Falsa dichiarazione d'intento: attenzione alle conseguenze!

la consapevolezza, da parte del soggetto che opera una cessione di beni, della falsità della ‘dichiarazione d’intento’ emessa da persona dichiaratasi esportatore abituale comporta l’assoggettamento ad IVA dell’operazione con imposta che grava sul cedente

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22590 del 04.11.2015, ha stabilito importanti principi in tema di conseguenze accertative in caso di false dichiarazioni di intento.

La Commissione Tributaria Regionale della Liguria, nel caso di specie, aveva disatteso il ricorso proposto avverso l’avviso di accertamento, relativo alla ripresa a tassazione di IVA per l’anno 2008, sul presupposto che la contribuente aveva emesso nei confronti di alcune società “cartiere” fatture soggettivamente inesistenti, attestanti la vendita di autoveicoli.

Il contribuente ricorreva allora in Cassazione e deduceva la violazione dell’art. 8 lett. c DPR n.633/72 e dell’art. 2 D.L. n.746/83, in relazione all’art.360 c.1 n.3 c.p.c..

La Commissione Tributaria Regionale, secondo il ricorrente, non aveva infatti considerato che la non imponibilità ai fini IVA delle cessioni all’esportazione, o operazioni intracomunitarie, di autovetture dalla stessa poste in essere si giustificava per il solo fatto che il cessionario avesse rilasciato, per ciascuna vettura acquistata, una lettera di intenti regolarmente trasmessa all’Agenzia delle entrate.

Il contribuente lamentava poi il fatto che la CTR avesse omesso di esaminare la questione relativa all’effettiva destinazione delle auto a terzi rimasti ignoti e del luogo di cessione.

I giudici di legittimità ritenevano tuttavia infondate le censure, affermando che la sentenza impugnata aveva analiticamente dato conto degli elementi che giustificavano l’indebita omessa fatturazione dell’IVA, a nulla rilevando, rispetto alla decisione, l’individuazione dei clienti finali o la loro compartecipazione al disegno criminoso.

La Suprema Corte evidenziava, in particolare, che rispetto al costrutto della sentenza impugnata, che aveva ritenuto esistente un articolato e ben consolidato meccanismo frodatorio, volto a realizzare vendite in esenzione IVA da parte della cedente a società cartiere sulla base di lettere di intenti non veritiere, la pretesa della contribuente di ritenere decisiva l’individuazione dei soggetti realmente destinatari delle cessioni di autovetture da parte della società contribuente, o del luogo di cessione delle vetture non poteva in alcun modo essere assecondata, una volta accertato da parte del giudice di appello che tutti gli elementi emersi dagli accertamenti della Guardia di Finanza deponevano nel senso “della ragionevole certezza che la società cedente, non solo fosse edotta della fittizietà della dichiarazione d’intenti delle società acquirenti, o del fatto che i suoi clienti non fossero comunque esportatori abituali, ma anche fosse compartecipe della frode, da cui traeva ingenti vantaggi commerciali e fiscali”.

In tale prospettiva, ogni altro accertamento in ordine ai reali destinatari delle autovetture era stato dunque valutato come ultroneo rispetto alla pretesa fiscale, correlata all’emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.

La consapevolezza, da parte del soggetto che opera una cessione di beni, della falsità della “dichiarazione d’intenti” emessa da persona dichiaratasi esportatore abituale, sulla cui scorta l’operazione non viene assoggettata ad imposta, “comporta la non sussumibilità di quest’ultima nella fattispecie legale delineata dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, per mancanza originaria dell’elemento che caratterizza quel modello legale. Ne consegue che l’operazione commerciale posta in essere, non potendosi considerare in regime di esenzione, obblighi il cedente, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, a versare egli stesso l’imposta” (cfr. Cass. nn.20894/2005 e 23610/11).

L’infrazione addebitata al contribuente in tali fattispecie non rientra, del resto, fra quelle “meramente formali” di cui al comma 5 bis dell’articolo 6 d.lgs. 472/1997.

In base a tale previsione normativa, infatti, il contribuente, il sostituto e il responsabile d’imposta non sono punibili solo quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi.

Il quadro “VC – Esportatori e operatori assimilati – Acquisti e importazioni senza applicazione dell’IVA”, contenuto nel Modello della dichiarazione annuale Iva, va compilato peraltro, come noto, dai contribuenti che si sono avvalsi della facoltà, prevista per i soggetti che effettuano cessioni all’esportazione, operazioni assimilate e/o servizi internazionali e operazioni intracomunitarie, di acquistare beni o servizi e importare beni senza applicazione dell’Iva, laddove, il caso della comunicazione della falsa dichiarazione di intento è senz’altro di ostacolo all’attività accertativa.

Per la spettanza del regime di esonero devono quindi ricorrere le seguenti condizioni:

che il contribuente goda effettivamente dello status di esportatore abituale, avendo effettuato, nell’anno solare precedente (plafond fisso), oppure negli ultimi dodici mesi (plafond mobile), un ammontare di esportazioni, o altre operazioni rilevanti con l’estero, superiore al 10% del volume d’affari;

che egli abbia predisposto e inviato al proprio fornitore, prima dell’effettuazione dell’operazione, la dichiarazione di intenti.

E naturalmente che tale dichiarazione non sia falsa.

Come peraltro recentemente stabilito dalla medesima Corte, con la sentenza n. 22251 del 30.10.2015, relativa alla questione dell’applicazione del regime del margine sull’acquisto e la rivendita di autoveicoli usati, laddove, come anche nel caso in esame, il contribuente sostenga che la norma non pone alcun obbligo di controllo della dichiarazione resa dal cedente, bisogna comunque tenere presente che la regolarità solo formale della documentazione non esaurisce certo la prova dell’effettiva esistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi che consentono l’applicazione del regime speciale.

E quanto poi agli aspetti soggettivi, la buona fede rimane esclusa quando, dalle circostanze concrete, emergano indizi tali per cui il cedente “sapeva o avrebbe dovuto sapere” che l’operazione veniva ad iscriversi in una frode fiscale, laddove la dimostrazione che il soggetto era a conoscenza del fatto, o aveva ragionevoli motivi per sospettare, può essere data anche mediante prove presuntive semplici, con onere della prova contraria a carico del contribuente.

Dato che, come detto, nella specie, vi era non solo la presunzione, ma la “ragionevole certezza” che la società cedente, non solo fosse edotta della fittizietà della dichiarazione d’intenti delle società acquirenti, o del fatto che i suoi clienti non fossero comunque esportatori abituali, ma anche che fosse compartecipe della frode, allora appare evidente come proprio non si potesse parlare di buona fede.

18 aprile 2016

Giovambattista Palumbo