La Corte di Cassazione ha esaminato recentemente alcuni comportamenti tenuti da lavoratori dipendenti del settore commercio e terziario (cassiera, commessa, etc.), a seguito dei quali i datori di lavoro, considerando leso in modo irreversibile il rapporto fiduciario, avevano intimato il licenziamento per giusta causa.
In particolare, gli Ermellini hanno ritenuto legittimo il licenziamento della cassiera che, durante il suo turno di lavoro, utilizzava la propria tessera, allo scopo di accumulare illecitamente punti fedeltà ma anche quello del lavoratore che effettuava un furto di modico valore ai danni del datore di lavoro.
È stato invece annullato il licenziamento del dipendente il quale, sotto stress per il forte afflusso della clientela, rispondeva in maniera scortese ad un cliente.
Uso illecito della carta fedeltà: legittimo il licenziamento
La Corte Suprema ha ritenuto legittima la pronuncia di merito che aveva considerato valido il licenziamento per giusta causa di una cassiera, che, durante il suo turno di lavoro, aveva utilizzato numerose volte nella stessa giornata la carta fedeltà nel corso di transazioni effettuate con clienti privi di tessera, al fine di accumulare punti, da utilizzare, poi, per pagare i suoi acquisti, concedendo nel contempo sconti a clienti, che non erano in possesso della carta fedeltà[1].
Nel caso di specie, i giudici di primo grado avevano ritenuto illegittimo il licenziamento, considerando sproporzionata la sanzione irrogata e avevano applicato la tutela prevista dall’art. 18, comma 5, dello Statuto dei lavoratori.
La Corte d’Appello, a parziale modifica della pronuncia impugnata, aveva ritenuto, invece, legittimo il licenziamento, affermando che i fatti accertati erano molto gravi, anche per le mansioni di cassiera svolte, e tali da ledere in modo irreversibile il rapporto fiduciario anche con riguardo all’aspetto della proporzionalità della sanzione espulsiva.
Avverso la sentenza di secondo grado la lavoratrice proponeva ricorso alla Corte di Cassazione sulla base di quattro motivi.
In particolare, la lavoratrice lamentava il mancato accertamento delle proprie giustificazioni addotte in fase di procedimento disciplinare, nel corso del quale aveva fatto rilevare che anche altri suoi colleghi avevano operato presso lo stesso punto cassa, senza cambiare il “codice operatore”, per cui sarebbe mancata la prova in ordine alla riconducibilità ad essa dei fatti oggetto di contestazione.
La Corte Suprema, dopo aver rilevato l’inammissibilità della rivalutazione delle prove, ha evidenziato che, sulla base di un accertamento adeguatamente motivato, è stato ritenuto dimostrato che la lavoratrice, nei giorni e negli orari, oggetto della contestazione disciplinare, era addetta alla cassa; pertanto, il fatto che aveva abbandonato temporaneamente la postazione, non era sufficiente a ritenerla indenne da ogni responsabilità, ma occorreva dimostrare chi l’avesse sostituita.
Sotto questo profilo, quindi, la Corte d’Appello non ha p