Il doppio binario penale e tributario è ammesso

i risultati del processo penale e di quello tribuario che si svolgono sui medesimi fatti possono legittimamente non coincidere, in quanto il giudice tributario può valutare autonomamente la sentenza penale emessa sui medesimi fatti

 

La sentenza della Corte di Cassazione n. 2938 del 13.2.2015 ha affermato che i giudici di merito non vìolano il principio della libera valutazione del giudicato penale laddove ritengano che una sentenza penale non può far stato nel giudizio tributario, costituendo la decisione penale un semplice elemento di prova.

A tal proposito, infatti, la Corte Suprema, già con la sentenza n. 12436 dell’8 giugno 2011, aveva affermato che “L’efficacia vincolante del giudicato penale non opera automaticamente nel processo tributario, poichè in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto della prova testimoniale) e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Nessuna automatica autorità di cosa giudicata può quindi attribuirsi, nel separato giudizio tributario, alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorchè i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente”.

Il principio affermato dai giudici di legittimità non è di poco conto.

 

A questo consegue infatti che il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.) deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare (vedi anche Cass. n. 3724/2010, n. 27919/2009, Cass. 10945/2005; 19481/2004; 9109, 6337, 3961/2002).

Le sentenze nei processi penali non possono dunque avere rilievo automatico (neppure dopo il loro passaggio in giudicato) nel giudizio tributario, sotto vari profili.

In primis perché, il parametro di valutazione del giudice non è a ben vedere l’innocenza dell’imputato, ma l’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio per insufficienza di elementi in grado di sostenere in dibattimento l’accusa (penale).

Anche laddove il procedimento penale e quello tributario attengano alla medesima fattispecie, peraltro, gli stessi fatti sono destinati intuitivamente ad assumere connotati differenti nei diversi ambiti, penale ed amministrativo, attesi i differenti principi posti a presidio dell’elemento psicologico nei richiamati contesti.

 

La principale conseguenza che si viene a determinare in un simile scenario riguarda, appunto, l’onere della prova, non potendo ipotizzarsi, in sede penale, come appunto invece in sede tributaria, un’inversione di tale onere.

Guardandosi pertanto, in sede tributaria, non alla certezza dell’evento contestato, ma anche solo alla probabilità o verosimiglianza, si potranno prevedere anche forme indirette o presuntive di responsabilità.

Tutto ciò si traduce, processualmente, in una diversa ripartizione dell’onere della prova nell’ambito dei due tipi di procedimenti.

Lo scenario è quindi del tutto diverso.

Inoltre, “… anche con riferimento a sentenze penali pronunziate a seguito di dibattimento, si ritiene che nessuna automatica autorità di cosa giudicata possa più attribuirsi nel giudizio tributario (neppure) alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4 e trovano ingresso, con rilievo probatorio … anche presunzioni semplici (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54), di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna (Cass. nn. 9109/2002, 633 7/2002, 3961 /2002, 889/2002, 15207/2001,3421/2001). Di modo che l’imputato assolto in sede penale, anche con piena formula (per non aver commesso il fatto o perché il fato non sussiste), potrebbe tuttavia essere responsabile fiscalmente, qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria da parte dello stesso contribuente, a giustificare in tutto o in parte il debito tributario”(Cassazione, sentenze 3726/2010 e 3564/2010).

 

Grande importanza rivestono inoltre, sotto il profilo sistematico generale, le norme contenute nel titolo IV del decreto 74, che prevedono:

– il principio di specialità (art. 19);

– i rapporti tra il procedimento penale e il processo tributario (artt. 20 e 21).

Relativamente al primo punto, viene stabilito che quando uno stesso fatto è punito in via sia amministrativa che penale si applica soltanto una sanzione, quella comminata dalla disposizione speciale.

Ciò significa che, in tutti i casi in cui tra due disposizioni giuridiche esista un rapporto di genere a specie, ossia quando tutti gli elementi contenuti nella fattispecie generale siano compresi nella fattispecie speciale, la quale inoltre presenti uno o più elementi particolari aggiuntivi, detti per l’appunto “specifici” o “specializzanti”, si applica esclusivamente la seconda.

In concreto, avverrà che nelle diverse ipotesi in cui le norme penali richiedono il superamento di determinate soglie di punibilità, quest’ultime costituiranno l’elemento caratterizzante per l’applicazione della sola disposizione penale.

Tuttavia il Legislatore ha avvertito l’esigenza di coordinare meglio, con dei correttivi, il rapporto tra i due sistemi sanzionatori, penale e amministrativo.

La preoccupazione è derivata, sostanzialmente, dalla considerazione del fenomeno ricorrente delle società amministrate da meri prestanome, le quali potrebbero aggirare le sanzioni amministrative a esse irrogabili (ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. 472/1997) riversando tutta la responsabilità, per i fatti di evasione penalmente rilevanti, in capo ai rappresentanti legali.

 

Per evitare ciò l’art. 19, comma 2, prevede che, anche quando il principio di specialità porti a escludere l’applicabilità delle sanzioni amministrative nei confronti della persona fisica autrice della violazione, permane tuttavia la responsabilità per tali sanzioni da parte delle società, associazioni o enti nell’interesse dei quali abbia agito il trasgressore.

Per quanto riguarda poi la disciplina dei rapporti tra il procedimento penale e quello amministrativo (artt. 20 e 21), risulta confermato, come detto, il principio della completa autonomia reciproca delle due sfere di azione (c.d. “doppio binario”), escludendo qualsiasi pregiudizialità o vincolo sospensivo tra i diversi contesti.

Ne consegue che, sia l’attività di accertamento degli Uffici finanziari, sia i processi avanti alle Commissioni tributarie si svilupperanno in parallelo e indipendentemente dal processo penale vertente sui medesimi fatti ed a prescindere dalle vicende relative all’altro, ciascuno, appunto, sul proprio binario (articolo 20 decreto 74/2000).

 

Tale indipendenza tra i due giudizi è confermata del resto dal fatto che la sospensione del processo tributario avviene unicamente nell’ipotesi residuale “di presentazione di querela di falso o deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio” (art. 39 d. lgs. 546/92).

La previsione aveva destato non pochi dubbi di legittimità costituzionale per contrasto sia con l’art. 3 C. (stante il rischio che la vicenda potesse avere esisti non solo diversi ma persino confliggenti in sede penale e tributaria), sia con l’art. 24 C., per la compressione che il diritto di difesa del contribuente rischia di subire in ordine alla non utilizzabilità di prove documentali (o dichiarative, quale la testimonianza, preclusa nel processo tributario) nella sede tributaria, utilizzabili invece in quella penale .

I dubbi sono stati tuttavia fugati dalla Corte costituzionale che ha ribadito che la scelta del legislatore di non prevedere la sospensione del processo tributario in attesa dell’esito di quello penale ha natura discrezionale ed incontra pertanto il limite della ragionevolezza.

Tale limite nel caso di specie risulta rispettato in quanto la motivazione del non oberare il contenzioso tributario di una attesa che rischia di essere lunga, considerata anche la mole dei processi tributari, è una scelta ragionevole, considerato che una abnorme durata del processo tributario finirebbe per ledere i diritti del contribuente.

Inoltre il contribuente non perde il diritto di fare valere tutte le sue difese nel processo ancora penale in corso, a prescindere da quello che è stato l’esito del processo tributario conclusosi, e quindi, non subisce limiti nel proprio diritto alla difesa (Corte Cost. sentenza 31/1998 le cui conclusioni si trovano ribadite in numerose sentenze successive).

 

Tornando comunque al caso all’attenzione della Corte, di cui alla sentenza n 2938 del 13.2.2015, l’elemento di prova “assoluzione in sede penale” è stato dunque considerato non concludente in confronto alle contrarie presunzioni, ritenute gravi, precise e concordanti.

I giudici della Commissione Tributaria Regionale avevano in specie ritenuto che l’avviso era stato esattamente correttamente motivato, con accertamento analitico-induttivo, in quanto l’inesistenza delle passività era stata ricavata da fatti gravi precisi e concordanti, consistenti nelle circostanze che la “cartiera” non avesse un’adeguata forza lavoro, che non comparisse traccia bancaria di alcun effettivo pagamento e che questo non fosse in altro modo individuabile.

Pur essendo stato dunque il contribuente assolto in sede penale, tale elemento non era sufficiente a sovvertire, ai fini tributari, l’impianto probatorio dell’Amministrazione finanziaria.

Peraltro la sentenza è ancor più interessante, se connessa anche con altra recente sentenza della Suprema Corte, la n. 6823, del 17.02.2015 della III Sez. penale, che, dall’altro lato, a conferma dell’effettiva indipendenza dei due giudizi, stabilisce che, in caso di accertamenti presuntivi, non vi possono essere conseguenze penali.

Le presunzioni e i criteri di valutazione induttivi, usati ai fini fiscali, non possono infatti valere, dice la Corte, ai fini della contestazione del reato.

Nel caso di specie al contribuente era stata contestata un’evasione di oltre un milione di euro, ben al di sopra delle soglie di punibilità.

Il medesimo contribuente, condannato sia in primo che in secondo grado, ricorreva allora in Cassazione, sostenendo che l’imposta era stata quantificata, in sede tributaria, solo in via presuntiva, con la conseguenza che il giudice penale aveva omesso di accertare l’effettivo superamento della soglia di punibilità, ponendo anzi a carico del contribuente l’onere della prova contraria.

La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, ha dunque ritenuto che il giudice penale non avesse in effetti verificato, con specifiche indagini, la sussistenza della violazione, laddove solo a questi spetta il compito di procedere all’accertamento dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può anche contraddire quella svolta ai fini tributari, non potendo, peraltro, in sede penale, applicarsi le presunzioni legali, o i criteri di valutazione validi ai fini fiscali.

Insomma, due processi davvero indipendenti l’uno dall’altro.

19 marzo 2015

Giovambattista Palumbo