Fini civilistici e fiscali del termine di estinzione delle società

di Salvatore Dammacco

Pubblicato il 20 ottobre 2020

Secondo la Corte Costituzionale è legittimo il differente termine di estinzione delle società ai fini civilistici e ai fini fiscali. Tale irretroattività opera anche per le società di persone?
Analisi delle risposte giurisprudenziali

termine estinzione societàLo scostamento tra l’art. 2495, comma 3, codice civile, che regola il pagamento dei debiti di diritto comune, a seguito della cancellazione della società dal registro delle imprese, e l’art. 28, comma 4, del D.Lgs. n. 175/2014, che procrastina di 5 anni il diritto dell’Amministrazione finanziaria di pretendere il pagamento dei debiti tributari, non presenta alcun vizio di incostituzionalità.

L’art. 2495, comma 3, codice civile, con riferimento alla cancellazione della società dal registro delle imprese, dispone quanto segue:

“Ferma restando l'estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi.

La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l'ultima sede della società”.

In seguito, l’art. 28, comma 4, del D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, ha stabilito che:

“Ai soli fini della validità e dell'efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l'estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese”.

Questa differenza di termini per il recupero del credito, tra creditori ordinari e creditore Fisco, ha scatenato differenti commenti nella dottrina che vanno dalla condivisione della differente impostazione alla critica più severa per cui il legislatore è stato accusato di mancanza di equità, ovvero di usare “due pesi e due misure”, ingiustificate anche da un punto di vista legale.

 

L’irretroattività dell’art. 28, comma 4, del D.Lgs. n. 175/2014

L’Agenzia delle Entrate ha tentato di utilizzare il suddetto art. 28, comma 4, del D.Lgs. n. 175/2014, per darne valenza anche per il passato (tenendo presente che la vigenza della norma decorre dal 13 dicembre 2014), come si evince da:

  • la Circolare del 31 dicembre 2014, n. 31/E, parag. 19.2, secondo la quale la ridetta norma è una norma procedurale e, pertanto, “trova applicazione anche per attività di controllo fiscale riferite a società che hanno già chiesto la cancellazione dal registro delle imprese o già cancellate dallo stesso registro prima della data di entrata in vigore del decreto in commento”;
     
  • la Circolare del 19 febbraio 2015, n. 6/E, parag. 13.1, che ha ribadito quanto sopra;

dando un avventato colpo di spugna all’art. 3, della L. 27 luglio 2000, n. 212, contenente lo Statuto dei diritti del contribuente, in virtù del quale:

“1. Salvo quanto previsto dall’articolo 1, comma 2 (riguardanti le disposizioni di interpretazione autentica), le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo.

Relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d'imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono”.

Non si sono fatte attendere le sentenze della Corte di Cassazione che hanno escluso, in maniera categorica, la retroattività dell’art. 28, comma 4, del D.Lgs. n. 175/2014:

  • V, sentenza del 2 aprile 2015, n. 6743;
     
  • VI – 5, ordinanza del 17 gennaio 2017, n. 1009,