Compenso del consulente chiamato a studiare e realizzare un ipotetico piano di rilancio dell’azienda che poi fallisce

azione revocatoria del compenso versato nel periodo sospetto dalla società, poi fallita, al professionista chiamato a studiare e realizzare un ipotetico piano di salvataggio e rilancio dell’azienda

 

Con la sentenza della Corte di Cassazione, n. 19728 del 2 ottobre 2015, i giudici di legittimità hanno stabilito la legittimità dell’azione revocatoria della curatela fallimentare, sui compensi versati nel periodo sospetto dalla società poi fallita, nei confronti di un professionista chiamato a studiare e realizzare un ipotetico piano di rilancio dell’azienda; per la Cassazione il professionista che aveva emesso la fattura, era perfettamente a conoscenza della difficile situazione della società in quanto partecipava alle riunioni con emissari della banca sulle esposizioni bancarie, e sapeva delle difficoltà della società di adempiere con i mezzi ordinari alle proprie obbligazioni.

 

Il contenzioso

Con atto di citazione la curatela fallimentare di una SRL dichiarata fallita, chiamava in giudizio di fronte al Tribunale, un consulente per ottenere la dichiarazione di inefficacia, ex artt. 64 e 67, c. 2, L.F., per i pagamenti da lui ricevuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, per circa 10.000 euro, a titolo di compenso per l’attività di consulenza economica e finanziaria svolta in favore della società in bonis. Il consulente eccepiva la carenza dell’elemento psicologico della conoscenza dello stato di insolvenza ed in via riconvenzionale chiedeva l’ammissione, in via privilegiata, al passivo del fallimento, del proprio residuo credito.

Con sentenza del marzo 2002 il Tribunale rigettava la domanda; avverso la decisione il consulente proponeva appello .

La Corte d’Appello, con sentenza del febbraio 2007, accoglieva il gravame della curatela e dichiarava inefficaci, ai sensi dell’art. 67, c. 2, L.F., i pagamenti, per complessivi euro 7.333,68. La corte territoriale condannava il professionista alla restituzione di tale somma, oltre gli interessi legali della domanda giudiziale, ponendo a carico dello stesso anche la metà delle spese del primo e del secondo grado di giudizio e compensando tra le parti la metà residua.

I giudici di secondo grado motivavano che dalla fattura emessa circa €. 10.000,00 si evinceva che l’intervento del professionista era mirato ad avviare a soluzione i problemi finanziari della società mediante incontri collegiali con i rappresentanti degli istituti di credito e con la redazione di un progetto complessivo e/o per ogni singola società, di risistemazione, rilancio e sviluppo, prevedendo l’eventuale ingresso di un nuovo socio e l’offerta di un’ipoteca volontaria su un compendio immobiliare, in parte di proprietà di una società ed in parte di proprietà personale dei soci: attività questa incompatibile con l’eccepita ignoranza dello stato di insolvenza della società, poi fallita.

 

Le motivazioni del ricorso in Cassazione

Avverso la sentenza il professionista proponeva ricorso per Cassazione, articolato in un unico motivo a censura multipla, deducendo:

– la violazione e la falsa applicazione dell’art. 67, c. 2, L.F. (nel testo in vigore precedentemente alla riforma attuata con d.l. 14 marzo 2005) e degli artt. 2727 e 2729 c.c.;

– l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, c. 1, nn. 3 e 5 c.p.c..

Resisteva con controricorso la curatela del fallimento.

L’istituto della revocatoria fallimentare

La legge fallimentare, di cui al Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, impone al curatore di verificare, nell’esercizio delle sue funzioni, se vi siano operazioni poste in essere dalla società o dall’imprenditore fallito che ricadano nell’ambito di operatività della revocatoria. La curatela, in particolare, può domandare che siano dichiarati inefficaci e revocati gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori: l’azione si propone dinanzi al Tribunale fallimentare, sia in confronto del contraente immediato, sia in confronto dei suoi aventi causa nei casi in cui sia proponibile contro costoro.

Le norme della legge fallimentare che disciplinano le possibili azioni legali a difesa della massa dei creditori concorsuali contro eventuali atti pregiudizievoli alle loro ragioni, compiute dal debitore fallito, sono contenute negli articoli da articoli da 64 a 70 della Legge Fallimentare.

Secondo la normativa in esame sono inefficaci, rispettivamente ex artt. 64 e 65 L.F., gli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento ed i pagamenti anticipati di crediti che scadono nel giorno della dichiarazione di fallimento o posteriormente, se tali pagamenti sono stati eseguiti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento.

Sono, viceversa, revocati, salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato d’insolvenza del debitore:

1) gli atti a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso (cioè sussista una sproporzione tra le prestazioni);

2) gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento;

3) i pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituiti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento per debiti preesistenti non scaduti;

4) i pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali o volontarie costituiti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento per debiti scaduti.

Sono altresì revocati, se il curatore prova che l’altra parte conosceva lo stato d’insolvenza del debitore, i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati, se compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento.

Atti non soggetti a revocatoria fallimentare

Non sono soggetti all’azione revocatoria:

a) i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso;

b) le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca;

c) le vendite ed i preliminari di vendita trascritti ai sensi dell’articolo 2645-bis del codice civile, i cui effetti non siano cessati ai sensi del comma terzo della suddetta disposizione, conclusi a giusto prezzo ed aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado;

d) gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria e la cui ragionevolezza sia attestata da un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili ;

e) gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo, nonché dell’accordo omologato ai sensi dell’articolo 182-bis Legge Fallimentare;

f) i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti ed altri collaboratori, anche non subordinati, del fallito;

g) i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali di concordato preventivo.

L’analisi della Corte di Cassazione

I giudici di legittimità osservano che le varie censure, promiscuamente enunciate nel contesto di un unico motivo di ricorso, ai limiti dell’inammissibilità, mirano, nel complesso, a denunciare la violazione dì legge ed il vizio di motivazione nell’accertamento dell’elemento soggettivo della conoscenza dello stato di insolvenza del debitore, che l’art, 67, c. 2, L.F., richiede ai fini della applicabilità dell’istituto della revocatoria fallimentare di pagamenti di debiti scaduti.

Il ricorrente contesta il valore indiziario della fattura presa in esame dalla Corte di Appello, che si riferirebbe, in realtà, all’attività professionale prestata per la risoluzione di una piccola questione burocratica con una banca ed alla formulazione di qualche ipotesi di assetto finanziario della SRL .

La Cassazione evidenzia preliminarmente che in tema di revocatoria fallimentare, la conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo deve essere effettiva, ma può essere provata anche per presunzioni gravi, precise e concordanti1; va rilevato, osservano i giudici di legittimità, come l’interpretazione della predetta fattura non presenti vizi di illogicità nell’analisi delle prestazioni professionali ivi contemplate, che tiene conto anche del successivo incarico conferito al professionista per la risistemazione, il rilancio e lo sviluppo della SRL, con eventuale ingresso di un nuovo partner nella compagine sociale, nonché del successivo rapporto, stilato in adempimento dell’incarico, con cui si intendeva illustrare la situazione del gruppo e le linee strategiche da adottare per il risanamento finanziario.

Le conclusioni

Per la Corte di Cassazione la motivazione della sentenza appare completa, quindi, nell’offrire un quadro della conoscenza da parte del professionista dell’incapacità della società di adempiere con mezzi ordinari le proprie obbligazioni e si sottrae alle censure del ricorrente, volte a prospettare una difforme interpretazione degli elementi di fatto apprezzati in sentenza, anche sotto il profilo dell’inesistenza di un vero e proprio stato di insolvenza. Analoghe considerazioni possono ripetersi per gli ulteriori argomenti addotti a critica dell’iter motivazionale, sotto il profilo della inidoneità probatoria del rapporto depositato nel giugno 1994 sullo stato della società, posteriore ai pagamenti, risalenti al maggio 1994.

In linea di principio, osserva la Corte di Cassazione, non è viziata da illogicità la ricostruzione, per via presuntiva, dello stato soggettivo sulla base di documenti successivi che consentano di gettare luce sulla situazione pregressa; oltre al fatto che l’accertamento della stato si insolvenza della società poi fallita, è fondato su un complesso di elementi di fatto, tra cui la lettera di incarico ed i contatti con le banche anteriori ai pagamenti.

Il ricorso è dunque infondato e deve essere respinto, con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, sulla base del valore ritenuto in sentenza dal numero e dalla complessità delle questioni trattate.

9 ottobre 2015

Federico Gavioli

1 Cfr. Cass. Civ. Sez. I, del 19 febbraio 2015 n. 3336.