Focus sulla recente giurisprudenza della Cassazione in merito all’accertamento parziale IVA e imposte dirette; un mezzo a disposizione dell’Agenzia entrate per una rapida emersione della materia imponibile, basato ad esempio su segnalazioni esterne all’Amministrazione finanziaria.
Due recenti pronunciamenti della Corte di Cassazione accendono ancora i riflettori sull’accertamento parziale.
Vediamo, quindi, quali sono le conclusioni tratte dai massimi giudici.
L’accertamento parziale IVA
Per gli Ermellini:
“l’accertamento parziale dell’IVA e delle imposte dirette è uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, ove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza a qualsiasi titolo di attendibili posizioni debitorie e non richiedano, in ragione della loro oggettiva consistenza, l’esercizio di valutazioni ulteriori rispetto al mero recepimento del contenuto della segnalazione che fornisca elementi idonei a far ritenere la sussistenza di introiti non dichiarati, sicché, nel confronto con gli altri strumenti accertativi, risulta qualitativamente diverso poiché si vale di una sorta di “automatismo argomentativo”, per modo che il confezionamento dell’atto risulta possibile sulla base della sola segnalazione, senza necessità di ulteriore approfondimento (Cassazione n. 2633 del 2016; Cassazione n. 27323 del 2014; Cassazione n. 13799 del 2014)”.
Il presupposto dell’accertamento parziale è dunque esclusivamente il dato formale estrinseco che la comunicazione degli elementi a fondamento della pretesa provengano da organi od enti distinti ed esterni all’Amministrazione finanziaria procedente, indipendentemente dalla maggiore o minore complessità delle indagini che hanno portato alla acquisizione di tali elementi (Cassazione n. 2633 del 2016), fermo restando che a seguito dell’impugnazione dell’atto si apre il giudizio sulla fondatezza della pretesa e sulla prova di questa.
Resta, infatti, fermo che l’accertamento parziale non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui agli artt. 38 e 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 e 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, bensì una modalità procedurale che ne segue le stesse regole (Cassazione n. 28681 del 2019).
Nel caso di specie la CTR non ha fatto buon governo di questi principi, laddove ha statuito l’illegittimità dell’atto richiedendo lo svolgimento delle attività di cui all’art. 32, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973 e valutando il grado di “certezza” probatoria della segnalazione del Comune che aveva comunicato all’Agenzia delle entrate di aver rettificato, per gli anni 2007 e 2008, il valore ai fini