In caso di accertamento sintetico il contribuente può difendersi dimostrando che i beni o le somme contestate dal Fisco non sono mai entrati nella sua reale disponibilità.
Anche un contratto simulato può valere come prova contraria: ciò che appare suo, in realtà, potrebbe appartenere ad altri. Ecco come funziona e cosa ha chiarito la Cassazione.
Accertamento sintetico e simulazione: la prova contraria spetta al contribuente?
La prova contraria ben può consistere nella dimostrazione che i beni o gli importi individuati quali indici di capacità contributiva non siano effettivamente entrati nella disponibilità del contribuente, in quanto derivanti da un atto simulato, che non ne implica la corrispondente e reale disponibilità economica.
Ugualmente, può consistere nella dimostrazione che il pagamento del prezzo non è avvenuto e, quindi, che l’acquisizione di beni non denota una reale disponibilità economica, suscettibile di valutazione a fini fiscali. Ma tutto ciò va provato dal contribuente e valutato dal giudice di merito.
Sono queste le conclusioni raggiunte dalla Corte di Cassazione, a fronte di un accertamento sintetico operato dall’Ufficio.
Accertamento sintetico e simulazione di contratto
Il pensiero della Cassazione prende le mosse dal dettato normativo di riferimento.
Osserva la Corte che l’art. 38 d.P.R. n. 600 del 1973, nel disciplinare il metodo di accertamento sintetico del reddito, nel testo vigente ratione temporis (cioè tra la legge n. 413 del 1991 e il D.L. n. 78 del 2010, convertito dalla legge n. 122 del 2010), prevede, da un lato (quarto comma), la possibilità di presumere il reddito complessivo netto sulla base della valenza induttiva di una serie di elementi e circostanze di fatto certi, costituenti indici di capacità contributiva, connessi alla disponibilità di determinati beni o servizi ed alle spese necessarie per il loro utilizzo e mantenimento (in sostanza, un accertamento basato sui presunti consumi); dall’altro (quinto comma), contempla le «spese per incrementi patrimoniali», cioè quelle sostenute per l’acquisto di beni destinati ad incrementare durevolmente il patrimonio del contribuente.
Ai sensi del sesto comma dell’art. 38 citato, resta salva la prova contraria