Accertamenti bancari: presunzioni sulle movimentazioni e sentenza in via equitativa

date le presunzioni sulle movimentazioni bancarie, il giudice non può risolvere l’accertamento in via equitativa: l’unica possibilità di difesa per il contribuente è di offrire la prova liberatoria: cioè che dei movimenti sui conti bancari egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che gli accrediti e gli addebiti registrati sui conti non si riferiscono ad operazioni imponibili

banca2-immagineLa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26111 del 30.12.2015, ha ribadito il forte valore presuntivo degli accertamenti bancari.

Nel caso di specie, in seguito al sequestro di capi di abbigliamento con marchi contraffatti, l’Ufficio di Brescia della Agenzia delle Entrate, rilevato che il contribuente non aveva istituito e tenuto i libri contabili obbligatori, determinava ai fini IVA, IRPEF ed IRAP, con metodo induttivo, il reddito d’impresa, imputando a maggiori ricavi anche gli importi dei versamenti e dei prelievi, non giustificati, rilevati su conti bancari intestati al contribuente, o sui quali questi era comunque delegato ad operare, dedotti i costi “inerenti” l’esercizio dell’attività commerciale, quantificati forfetariamente in misura pari al 50% dei ricavi.

La decisione di primo grado, favorevole al contribuente, era riformata in grado di appello dalla Commissione tributaria Regionale della Lombardia, che, accogliendo l’appello principale dell’Ufficio e rigettando l’appello incidentale del contribuente, riteneva fondata la pretesa, ma riduceva l’imponibile in via equitativa del 50%, in quanto, a suo avviso, non tutte le movimentazioni bancarie in entrata potevano essere ricondotte all’esercizio dell’attività commerciale, ed in quanto l’attività illecitamente svolta non si poteva comunque tutta tradurre in utili.

La sentenza di appello, veniva quindi impugnata per cassazione dall’Agenzia delle Entrate, che riteneva violate le norme che ponevano una specifica presunzione legale di ricavi relativamente a tutte le movimentazioni bancarie in entrata ed uscita non altrimenti giustificate con idonee prove contrarie dal contribuente.

Il motivo di ricorso, secondo i giudici di legittimità, era fondato.

La statuizione della sentenza impugnata, secondo cui “non tutte le movimentazioni bancarie in entrata possono addursi alla attività commerciale, risultando fondata ed equa una riduzione al 50% dell’accertato reddito imponibile”, si poneva infatti in palese contrasto con la disciplina della prova presuntiva legale, suscettibile di prova contraria, prevista ai fini della determinazione del maggiore reddito imponibile, atteso che tanto la presunzione, stabilita dall’art. 51, secondo comma, n. 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in tema di accertamento dell’IVA (secondo la quale i singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 54 e 55 del medesimo decreto presidenziale, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili), quanto la presunzione di cui alla analoga norma dell’art. 32, primo comma, n. 2, Dpr n. 600/1973, dettata in materia di imposte sui redditi (secondo la quale i prelevamenti e gli importi riscossi nell’ambito di rapporti bancari, in difetto di indicazione del soggetto beneficiario o in mancanza di annotazione nelle scritture contabili, sono considerati ricavi o compensi posti a base delle rettifiche operate ai sensi degli artt. 38-41 dello stesso decreto, ove il contribuente non dimostri che ne ha tenuto conto nella dichiarazione dei redditi ovvero che tali somme rimangono escluse dalla formazione dell’imponibile), consentono di riferire a redditi/ricavi imponibili tutti i movimenti bancari rilevati dal conto all’attività economica svolta dal contribuente, qualificando gli “accrediti” come ricavi, e gli “addebiti” egualmente come manifestazione di ricchezza, in quanto considerati spese per corrispettivi versati per acquisti di beni e servizi reimpiegati nella produzione di maggiori ricavi di ammontare non inferiore agli importi prelevati.

La presunzione legale “juris tantum”, evidenzia la Suprema Corte, può dunque essere vinta dal contribuente soltanto se offre la prova liberatoria che dei movimenti sui conti bancari egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che gli accrediti e gli addebiti registrati sui conti non si riferiscono ad operazioni imponibili, occorrendo però, a tal fine, che vengano indicati e dimostrati dal contribuente la provenienza e la destinazione dei singoli pagamenti, con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti e dei prelievi.

La sentenza di appello, invece, operando una riduzione “in via equitativa” dell’imponibile  accertato in base alle movimentazioni bancarie non giustificate dal contribuente, aveva introdotto un elemento di determinazione dell’imponibile, non fondato su specifica prova contraria, e dunque non compreso nella fattispecie normativa tributaria, statuendo, in conseguenza, in contrasto con l’interpretazione data dalla Corte alle norme indicate.

Come confermato dalla ormai consolidata giurisprudenza della Corte Suprema gli accertamenti bancari forniscono dunque un insieme di dati sufficientemente sicuri, che possono legittimamente essere posti a base di un avviso di accertamento.

E laddove l’’Amministrazione abbia adempiuto al suo onere della prova, il contribuente non può limitarsi ad una generica contestazione, ma ha l’onere di fornire elementi che costituiscano la specifica prova contraria richiesta dalla legge.

La medesima Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4871/2015 dell’11/03/2015, ha del resto stabilito che, nel caso in cui l’Amministrazione Finanziaria, nel considerare, da un lato, i versamenti del socio sul suo conto bancario come ricavi imponibili per operazioni non fatturate e non dichiarate e, dall’altro, i prelievi come acquisti non autofatturati (a seguito di mancata emissione di fattura da parte del cedente) li consideri in via presuntiva come corrispondenti ad “acquisti” ai fini IVA, non viola l’art. 51, comma 2, n. 2, del d.P.R. n. 633 del 1972.

Tale interpretazione, pur evidenziando che la norma, in ragione del suo tenore testuale, non è perfettamente simmetrica a quella dettata per le imposte dirette, che prevede una presunzione di ricavi con riguardo sia ai versamenti che ai prelievi bancari, consente infatti di evitare, ai fini dell’IVA, la duplice incongruenza, da un lato, di ritenere irrilevanti le movimentazioni bancarie in uscita e, dall’altro, di non avere a disposizione alcun criterio per distinguere tra le movimentazioni comportanti una presunzione di cessione e quelle comportanti una presunzione di acquisto.

L’art. 51, comma 2, n. 2, secondo periodo, del d.P.R. n. 633 del 1972, dopo aver stabilito che i risultati delle indagini finanziarie “sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 54 e 55 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili”, aggiunge infatti che “sia le operazioni imponibili sia gli acquisti si considerano effettuati all’aliquota in prevalenza rispettivamente applicata o che avrebbe dovuto essere applicata”.

Il riferimento alle operazioni imponibili e agli acquisti induce dunque a ritenere che, ai fini IVA, le movimentazioni bancarie si presumono corrispondere a cessioni di beni o prestazioni di servizi (operazioni imponibili), se in entrata (in misura pari agli gli importi accreditati), o ad acquisti, se in uscita (ad esempio, prelievi).

L’onere della prova contraria incombe dunque in tali casi sempre sul contribuente, il quale, come detto, deve dimostrare di aver tenuto conto di tali importi nelle dichiarazioni, ovvero che essi non si riferiscono ad operazioni imponibili.

Tornando, in conclusione, alla ratio della sentenza in commento, preme comunque rilevare che giusto processo non significa processo secondo equità. Il giudizio “secondo equità”, infatti, al di fuori dei casi previsti dalla legge, viola l’articolo 113, comma 2, c.p.c.

E dunque una tale riduzione, come effettuata anche nella sentenza della CTR poi “cassata” dalla Corte, sarebbe priva di motivazione.

Nel caso in cui, la Commissione Tributaria decida “secondo equità“, la sentenza deve dunque essere considerata nulla, in quanto in sostanza non motivata e quindi in violazione degli artt. 36 del D.Lgs 546/92 e 132 c.p.c.

In base a quanto previsto dagli articoli 132 c.p.c. e 118, disposizioni attuative dello stesso codice, infatti la mancanza della motivazione determina la nullità della sentenza, allorquando renda impossibile l’individuazione delle ragioni poste a fondamento del dispositivo.

La motivazione di ogni provvedimento giurisdizionale deve infatti rendere evidente l’iter logico-giuridico seguito dal giudicante, consentendo così al soggetto interessato un’adeguata attività difensiva.

Una tale attività, invece, in caso di decisione secondo equità, non sarebbe possibile.

Il giudice tributario quindi, deve indicare gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento; in caso contrario, si ha una omessa pronuncia.

Come infatti riconosciuto dalla Cassazione con la sentenza n. 12503 del 26 agosto 2002, “non è correttamente motivata la decisione del giudice di merito che di fronte alla insufficienza degli elementi probatori…proceda ad un accertamento delle riprese a tassazione in via equitativa”.

E come poi già affermato dalla stessa Cassazione in altra sentenza (Cass. n. 24520/2005) “la valutazione del valore di un bene compiuta dal giudice attraverso gli elementi di causa non è assimilabile ad un giudizio secondo equità, in quanto si svolge nell’ambito dei parametri e delle indicazioni della legge; mentre il giudizio secondo equità si sovrappone e deroga alla legge”, il che, evidentemente, è consentito solo nelle tassative ipotesi dalla legge stessa previste.

Non solo, quindi, non esiste un’espressa disposizione che attribuisca al giudice tributario il potere di decidere secondo equità, ma, per di più, la (ormai pacifica) natura giurisdizionale delle Commissioni non lascia dubbio alcuno sulla piena applicabilità anche a tale giudizio di quelle disposizioni costituzionali (quali, ad esempio, l’articolo 101 della Costituzione) che relegano il giudizio di equità entro spazi limitati e tassativamente stabiliti dal legislatore: il giudice è soggetto soltanto alla legge, laddove quel “soltanto” ne implica, al tempo stesso, ampiezza e limite di azione.

 

9 maggio 2016

Giovambattista Palumbo