Plusvalenze immobiliari: il maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro non rileva sulle imposte dirette neanche per il passato

l’avviso di accertamento con cui l’ufficio determina la plusvalenza in caso di cessione di immobile, sulla base del maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale non è legittimo: le novità interpretative del 2015 travolgono anche gli accertamenti precedenti

EbookLa Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1823 del 24 gennaio 2017, ha confermato che l’avviso di accertamento con cui l’ufficio determina la plusvalenza in caso di cessione di immobile, sulla base del maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale non è legittimo, ribadendo la natura interpretativa della norma introdotta nel 2015, avente valore quindi anche per il passato.

Brevi considerazioni

Come è noto, l’art. 5, comma 3, del D.Lgs. n. 147 del 14 settembre 2015, in G.U. n.220 del 22 settembre 2015, norma entrata in vigore il 7 ottobre 2015, è intervenuto sulla prassi degli uffici di rettificare, per quel che qui ci interessa1, ai fini reddituali, la plusvalenza dichiarata a seguito di cessione di un bene immobili (art. 67 del T.U. n. 917/86) sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro di cui al D.P.R. n. 131/86.

Il nuovo dettato normativo prevede che “Gli articoli 58, 68, 85 e 86 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 5-bis, 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonchè per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347”.

Sulla base del nuovo dettato normativo, pertanto, la tecnica accertativa utilizzata finora dagli uffici finanziari non potrà più essere utilizzata.

Infatti, la norma di interpretazione autentica introdotta dall’art. 5, comma 3, del D.Lgs. n. 147/2015 impone l’acquisizione di ulteriori elementi e circostanze, anche se presuntivi.

Sul punto, la posizione della Corte di Cassazione appare netta.

Proprio di recente, la Suprema Corte, con la sentenza n.18234 del 16 settembre 2016, ha confermato che in caso di cessione di immobile o di azienda, il maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro non è applicabile automaticamente alle imposte dirette. Né è presumibile un maggior corrispettivo soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini delle imposte di registro ovvero delle imposte ipotecaria e catastale.

La Corte prende atto che, nelle more del giudizio, è sopravvenuto l’art. 5, c. 3, del D.lgs. n. 147/2015, norma che ha sancito che le disposizioni in tema di imposizione diretta sulle plusvalenze da cessioni di immobili e di aziende ovvero da costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, si interpretano nel senso che, in proposito, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito a fini dell’imposta dì registro di cui al d.p.r. n. 131/1986 ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al d.lgs. n. 347/1990. Viene, quindi, rilevato che “questa Corte ha già ripetutamente affermato l’applicabilità della norma anche a situazioni oggetto di giudizi in corso all’atto della sua entrata in vigore (cfr. Cass. 11543/16, 7488/16, 6135/16), in base al rilievo (v., anche, Cass. 23550/15) che l’esplicita attribuzione alla norma di portata interpretativa di disposizione previgente – se non rende la norma, per ciò stesso, effettivamente interpretativa – le conferisce, di certo, carattere retroattivo, giacché attesta l’intento del legislatore di attribuire alla norma medesima quell’efficacia retroattiva (e, dunque, portata regolatrice di fattispecie formatesi precedentemente alla sua entrata in vigore), che, delle leggi interpretative, costituisce elemento connaturale (cfr., tra le altre, C. cost. 246/1992)”.

La norma di interpretazione autentica introdotta, che produce effetti anche sul contenzioso attualmente pendente, deve indurre i contribuenti a verificare quali sono gli elementi che possono portare l’Amministrazione finanziaria a proseguire il contenzioso (sicuramente gli importi dei mutui contratti dagli acquirenti per un importo superiori ai prezzi di acquisto dichiarati, possono costituire solo una spia, atteso che spesso il cliente chiede alla banca un mutuo superiore per fronteggiare le spese di ristrutturazione dell’immobile).

Nel caso in cui non sia l’ufficio a fare la prima mossa, ben potrà farla il contribuente, presentando istanza di autotutela in tutti i casi in cui l’accertamento risulti privo di qualsiasi ulteriore elemento, ovvero potrà valutare di richiedere una conciliazione giudiziale, nei casi in cui gli elementi presenti possono comunque portare ad una diversa quantificazione dell’imposta2.

10 marzo 2017

Roberto Pasquini

1 La norma interessa, altresì, come vedremo, anche la plusvalenza dichiarata a seguito di cessione d’azienda – art.86, del T.U. n. 917/86.

2 Ricordiamo che, con l’art. 9, del D.Lgs. n. 156 del 24 settembre 2015, in G.U.n.233 del 7 ottobre 2010 (suppl. ord. n. 55), in vigore dall’1 gennaio 2016, il legislatore delegato, è intervenuto sulla conciliazione giudiziale, disciplinandola in maniera più organica, attraverso tre specifici articoli (48, 48-bis e 48-ter – fuori udienza, in udienza, e modalità di definizione e pagamento delle somme dovute), estendendola anche al secondo grado (con una riduzione delle sanzioni del 50%; resta ferma la sanzione del 40% del minimo di legge, se la conciliazione si perfeziona nel corso del primo grado di giudizio). Per quanto riguarda le spese di lite, l’art. 9, del D.Lgs. n. 156/2015 ha modificato l’art. 15, del D.Lgs. n. 546/1992. In particolare, il comma 2-octies, del citato articolo 15, del D.Lgs. n. 546/92, prevede che qualora una delle parti abbia formulato una proposta conciliativa, non accettata dall’altra parte senza giustificato motivo, restano a carico di quest’ultima le spese del processo ove il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta ad essa effettuata. Se è intervenuta conciliazione le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione.