La posizione del venditore di un bene, il cui valore sia stato definito ai fini dell'imposta di registro

l’accertamento in via induttiva della plusvalenza a seguito dell’accertamento del maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro, è un tema da tempo dibattuto e che continua a generare un costante contenzioso fra contribuente ed Agenzia delle Entrate

L’accertamento in via induttiva della plusvalenza, ex art. 86 del Dpr 917/86, a seguito dell’accertamento del maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro, è un tema da tempo dibattuto e che continua a generare un costante contenzioso fra contribuente ed Agenzia delle Entrate.

Il punto di partenza è l’avviso di rettifica e liquidazione che viene notificato dall’Ufficio territoriale alle controparti contrattuali di una compravendita di azienda o di un terreno (questi sono i casi classici).

Successivamente alla definizione del valore, per acquiescenza di una delle parti o a seguito di accordo di adesione, si “forma” il valore definitivo.

I venditori di solito si “disinteressano” dell’atto impositivo ai fini dell’imposizione indiretta, lasciando che l’acquirente chiuda la pendenza con il Fisco, spesso di rilievo economico non elevato (si consideri che il prelievo proporzionale, in sede di cessione di azienda è il 3%, del valore definito detratto quello dichiarato, in quanto già versato in sede di rogito).

Ma successivamente, il venditore può vedersi notificato un avviso di accertamento, ex art. 39, comma 1 lett. d) Dpr 600/1973, ai fini delle imposte dirette, in cui l’Agenzia delle Entrate richiede le imposte sulla plusvalenza, determinata, appunto, induttivamente sulla base del valore definitivo ai fini del registro.

Ebbene, spesso i venditori si difendono eccependo che nessun “ruolo” hanno avuto nell’accertamento di valore ai fini del registro, magari perché vi è stato un accordo fra Fisco e acquirente.

Una mera difesa di questo tipo può non avere chanches in diritto.

E’, infatti, unanime la giurisprudenza della Suprema Corte, che qualifica come “presunzione” la sovrapponibilità del “prezzo incassato” al “valore definito”.

In argomento, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8010/2013 depositata in data 2 aprile 2013, ha ritenuto la legittimità dell’accertamento fiscale ai fini delle imposte dirette basato su di un precedente accertamento ai fini dell’imposta di registro.  

Questo il principio di diritto enunciato: in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’amministrazione finanziaria è legittimata a procedere in via induttiva all’accertamento del reddito da plusvalenza patrimoniale … sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, ed è onere probatorio del contribuente superare (anche con ricorso ad elementi indiziari) la presunzione dì corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro, dimostrando di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore” (cfr. anche le sentenze nn. 21055/05, 12899/07, 5079/11, 23608/11).

Lo scopo di questo orientamento è quello di agevolare il Fisco nell’arduo compito di provare per presunzioni il valore di determinate operazioni commerciali e, per tale via, ottenere maggiori entrate fiscali.

Il principio, come detto, è consolidato, poichè enunciato in plurimi assesti: “per quanto concerne la questione del “quantum” della plusvalenza … è orientamento giurisprudenziale di questa Corte, cui il Collegio intende aderire, che in tema di plusvalenze patrimoniali …, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere in via induttiva all’accertamento della plusvalenza di cessione di un bene sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro” (così, Cass. n. 1447/2006; Cass. 14581/2001; Cass. n. 1448/2000; Cass. n. 210/1990; Cass. n. 4914/1986).

In sostanza, “il valore definitivamente assegnato ai fini dell’imposta di registro … è vincolante per l’Amministrazione Finanziaria nell’accertamento, ai fini delle imposte sui redditi, avente ad oggetto plusvalenze realizzate con lo stesso trasferimento”.

Infatti – è stato osservato – se si ritenesse il valore del bene ceduto diverso a seconda del tipo di tributo si violerebbero principi costituzionalmente protetti, ovvero il principio di uguaglianza ed il principio di capacità contributiva.

Se questo è l’orientamento della Cassazione, nella giurisprudenza di merito resistono pronunciamenti di segno opposto, che sottolineano come sia l’Ufficio a dover provare che il prezzo corrisponda al valore definito, proprio facendo leva sulla diversità di presupposti (valore venale/corrispettivo) dei due diversi tipi di imposte (così Ctp Firenze 118/10/2012 depositata il 18/09/2012).

In questo senso, una Commissione di merito ha chiarito che “l’esistenza di un valore concordato tra l’acquirente e l’Amministrazione finanziaria diverso da quello indicato nell’atto pubblico può costituire una valida ragione per poter procedere all’accertamento di un eventuale occultamento di materia imponibile ma non può da solo costituire prova di un incasso avvenuto in misura maggiore rispetto a quella indicata nell’atto pubblico di vendita” (così, Ctr Basilicata Potenza, 97/01/2014, depostitata il 04-02-2014).

Il deliberato dei giudici lucani – ma il principio non è isolato – pare porsi in contrasto con l’orientamento della Cassazione, nella misura in cui pone a carico dell’Ufficio l’onere di “corroborare” una prova già sufficiente, quale, appunto, il valore definitivo ai fini dell’imposta di registro.

La posizione del venditore alla luce della giurisprudenza recente

Secondo la giurisprudenza, la prova che il venditore deve fornire in un giudizio sul recupero della plusvalenza è quella, come detto, di aver venduto concretamente ad un prezzo inferiore.

Quindi, se egli abbia elementi che consentano di dimostrare che il valore del bene ceduto è inferiore a quello stimato dall’Ufficio, è suo onere ostenderli già nel contraddittorio ai fini dell’imposta di registro.

Qualora non partecipi al detto contraddittorio, nel successivo giudizio ai fini dell’imposizione diretta, avrà, infatti, l’arduo compito di ribaltare la presunzione che la legge e la giurisprudenza pongono a favore del Fisco.

Nei fatti, si tratta di una prova molto difficile (“diabolica”, è stato affermato).

Difatti, la Cassazione non ha mai precisato come il contribuente possa ribaltare la presunzione a suo sfavore, né – probabilmente – lo avrebbe potuto fare, trattandosi di giudizio sul fatto.

Alcune sentenze hanno valorizzato, ad esempio, la presenza di una perizia, che giustificasse un valore di cessione inferiore così come la circostanza che il valore sia stato definito dall’acquirente e non dallo stesso venditore.

In questo senso, i giudici regionali lombardi hanno statuito – riguardo alla plusvalenza per l’alienazione di un terreno – che “la rettifica ai fini dell’imposta di registro, successivamente oggetto di adesione dall’acquirente, non è sufficiente a rideterminare il valore della maggiore plusvalenza in capo al venditore, tenuto conto della perizia asseverata effettuata ai fini dell’affrancamento dei valore di cessione, della delibera assembleare della società acquirente, e dell’apparente contraddittorietà della motivazione dell’atto impositivo che ha successivamente ridotto il valore originariamente accertato in funzione dell’adesione effettuata ai fini del registro(Ctr Lombardia Milano, n. 93/29/2013, depositata il 06-06-2013).

La giurisprudenza ha, poi, avuto modo di esaminare anche altre circostanze.

La dimostrazione – documenti bancari alla mano – che il valore dichiarato sia quello effettivamente percepito ha convinto diverse Commissioni tributarie, che hanno accolto le doglianze del contribuente, “premiando” la trasparenza del contribuente.

A questo proposito, sempre i giudici lombardi hanno escluso la legittimità della rettifica della plusvalenza “laddove parte venditrice abbia dimostrato l’effettivo pagamento del corrispettivo”. (così Ctr Lombardia Milano, n. 169/44/2011 Sez. XLIV, depositata l’11/11/2011).

Per contro, anche l’ostensione dell’estratto del conto corrente bancario ove è stato versato il corrispettivo dichiarato della vendita è stato ritenuto insufficiente da una Commissione tributaria, sulla base dell’assunto che, se fosse stato incassato un prezzo superiore, certo non sarebbe transitato per il medesimo conto corrente (Ctp Firenze n. 29/19/2012, depositata in data 5 marzo 2012).

In sostanza, si tratta di un procedimento probatorio complesso e dall’esito incerto, dove vi è una preminente posizione di vantaggio del Fisco, avallata dalla giurisprudenza, e contro la quale il contribuente ha armi “spuntate”.

19 giugno 2014

Martino Verrengia