Quando un ente apparentemente senza fini di lucro realizza operazioni che generano ricavi economici riconducibili alla sua attività di investimento, può emergere una natura commerciale ben più solida di quanto appaia. Conta ciò che avviene in concreto, non ciò che è scritto nello statuto. Un recente caso della CGT di Roma aiuta a capire come la giurisprudenza valuti la reale strumentalità e i riflessi sul profilo fiscale.
La Qualifica di Ente Non Commerciale: limiti, presunzioni e giurisprudenza
Presupposti generali per la qualifica di ente non commerciale
La natura di ente non commerciale, secondo la giurisprudenza di legittimità, può non sussistere quando l’attività svolta da un ente, anche religioso o sportivo dilettantistico, supera i limiti previsti dalla legge, anche se ciò avviene in un solo esercizio; se si verifica un superamento in un singolo esercizio non implica automaticamente la perdita della qualifica di ente non commerciale, poiché il legislatore non attribuisce tale perdita “ope legis” in caso di superamento occasionale dei parametri.
In sostanza l’ente è non commerciale se il suo oggetto esclusivo o principale non è commerciale, esulando dalle previsioni dell’art. 55 del TUIR (sopravvenienze attive), relativo al reddito d’impresa, mentre non assumono alcuna rilevanza la natura pubblica o privata dell’ente, né la rilevanza sociale delle finalità perseguite, né, infine, l’assenza del fine di lucro o la destinazione dei risultati.
Utilità collettiva e distinzione dal fine di lucro
Un’associazione, ad esempio, può definirsi non commerciale quando il suo fine si identifica non in una utilità economica degli associati o del fondatore (distribuzione di utili), ma in una utilità di pubblico interesse, cioè il perseguimento di un fine ideale o altruistico.
Pertanto la qualifica di ente non commerciale non sussiste più quando l’ente non commerciale inizia a svolgere, in via prevalente, attività di natura commerciale.