Da cessioni separate di singoli beni alla riqualificazione come cessione di ramo d'azienda

senza neppure ricorrere al concetto di abuso del diritto, è sempre legittima la riqualificazione, ai fini dell’imposta di registro, di una serie di singole operazioni di cessione di beni aziendali quale cessione di ramo d’azienda

 

La sentenza 1955/2015, depositata il 04.02.2015, ha stabilito che, senza neppure ricorrere al concetto di abuso del diritto, è legittima la riqualificazione, ai fini dell’imposta di registro, di una serie di operazioni di cessione di beni aziendali quale cessione di ramo d’azienda.

 

E’ infatti nella organizzazione del complesso dei beni che va riconosciuta la componente immateriale caratteristica dell’azienda, o di un suo ramo, atteso che i beni, singolarmente considerati, prospettano solo la loro specifica essenza, ma la loro “organizzazione”, finalizzata alla produzione, conferisce al complesso dei beni il carattere di complementarietà necessario perché possa attribuirsi ad esso la definizione di azienda (vedi anche Cass. n. 4319 del 1998).

L’art. 20 D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 dispone del resto espressamente che “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.

Ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, il criterio, fissato dal citato articolo, dell’intrinseca natura e degli effetti giuridici degli atti comporta quindi che, nell’imposizione di un negozio, deve attribuirsi rilievo preminente alla sua causa reale e alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche se mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali.

Nè, ove l’operazione economica sia unitaria, al di là delle forme giuridiche in cui la sia rivestita, può darsi valore preminente alla diversità di oggetto e di causa, relativi, ad esempio, a due contratti, per negare il loro collegamento e consentire un intento elusivo di una fattispecie tributaria (vedi anche Cass. n. 13580 del 2007).

 

L’art. 20 cit. costituisce indubbio indice rivelatore di criteri di qualificazione autonomi rispetto alle ordinarie interpretative civilistiche, attesa la preminenza del principio generale antiabuso e della regolamentazione reale degli interessi, individuata nell’indagine sulle possibili conseguenze giuridiche di atti e negozi (vedi anche Cass. n. 1405 del 2013).

Ciò comporta che, ancorché non si prescinda dall’interpretazione della volontà negoziale secondo i canoni generali, nell’individuazione della materia imponibile dovrà darsi la preminenza assoluta alla causa reale sull’assetto cartolare (vedi anche Cass. n. 6405/2014).

Ne consegue dunque la tangibilità, sul piano fiscale, delle forme negoziali, in considerazione della funzione antielusiva sottesa alla disposizione in parola.

Sicché l’autonomia contrattuale e la rilevanza degli effetti giuridici dei singoli negozi (e non anche di quelli economici) restano necessariamente circoscritti alla regolamentazione formale degli interessi delle parti, perché altrimenti finirebbero per sovvertire i detti criteri impositivi.

La scelta legislativa di privilegiare, nella contrapposizione fra la intrinseca natura e gli effetti giuridici e “il titolo o la forma apparente di essi“, la sostanza dell’operazione implica, quindi, che “gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscano a semplici elementi della fattispecie tributaria“.

 

Per conseguenza, secondo i giudici di legittimità, nel caso di specie i rilievi della società erano irrilevanti, nella parte in cui facevano leva, ai fini della valenza fiscale delle operazioni compiute, sul fatto che molteplici fossero i contratti di cessione di beni aziendali: ciò che importa non è cosa le parti hanno scritto (mediante i contratti conclusi) ma cosa esse hanno effettivamente realizzato col complessivo regolamento negoziale adottato, anche indipendentemente dal contenuto delle dichiarazioni rese.

Significativo è inoltre a tal proposito il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51, comma 4, il quale stabilisce che “per gli atti che hanno per oggetto aziende o diritti reali su di esse il valore di cui al comma 1 è controllato dall’ufficio con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento ed esclusi i beni indicati nell’art. 7 della parte prima della tariffa, al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa a norma del codice civile, tranne quelle che l’alienante si sia espressamente impegnato ad estinguere e quelle relative ai beni di cui al citato art. 7 della parte prima della tariffa e art. 11 bis della tabella. L’ufficio può tenere conto anche degli accertamenti compiuti ai fini di altre imposte e può procedere ad accessi, ispezioni e verifiche secondo le disposizioni relative all’imposta sul valore aggiunto“.

La commisurazione del tributo al “valore complessivo dei beni che la compongono” e non già al valore dei singoli beni e rapporti trasferiti, sottolinea la Corte, implica la necessità di assumere ad elementi della base imponibile anche i beni ed i rapporti diversi da quelli formalmente oggetto del contratto di cessione d’azienda, se comunque afferenti all’azienda ceduta ed oggetto della complessiva regolamentazione attuata.

 

Poiché dunque l’imposta di registro ha per oggetto il negozio giuridico e non l’atto documentale, essa richiede l’interpretazione unitaria del negozio, anche se frazionata in atti distinti.

La prevalenza della natura intrinseca dell’atto e dei suoi effetti giuridici sul suo titolo e sulla sua forma apparente, vincolando l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma, comporta la necessità di verificare se sia configurabile “il risultato di un comportamento sostanzialmente unitario rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali” (vedi anche Cass. 25 febbraio 2002, n. 2713).

Così, una pluralità di negozi, strutturalmente e funzionalmente collegati al fine di produrre un unico effetto giuridico finale, vanno considerati, ai fini dell’imposta di registro, come un fenomeno unitario, anche in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva.

In casi come quello oggetto del contenzioso in esame, è dunque configurabile una cessione di azienda, senza neppure la necessità di ricorrere all’abuso del diritto in forza della elusività della operazione, per cui non grava sull’Amministrazione l’onere di provare i presupposti dell’abuso di diritto, atteso che i termini giuridici della questione sono già tutti desumibili dal criterio ermeneutico di cui al citato art. 20 (vedi anche Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3481 del 14/02/2014).

A sostegno del frazionamento in più atti di un’unitaria operazione possono infatti esservi anche ragioni fisiologiche e non solo patologiche, senza che però ciò escluda la configurabilità di un’operazione unitaria ai fini dell’assoggettabilità all’imposta di registro.

Ciò non significa, conclude la Corte, che l’operazione economica non possa anche configurare gli estremi di un’elusione fiscale, ma non è necessario ricorrere a tale figura nel caso in cui si siano conseguiti vantaggi fiscali mediante uso distorto di strumenti giuridici, potendo, al riguardo, supplire, molto più semplicemente, il criterio ermeneutico di cui all’art. 20 cit.

L’art. 20 del d.p.r. n. 131/86 non è infatti soltanto una norma interpretativa degli atti registrati, ma anche una disposizione intesa ad identificare l’elemento strutturale del rapporto giuridico tributario, il quale è dato dall’oggetto e viene fatto coincidere con gli effetti giuridici indicativi della capacità contributiva dei soggetti che compiono gli atti (vedi anche Cass. n. 2713-02).

Una tale nozione di azienda è d’altronde pienamente coerente anche con la disciplina comunitaria dell’azienda nel sistema dell’iva, laddove la giurisprudenza comunitaria specifica che il trasferimento di un’azienda o di un suo ramo corrisponde al trasferimento dell’insieme di beni, materiali e immateriali, che “complessivamente costituiscono un’impresa o una parte d’impresa idonea a continuare un’attività economica autonoma…” (Corte giust. 10 novembre 2011, C-444/10, Cristel Schriever, che ha ricompreso nel trasferimento d’azienda, in quanto tale non assoggettabile ad iva, la cessione dello stock di merci e dell’attrezzatura di un negozio).

 

Ai fini dell’imposta di registro, ex art. 20 citato, pertanto, la messa in atto di diverse operazioni negoziali miranti a realizzare, attraverso effetti giuridici parziali, un unico effetto giuridico finale traslativo, costitutivo o dichiarativo, comporta comunque, per espressa previsione normativa, una sola qualificazione giuridica dell’operazione complessiva e la sottoposizione ad imposta di registro in base alla natura dell’effetto giuridico (finale).

Per tali motivi, ai fini della ricostruzione del reale contenuto giuridico degli atti, occorre:

  • avere riguardo al comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipulazione dell’atto o degli atti, nella misura in cui lo stesso comportamento è idoneo a ricostruire la effettiva volontà negoziale dei contraenti;

  • effettuare un’analisi complessiva dei dati risultanti dai documenti nei quali gli atti stessi sono incorporati.

Il prelievo, pertanto, deve attuarsi in questi casi sulla base del fine pratico perseguito dai contraenti e l’indagine deve spingersi anche agli atti precedenti e successivi, così da individuarne il fine pratico unitario, discendente dal collegamento funzionale che viene a determinarsi quando i diversi e distinti negozi, cui le parti abbiano dato vita nell’esercizio della loro autonomia contrattuale, pur conservando l’autonomia propria di ciascun tipo negoziale, vengano tuttavia concepiti e voluti con un nesso di reciproca interdipendenza.

23 marzo 2015

Giovambattista Palumbo