Prestazioni professionali gratis agli amici: come difendersi se il fisco non ci crede?

Capita spesso a noi professionisti di dover effettuare delle prestazioni gratuite e capita che il Fisco notifichi atti impositivi presumendo l’onerosità di alcune prestazioni che, in realtà, sono rese a titolo gratuito: come gestire contrattualmente la prestazione gratuità e come difendersi in caso di contestazioni del Fisco.

come fatturare le prestazioni professionali gratuiteCapita di sovente che gli uffici finanziari notifichino atti impositivi a professionisti contabili presumendo l’onerosità di alcune prestazioni che, in realtà, sono rese a titolo gratuito, spesso si tratta di prestazioni gratis per parenti ed amici.

La predisposizione di lettere di incarico professionale ove si evinca chiaramente la gratuità della prestazione, può essere un valido elemento probatorio.

In aggiunta, nel caso di prestazioni rese dai professionisti nei confronti di società, la documentazione societaria rappresenta un elemento difficilmente superabile dall’Agenzia delle Entrate.

Prestazioni professionali gratuite e contratto civilistico 

La Fondazione nazionale dei dottori commercialisti lo scorso 31 gennaio ha pubblicato (a cura di Morelli e Di Gialluca) un approfondimento sull’accertamento delle prestazioni rese a titolo gratuito dal professionista

Dal punto di vista civilistico, ricorda il pregevole studio, le disposizioni che regolano il contratto di opera intellettuale e, segnatamente, il compenso professionale sono previste dagli artt. 2229 e ss. c.c..

Tali disposizioni, come riconosciuto dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. Ord. 6 febbraio 2014, n. 2769), non escludono in alcun modo la legittimità di accordi di prestazione gratuita, né determinano una presunzione di onerosità, nemmeno iuris tantum.

Il contratto d’opera professionale si inserisce, infatti, tra i contratti a titolo oneroso: non è però esclusa la possibilità di accordi di prestazione gratuita.

L’onerosità è, in altri termini, elemento materiale ma non essenziale dei contratti di prestazioni d’opera intellettuale: ciò comporta che le parti possono sia escludere il diritto del professionista al compenso, sia subordinarlo al verificarsi di una condizione (Cass. Sent. Sez. II, 3 Maggio 2001, n. 7003; Cass. Sent. Sez. III, 9 gennaio 2001, n. 247).

Il patto di gratuità della prestazione non postula quindi una forma specifica, tantomeno quella scritta, e può perciò essere stipulato anche verbalmente, non necessitando di prova documentale e la sua sussistenza può desumersi anche e soprattutto dal contegno assunto dalle parti, o nel suo momento genetico ovvero in fase di esecuzione (Cassazione civile, sez. I, 27/05/2013, n. 13094).

 

Prestazioni professionali gratuite: ambito tributario

La determinazione del reddito derivante dall’esercizio per professione abituale di un’attività di lavoro autonomo è ispirata, ai sensi dell’art. 54, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, al cosiddetto principio di cassa, salvo alcune specifiche deroghe previste dalla normativa.

Nonostante nella determinazione del reddito professionale esistano degli inquinamenti derivanti dall’applicazione del principio di competenza, per i titolari di redditi di lavoro autonomo i componenti positivi e negativi sono rilevanti, ai fini della determinazione del reddito, inderogabilmente quando incassati o pagati.

Nei casi in cui l’Amministrazione Finanziaria presuma l’incasso di proventi in nero nei confronti dei professionisti, derivanti da prestazioni effettuate a titolo gratuito, si avvale, di norma, dell’accertamento analitico-induttivo previsto dall’art. 39, c. 1, lett. d, D.P.R. n. 600 del 1973 (ai fini delle imposte dirette) e dall’art. 54, c. 2, D.P.R. n. 633 del 1972 (ai fini dell’IVA), che si applica in presenza di determinate condizioni, ovvero l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione sulla base di documenti o notizie raccolte dall’Amministrazione Finanziaria.

Sul punto la giurisprudenza di Legittimità sembra aver trovato un indirizzo univoco.

E’ stato infatti statuito (Cassazione del 01/10/2014, sent. n. 20709) che, sia in tema di accertamento delle imposte sui redditi. che di accertamento ai fini Iva, la presenza di scritture contabili formalmente regolari non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa ai sensi dell’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. n. 600/73 e dell’art. 54 del D.P.R. n. 633/72, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile, in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente.

In tali casi, pertanto, è consentito all’Ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, ad esempio determinando il reddito del contribuente utilizzando le percentuali di ricarico, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente medesimo (Cassazione sent. nn. 6849/2009, 7881/2012 e 27477/2013).

Va osservato inoltre, che la presunzione secondo cui i professionisti non sono soliti prestare i propri servizi a titolo gratuito appare compatibile con la possibilità che un certo numero di pratiche vengano trattate gratuitamente. E d’altra parte l’invocata inderogabilità delle tariffe professionali da parte dell’Amministrazione finanziaria non implica necessariamente l’invalidità della rinuncia al compenso da parte del professionista, qualunque sia la ragione, essendo la retribuzione un diritto patrimoniale disponibile (Cassazione civile, Sez. lavoro, 27/09/2010, n. 20269; nonché, in tema di attività professionale del notaio, Cassazione civile Sez. III, 28/07/2004, n. 14227; Cassazione civile, Sez. II, 21/07/1998, n. 7144).

 

Le presunzioni del Fisco per prestazioni senza compenso

L’Amministrazione Finanziaria, servendosi degli strumenti informativi a sua disposizione e/o per mezzo di questionari e controlli esercitati presso lo studio del professionista, contesta normalmente l’omessa fatturazione dei compensi relativi a prestazioni rese a titolo gratuito, ritenendo irragionevole ed “anti economico” lo svolgimento di un’attività senza che sia percepito alcun compenso.

In termini più chiari il metodo di indagine prescelto di dirigenti ministeriali valorizza, di prassi, le informazioni contenute nell’anagrafe tributaria ove sono reperiti:

  • i codici fiscali dei soggetti di cui il professionista risultava quale intermediario nell’annualità oggetto della verifica;

  • il numero dei dichiarativi trasmessi all’Agenzia delle entrare (modd. 730; modd. UNICO, mod. 770, Comunicazioni Iva…) e dei modelli DM10 denunciati all’Istituto di Previdenza.

La ricostruzione dei maggiori compensi è effettuata normalmente considerando i destinatari delle fatture emesse nell’annualità oggetto di accertamento, il relativo compenso fatturato, nonché i riferimenti tariffari elencati al D.P.R. 10 ottobre 1994, n. 645, recante la disciplina degli onorari delle indennità e dei criteri per il rimborso delle spese dei dottori commercialisti.

In considerazione dei dati acquisiti (per esempio, in base al numero delle dichiarazioni inviate telematicamente) l’ufficio desume un compenso medio per ogni singola prestazione che non ha trovato riscontro nelle fatture emesse. L’ammontare di tali compensi medi è attratto ad imposizione ai fini irpef, irap ed Iva.

 

Rilevanza reddituale delle prestazioni professionali gratuite:
precedenti giurisprudenziali di legittimità  

Il tema della rilevanza reddituale delle prestazioni gratuite del professionista è stato più volte affrontato dalla giurisprudenza tributaria, di merito e di legittimità (Cassazione 29 gennaio 2008, n. 191512).

La Sentenza della Cassazione 28 ottobre 2015, n. 21972, costituisce la pronuncia fondamentale alla quale, in larga parte, la successiva giurisprudenza si è adeguata.

La vicenda processuale riguardava un contribuente che ricorreva presso la CTP deducendo come le prestazioni erano state rese a titolo gratuito nei confronti di partenti ed amici. Tra l’altro, la maggior parte dei soggetti (il 70%), che avevano beneficiato gratuitamente dell’attività del professionista, già corrispondeva al medesimo professionista il compenso per la tenuta della contabilità delle società ad essi riconducibili, cosicché, la prestazione resa, anche in un’ottica di “incremento della clientela”, era assorbita nella remunerazione complessivamente pattuita.

Sebbene in primo grado i giudici della CTP avessero avallato l’operato dell’Amministrazione Finanziaria, in secondo grado, la decisione è stata ribaltata e poi resa definitiva in sede di giudizio legittimità.

I giudici della Suprema Corte, richiamando e confermando in toto la pronuncia di secondo grado, hanno, infatti, affermato che, in presenza della corretta tenuta della contabilità da parte del contribuente, è plausibile, a fronte delle mere supposizioni dell’Ufficio erariale, la gratuità dell’opera svolta dal professionista, in considerazione dei “rapporti di parentela e di amicizia” con gli stessi clienti, nonché del fatto che alcuni di tali clienti erano soci di società di persone, la cui contabilità era affidata alle cure del contribuente, per cui ogni eventuale compenso rientrava in quello già corrisposto dalla società di appartenenza.

Inoltre, la plausibilità delle prestazioni rese a titolo gratuito emerge(va), secondo la Suprema Corte, della circostanza che l’attività svolta in loro favore riguardava “soltanto l’invio telematico delle dichiarazioni dei redditi ed era finalizzata all’incremento della clientela, cosicché la semplicità della prestazione in sé rende verosimile l’assunto del contribuente circa la sua gratuità”.

In estrema sintesi, secondo la Suprema Corte, l’Amministrazione Finanziaria non può accertare un maggior reddito in capo ad un consulente sulla base della semplice presunzione secondo cui i professionisti non sono soliti prestare i propri servizi a titolo gratuito. È plausibile, infatti, che un professionista possa svolgere parte della propria attività senza percepire alcun compenso, per ragioni di amicizia, parentela o di mera convenienza.

 

Giurisprudenza di merito in tema di prestazioni professionali gratuite

Anche i Giudici tributari sono stati sollecitati dai contribuenti ad esprimersi sul delicato tema delle prestazioni gratuite dei professionisti.

Ripercorriamo alcuni dei principi ivi espressi.

C.T.P. di Ancona 16 maggio 2016, n. 931

Una sentenza dei Giudici tributari pur confermando la rettifica dell’ufficio, ha del tutto disatteso i principi enucleati dalla Corte di Cassazione. La controversia riguardava un notaio, accertato per alcune prestazioni rese a titolo gratuito nei confronti di amici e parenti.

Il contribuente, impugnato l’atto in Commissione tributaria, aveva affermato che la mancata percezione di onorari (e/o la percezione degli stessi in misura irrisoria) nei confronti di alcuni clienti, trovava “ragion d’essere nei rapporti di consuetudine ed anche di amicizia che si sono nel tempo creati tra il notaio e i clienti, come pure per ragioni di cortesia, di convenienza tenza della Suprema Corte, infatti, sociale, di buona creanza, nei confronti di persone alle quali è legato da particolari sentimenti di amicizia o da rapporti di collaborazione o di gratitudine”.

La CTP ha, tuttavia, ritenuto tali argomentazioni “singolari e patetiche”, affermando che il contribuente avesse, in realtà, omaggiato clienti/amici “accollandone l’onere alla collettività dei cittadini e non già a se stesso”. E ciò in quanto, secondo i Giudici, se il professionista avesse voluto omaggiare i clienti/amici, “avrebbe dovuto regolarmente fatturare i compensi declinandone il pagamento ed accollandosi l’onere fiscale che, invece, ha accollato allo Stato e quindi a tutti i cittadini contribuenti”.

La Fondazione Dottori Commercialisti nel suo approfondimento critica aspramente tale orientamento giurisprudenziale che pretenderebbe di accollare un onere al professionista che né la legge, né la prassi o la giurisprudenza hanno mai individuato.
La CTP, infatti, ritiene che, qualora un professionista decidesse di prestare la propria opera gratuitamente, sarebbe, comunque, obbligato ad emettere fattura e a versare le imposte sull’importo fatturato.

 

C.T.R. Genova 6 maggio 2016, n. 660

Il collegio ligure di seconda istanza si è occupata del caso di un consulente fiscale che aveva effettuato prestazioni (invio telematico di 497 dichiarazioni e tenuta della contabilità) senza percepire alcun compenso, vuoi per mero spirito di liberalità, vuoi perché il compenso non era stato riscosso per morosità.

Da quanto desumibile dagli atti, l’Agenzia delle Entrate aveva effettuato un accertamento induttivo nei confronti dello stesso, ricostruendo i ricavi in base ad elementi quali il numero di contabilità tenute, le dichiarazioni telematiche trasmesse e i compensi mediamente percepiti.

Il ricorso del contribuente, da quanto desumibile, era stato costruito proprio sul principio affermato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 21972 del 2015.

L’accertamento dell’Ufficio era stato, tuttavia, confermato nel primo grado di giudizio dove la CTP aveva ritenuto che il contribuente non avesse sufficientemente comprovato la propria tesi difensiva.

La CTR ha confermato il giudizio di primo grado, evocando (come già fatto dal contribuente) la sentenza della Suprema Corte n. 21972 del 2015, ma ritenendo che, nel caso di specie, le generiche giustificazioni fornite dal contribuente e, soprattutto,

“il fatto che le dichiarazioni non fatturate siano in numero preponderante rispetto a quelle fatturate, faccia ritenere corretto l’operato dell’Ufficio ed ineccepibile la decisione di primo grado”.

Proseguiva la CTR ritenendo che

“Nella vertenza decisa dalla citata sentenza la CTR ritenendo che “Nella vertenza decisa dalla citata sentenza della Suprema Corte, infatti, il numero delle prestazioni asseritamente svolte in forma gratuita risulta essere di molto inferiore rispetto a quello di cui al caso di cui trattasi, per cui un richiamo ai contenuti della stessa non appare ragionevole”.

In altri termini, la CTR, pur aderendo alla giurisprudenza della Suprema Corte, ha ritenuto che, nel caso di specie, i principi in essa contenuti non fossero applicabili a causa del numero elevato di prestazioni svolte (asseritamente) in forma gratuita dal professionista.

 

C.T.P. Cosenza 12 aprile 2013, n. 365

Un notaio aveva effettuato alcune prestazioni a titolo gratuito nei confronti di parenti ed amici. Il Collegio calabrese ha ritenuto che

“posto che il numero dei clienti costituisce uno degli elementi da cui è possibile evincere il reddito di un professionista, deve ritenersi plausibile che in relazione a 27 atti su 2005 il notaio abbia prestato la propria opera senza percepire alcun compenso per ragioni di amicizia, parentela ovvero convenienza. Ed infatti, la presunzione secondo cui i professionisti non sono soliti prestare la proprio opera a titolo gratuito, è compatibile con la possibilità che un numero esiguo di pratiche vengano trattate gratuitamente…”.

Nel caso di specie, le prestazioni gratuite rese dal notaio erano pari al solo 1,3% rispetto al totale delle prestazioni complessivamente effettuate. Pertanto, il numero “esiguo” di prestazioni rese a titolo gratuito sembra sia stato l’elemento decisivo che ha portato i giudici di merito a decidere la controversia favorevolmente al contribuente.

 

C.T.R. Lombardia, 27 ottobre 2010, n. 99

La vicenda aveva per oggetto un accertamento effettuato nei confronti di un artista che aveva partecipato ad alcuni spettacoli gratuitamente.

Nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento, in quanto è “plausibile che un artista possa decidere di partecipare ad alcuni eventi senza richiedere alcun compenso sia per aumentare la sua notorietà sia per altri personali motivi”.

Inoltre, i giudici di merito hanno ritenuto che non fosse stata data dimostrazione dell’effettivo incasso del compenso da parte dell’artista (gli Uffici avevano effettuato in questo caso anche delle indagini bancarie, ritenute, tuttavia, inadeguate dalla CTR).

 

Prestazioni gratuite: possibili strategie difensive contro le contestazioni del Fisco

Gli strumenti probatori che il professionista potrà utilizzare sono i medesimi di quelli adottati dall’Amministrazione finanziaria, ovvero potrà avvalersi di presunzioni per confutare il ragionamento inferenziale dell’ufficio fiscale.

Ripercorriamo quindi, alcune delle possibili eccezioni che i professionisti raggiunti dagli atti di accertamento possono opporre in sede processuale affinché possa essere dimostrata l’insussistenza della pretesa tributaria stante l’inefficacia delle presunzioni desunte da parte attrice.

In primo luogo va osservato che la stessa la Amministrazione Finanziaria nella circolare 28 settembre 2001, riconosce che un professionista possa effettuare prestazioni gratuite laddove, a commento dei controlli da espletare nei confronti delle diverse tipologie di contribuenti, è stato affermato, con riguardo alle attività professionali di studi legali e notarili, che “la gratuità delle prestazioni può essere considerata verosimile nei confronti di parenti o di colleghi-amici”.

In ambito giurisprudenziale la sentenza della Corte di Cassazione n. 1915 del 2008 ha poi offerto al contribuente alcuni possibili strumenti di difesa.

In termini più pratici, la predisposizione di lettere di incarico professionale ove si evinca chiaramente la gratuità della prestazione, può essere un valido elemento probatorio.

In aggiunta, nel caso di prestazioni rese dai professionisti nei confronti di società, la documentazione societaria (es. delibere che stabiliscono il compenso dell’amministratore, lo statuto, mastrini contabili di cassa o banca e quelli riferiti al professionista) rappresenta un elemento difficilmente superabile dall’Agenzia delle Entrate.

Ci si riferisce ad elementi probatori oggettivi idonei a supportare le proprie difese quali, esempio:

  • statuto dal quale si evinca la deroga all’onerosità della prestazione;

  • bilancio approvato e relativo verbale di approvazione,

  • delibera assembleare dalla quale si evinca la gratuità dell’incarico

  • conti relativi ai compensi erogati agli amministratori

Particolarmente delicato appare il tema delle prestazioni rese dai professionisti nei confronti di soggetti privati, non tenuti ad obblighi di contabilità e/o di conservazione di documenti.

Nei confronti di questi soggetti, oltre alla predisposizione di lettere di incarico professionale e/o dichiarazioni rese dagli stessi1 il contribuente non è in grado generalmente, di produrre ulteriore documentazione.

In tali casi, comunque, il professionista potrà addurre la congruità e la coerenza rispetto agli studi di settore ed, eventualmente, produrre documentazione bancaria che possa rappresentare elemento (quantomeno indiziario) circa il fatto che nessun compenso è stato mai incassato.

Non si può nascondere che le soluzioni sin qui prospettate non siano del tutto prive di incertezze e complicazioni pratiche.

 

2 novembre 2017

Antonino e Attilio Romano

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1 L’utilizzo di dichiarazioni rese da terzi soggetti in sede contenziosa è sempre stata argomento dibattuto.

Sul tema, ci si limita a segnalare la recente apertura della Corte di Cassazione che, con la sentenza 14 settembre 2016, n. 18065, ha sancito un importante principio circa l’ammissibilità delle dichiarazioni dei terzi, stabilendo, tra le altre cose, la necessità che il giudice valuti tali dichiarazioni quali elementi di prova. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che “Il potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il valore proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione, va riconosciuto non soltanto all’amministrazione finanziaria, ma anche al contribuente». Un’affermazione dettata – prosegue la Corte – dalla necessità di attuare i principi del giusto processo, della parità delle armi tra le parti processuali e del diritto di difesa”.

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NOTA REDAZIONALE su prestazioni gratis per parenti ed amici:

Si ha notizia che, su scala nazionale, gli uffici controllo istituiti presso le Direzioni provinciali hanno attivato, nel corso della scorsa annualità, accertamenti delle posizioni fiscali di studi di contabilità ed elaborazione paghe. Il metodo di indagine prescelto ha valorizzato le informazioni contenute nell’anagrafe tributaria ove sono stati reperiti:

  • i codici fiscali dei soggetti di cui il professionista risultava intermediario nell’annualità oggetto della verifica;
  • il numero dei dichiarativi trasmessi all’Agenzia delle entrare (modd. 730; modd. UNICO, mod. 770m Comunicazioni iva, eccetera) e dei modd DM10 denunciati all’Istituto di Previdenza.

La ricostruzione dei maggiori compensi è effettuata, in virtù di direttive ministeriali, considerando i destinatari delle fatture emesse nell’annualità oggetto di accertamento, il relativo compenso fatturato, nonché i riferimenti tariffari elencati al D.P.R. 10 ottobre 1994, n. 645, recante la disciplina degli onorari delle indennità e dei criteri per il rimborso delle spese dei dottori commercialisti.

In considerazione dei dati acquisiti – vale a dire del numero dei clienti che si avvalgono dello studio quale depositario delle loro scritture contabili, del numero delle dichiarazioni inviate telematicamente e dei compensi percepiti per entrambe le attività di assistenza contabile – l’ufficio desume un compenso medio per ogni singola prestazione che non ha trovato riscontro nelle fatture emesse. L’ammontare di tali compensi medi viene attratto ad imposizione ai fini irpef, irap ed iva.

Diciamo subito che il numero dei contribuenti che affidano le proprie scritture contabili ad un professionista rappresenta, secondo prevalente giurisprudenza di Legittimità [1] e di merito [2], un valido parametro per l’accertamento induttivo dei redditi che pone a fondamento della rettifica una ragionevole presunzione di inattendibilità della dichiarazione dei redditi presentata dal depositario delle scritture.

E’ quindi legittimo, secondo dottrina di fonte ministeriale, l’operato dell’ufficio che procede induttivamente a rettificare il volume d’affari dichiarato dal contribuente qualora lo stesso risulta incongruo rispetto al numero dei soggetti assistiti. Il maggior numero di clienti rispetto a quello delle fatture emesse e la sproporzione tra l’ammontare di queste ultime, anche in relazione al probabile impegno profuso dal professionista nella sua prestazione d’opera, costituiscono certamente circostanze idonee a far sì che l’ufficio presuma l’esistenza di attività non dichiarate [3].

Ed anche basare la ricostruzione extracontabile dei compensi invocando i riferimenti al tariffario disciplinati dal D.P.R. n. 645/94, appare indirizzo presuntivo aderente all’approdo giurisprudenziale di Legittimità [4] che ha ritenuto valido l’accertamento induttivo, anche in presenza di contabilità regolare, quando il volume d’affari appare incongruo rispetto le tariffe “minime”.

In virtù dei consolidati orientamenti giurisprudenziali è onere del contribuente-professionista offrire elementi in grado di superare tali presunzioni dimostrando, attraverso circostanze specifiche e documentali – e non attraverso semplici asserzioni – che i compensi percepiti siano esattamente quelli dichiarati e confluiti nel modello UNICO, indipendentemente dal numero dei <clienti> e/o dai dichiarativi presentati.

 

[1] Corte di Cassazione, 30/10/2000, sentenza n. 14292; Corte di Cassazione, sez. I, 17/10/1995, sentenza n. 10823

[2] C.T.R. Sicilia, sez. XIV, Sentenza n. 43/2003, citata da L. LEO “L’accertamento fiscale per il professionista che emette poche fatture”; C.T.C. sez. XXV, 4/03/1997, sentenza n. 799.

[3] Cfr. L. LEO “L’accertamento fiscale per il professionista che emette poche fatture” op. cit.

[4] Corte di Cassazione, 14/03/2013, sentenza n. 6527. Le toghe di piazza Cavour, hanno accolto le doglianze dell’Agenzia delle entrate ritenendo condivisibile la circostanza che i compensi fossero “…stati determinati secondo il minimo della tariffa professionale, sicché quindi il metodo analitico induttivo seguito si basava su presunzioni aventi i caratteri della gravità, precisione e concordanza…”.