Il conferimento dell’azienda organizzata nella forma di impresa familiare in una società di capitali costituisce una tipica operazione straordinaria che consente di trasferire l’attività aziendale in un contenitore societario evoluto, favorendo in talune ipotesi il passaggio generazionale dell’imprenditore.
L’operazione – che è molto diffusa soprattutto tra le micro, piccole e medie imprese – pone questioni da risolvere afferenti il rapporto tra i collaboratori dell’impresa familiare e l’imprenditore, che si riverberano inevitabilmente sull’equilibrio dei valori aziendali trasferiti in sede di conferimento.
Impresa familiare: inquadramento civilistico
L’art. 230-bis del codice civile, rubricato appunto impresa familiare, prevede che il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nelle famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con gli stessi utili, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.
I familiari – che ai sensi dell’art. 433 del codice civile coincidono con il coniuge, i parenti entro il terzo grado (genitori e figli, nonni, bisnonni, nipoti e pronipoti, fratelli e sorelle, zii e nipoti) e gli affini entro il secondo grado (suoceri, generi, nuore e cognati) – a fronte di un’attività lavorativa continuativa svolta nell’ambito dell’impresa familiare, hanno diritto di partecipare alla distribuzione dell’eventuale ricchezza prodotta dall’azienda medesima.
Da un punto di vista civilistico, quindi, l’impresa familiare mantiene lo status giuridico di impresa individuale, in quanto è sempre il singolo soggetto titolare che esercita l’impresa, mentre i familiari vengono individuati come meri collaboratori, non titolari di alcun diritto sui beni aziendali, salvo quanto detto prima sui “frutti” maturati dall’azienda grazie anche alla collaborazione offerta in modo continuativo.
Non può esistere l’impresa familiare nel caso in cui il rapporto tra imprenditore e familiare sia inquadrato come lavoro subordinato, associazione in partecipazione o individuato mediante un tipico contratto sociale, ovvero sia organizzato con tipologie contrattuali al di fuori dalla tipica collaborazione familiare individuata dall’art. 230-bis del codice civile.
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Impresa familiare: trattamento fiscale
Da un punto di vista tributario, l’art. 5, comma 4, del Tuir prevede che i redditi delle imprese familiari di cui all’articolo 230-bis del codice civile, limitatamente alla percentuale massima del 49% dell’ammontare derivante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati per trasparenza – prescindendo dall’effettivo incasso – a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.
Il legislatore fiscale vede, nella ripartizione del reddito d’impresa tra l’imprenditore ed i collaboratori familiari, un’erosione del gettito fiscale conseguente alla diminuzione dell’aliquota media Irpef, derivante dal frazionamento della base imponibile tra i componenti dell’impresa familiare.
Di conseguenza, la normativa fiscale pone, per il funzionamento dell’impresa familiare, delle condizioni soggettive ed oggettive più rigorose rispetto al dettato civilistico dell’art. 230-bis.
Infatti, sempre lo stesso comma 4 dell’art. 5 del Tuir sancisce che la disposizione si applica a condizione che:
- i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti;
- che la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’a