta.

Pertanto, i redditi conseguiti dalla s.t.p. costituiscono redditi di lavoro autonomo poiché per essi si applica la disciplina dettata per le associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni di cui all’art. 5, comma 3, lett. c) del D.P.R. n. 917/1986.

I compensi corrisposti alla s.t.p. sono soggetti a ritenuta d’acconto, ai sensi dell’art. 25 del D.P.R. n. 600/1973.

 

La tassazione del reddito degli studi associati e delle società di professionisti secondo il principio di trasparenza.

I redditi dello studio associato o della società di professionisti, determinati ai sensi dell’art. 54 (determinazione dei redditi di lavoro autonomo) del D.P.R. n. 917/1986, sono imputati ai soci conformemente al cosiddetto principio di trasparenza (art. 5 del medesimo D.P.R), indipendentemente dall’effettiva distribuzione, in proporzione alle rispettive quote di partecipazione agli utili. 

Ai fini dell’imputazione ai soci dei redditi conseguiti dalle società di tipo personale, le associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni sono equiparate alle società semplici.

Quanto alle modalità di imputazione ai soci del reddito della società, le quote di partecipazione agli utili si presumono proporzionate al valore dei conferimenti dei soci se non risultano diversamente determinate dall’atto pubblico o dalla scrittura privata autenticata di data anteriore all’inizio del periodo d’imposta; se il valore dei conferimenti non risulta determinato, le quote si presumono uguali.

In deroga a tale principio, si prevede per le associazioni professionali che l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata (che fissa le quote di partecipazione agli utili) possa essere redatto fino alla presentazione della dichiarazione dei redditi dell’associazione stessa. In tal modo, si tiene conto della differente attività svolta dalle associazioni professionali rispetto alle società commerciali ove le quote di partecipazione agli utili sono generalmente determinate a consuntivo in base all’apporto dei soci in termini di lavoro.

Anche le perdite delle associazioni professionali sono deducibili dal reddito complessivo di ciascun socio o associato in proporzione alla quota di partecipazione agli utili (art. 8, comma 2, del suddetto D.P.R).

 

La cessione dello studio professionale (con conferimento della clientela)

Può succedere che lo studio professionale sia trasferito verso corrispettivo.

Per gli studi professionali, non esistendo impresa né azienda, non può esistere l’avviamento. Infatti, la Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che:

<<il nome, la capacità del professionista e la fiducia che egli ispira costituiscono i fattori che sogliono indirizzare la clientela, la quale è in funzione (principale se non esclusiva) delle doti personali d’ingegno, perizia e considerazione delle quali gode il professionista, e non dei beni materiali e strumentali che ne arredano lo studi; di talché in caso di vendita o cessione dello studio, non è legittimo ipotizzare a carico del venditore o cedente un valore di avviamento, tassabile una tantum …>>.

La dottrina ritiene tassabile la cessione dello studio professionale (il bene immobile) come reddito diverso dei proventi derivanti dalla cessione dell’immobile adibito a studio professionale, purché la vendita avvenga prima del decorso dei cinque anni dall’acquisto (art. 67, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 917/1986, dalla concessione in uso di impianti e attrezzature dello studio (art. 67, comma 1, lett. h), del medesimo D.P.R.) o dalla cessione dello studio professionale, qualora il cedente si impegni a favorire il passaggio della clientela in capo al cessionario.

In tal caso detti proventi si configurano come redditi diversi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere di cui al citato art. 67, comma 1, lett. l).

Di parere contrario si colloca, invece, la Comm. Trib. I° gr. di Ravenna che con la sentenza 11 giugno 1988, n. 150595 ha negato l’assoggettamento ad imposta dei redditi derivanti dalla cessione di studi. In particolare, ha stabilito che l’incasso di somme di denaro è assoggettabile ad imposizione diretta solo se ha natura di reddito secondo le norme contenute nelle disposizioni di legge che disciplinano la materia.

Infine, secondo il parere dell’Agenzia delle Entrate (contenuto nella risoluzione n. 108 del 29.03.2002), nel trasferimento o nella cessione di studio professionale, non sussiste mai un valore di avviamento (che conferma, quindi, l’orientamento della Cassazione).

Inoltre, se il cedente si impegna a favorire la prosecuzione del rapporto tra i suoi vecchi clienti ed il nuovo soggetto acquirente, allora si viene ad instaurare, di fatto, tra i due professionisti un rapporto di tipo obbligatorio nel quale il professionista cd. “cedente”, a fronte del compenso percepito, si assume l’impegno di favorire il soggetto subentrante nella prosecuzione del rapporto con i propri vecchi clienti.

Così facendo, a parere dell’Agenzia delle Entrate,  il compenso viene corrisposto dietro l’assunzione da parte del professionista di obblighi  contemplati dall’art. 67 (ex art. 81), lettera l), del D.P.R. n. 917,1986, che espressamente qualifica come redditi diversi quelli derivanti

<<dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere>>.

 

La predetta somma, quale reddito diverso, va, pertanto, assoggettata a tassazione in capo al soggetto percipiente sulla base delle aliquote I.R.P.E.F. progressive per scaglioni di reddito.

Relativamente alla posizione del professionista che, invece, sostiene la spesa per l’acquisizione della nuova clientela, si tratta secondo l’Agenzia delle Entrate di un costo inerente all’esercizio dell’attività professionale, come tale deducibile, in sede di determinazione del reddito ai sensi dell’art. 53 (ex art. 50) del D.P.R. n. 917/1986.

Infine, sul versante del trattamento applicabile, ai fini dell’Iva, la medesima Agenzia ha ritenuto che il predetto compenso, corrisposto al professionista per la cessione della sua attività, configura un corrispettivo di una prestazione di servizio, e pertanto tali prestazioni vanno assoggettate ad I.V.A..

 

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luglio 2005  

a cura Vincenzo D’Andò