Operazioni inesistenti: l'eterno dilemma dell'onere della prova

la Cassazione ha confermato, in materia di operazioni inesistenti, che, una volta che l’ufficio mette sul tavolo una serie di elementi indiziari, spetta al contribuente smontarli per contestare validamente la pretesa fiscale

Con la sentenza n. 25142 dell’8 novembre 2013 (ud. 23 settembre 2013) la Corte di Cassazione ha confermato, in materia di operazioni inesistenti, che una volta che l’ufficio mette sul tavolo una serie di elementi indiziari spetta al contribuente smontarli.

La sentenza

Preliminarmente la Corte afferma che, in materia di IVA, “la fattura è documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa, comprensivo dell’incidenza dell’imposta in parola sul prezzo di acquisto dei beni, attesa la disciplina del suo contenuto di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21. Ed, in tali limiti, essa può certamente costituire una prova a favore dell’imprenditore o del professionista, nei rapporti con il fisco”.

Tuttavia, nell’ipotesi “di fatture che l’Ufficio ritenga relative ad operazioni oggettivamente, o anche solo soggettivamente, inesistenti, o che – ancorchè effettivamente poste in essere – si iscrivono in combinazioni negoziali fraudolente ai danni del fisco, l’Amministrazione stessa ha l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere, o non lo è stata tra i soggetti che figurano nella fattura, o che tale documento sottende un’operazione fraudolenta cui il cessionario sia partecipe. E non può revocarsi in dubbio che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 39, comma 1, lett. d) (cfr. Cass. 21953/07, che fa riferimento alla possibilità che l’amministrazione produca elementi anche indiziari, a sostegno della pretesa fiscale azionata; Cass. 9108/12, Cass. 15741/12, in motivazione; nello stesso senso C. Giust. CE. 6.7.06, C-439/04, C. Giust. CE, 21.2.06, C-255/02, C. Giust. CE, 21.6.12, C-80/11)”.

 

E, “qualora l’Amministrazione contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziari sull’inesistenza delle operazioni fatturate, ricade sul contribuente medesimo l’onere di dimostrare la fonte legittima della detrazione, altrimenti non operabile. A tal fine non può, peraltro, reputarsi sufficiente la dimostrazione della regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta – com’è del tutto evidente – di dati e circostanze facilmente falsificabili (cfr. Cass. 1950/07, 12802/11)”.

Nel caso di specie, osserva la Corte, l’impugnata sentenza ha evidenziato con chiarezza gli elementi di prova presuntiva offerti dall’Amministrazione, sulla scorta del processo verbale di constatazione redatto dalla G.d.F., a sostegno della ritenuta inesistenza oggettiva delle operazioni documentate dalle fatture in contestazione.

 

Siffatti elementi, la cui pregnanza sul piano probatorio è di assoluta evidenza, si concretano:

1) nella mancanza di una qualsiasi struttura organizzativa della E.U. sas, presunta fornitrice della C.A. sas, nonchè di personale qualificato, tali da consentire alla medesima l’esecuzione delle operazioni descritte nelle fatture contestate;

2) nel rilievo che in una delle due unità operative (in A.), dichiaratamente utilizzate dalla E.M. sas, i verbalizzanti avevano reperito pochissimi materiali, acquistati, per di più, senza fattura, mentre nell’altra unità (in U.), era stato scaricato saltuariamente materiale ferroso destinato alla E.U. sas;

3) nel fatto che l’amministratore di detta società, S.G. – dopo avere dichiarato, in un primo interrogatorio reso alla Guardia di Finanza (21.10.97) che solo il 10% delle fatture emesse dalla E.U. si riferivano ad operazioni effettivamente compiute, aveva, poi, finito con l’ammettere (interrogatorio del 2.6.98) che tutte le fatture emesse dalla predetta società si riferivano, in realtà, ad operazioni inesistenti;

4) nella circostanza che il S. aveva ammesso che tutte le bolle di accompagnamento dei beni, a sua firma, riguardavano trasporti mai effettuati;

5) nella constatazione che i pagamenti effettuati ammontavano per lo più al valore della sola IVA, mentre – quando coprivano il valore dell’intera fattura – il S. provvedeva a restituire l’importo all’acquirente, traendo assegni intestati ‘a me medesimo’, che convertiva, poi, in contanti che venivano consegnati ai legali rappresentanti delle ditte coinvolte; e tali prassi risultavano seguite anche nel caso delle forniture in discussione”.

 

Conclude la sentenza affermando che “il diritto dell’acquirente alla detrazione dell’imposta addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore, quando si tratti di acquisto effettuato nell’esercizio dell’impresa, è soggetto ad una duplice condizione. La prima è che l’acquirente del bene rivesta la qualità di imprenditore; la seconda, è che sia ravvisabile l’inerenza del bene acquistato all’attività imprenditoriale, ovverosia la strumentante del bene stesso a tale attività. Ed il relativo onere probatorio, in forza degli ordinari criteri in tema di onere della prova (art. 697 c.c.) cede a carico dell’interessato (Cass. 3518/06, 16730/07, 2362/13).

Pertanto, “in caso di operazioni oggettivamente – o anche soggettivamente – inesistenti, ….la sussistenza del diritto alla detrazione dell’IVA non può alcun modo essere ritenuta, sul piano probatorio, nè sulla scorta del rilievo della regolarità formale della contabilità di impresa, nè sulla base del solo fatto dell’avvenuta corresponsione dell’imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, – come detto – il requisito dell’inerenza dell’operazione stessa all’attività di impresa. E tale requisito è certamente mancante in relazione al pagamento dell’IVA corrisposta per operazioni inesistenti, di per sè inidoneo – come dianzi detto – a configurare un pagamento a titolo di rivalsa, trattandosi di costo non inerente all’attività istituzionale dell’impresa, in quanto potenziale espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse, tali da rompere il suddetto nesso di inerenza (Cass. 735/10)”.

Breve nota

I principi indicati nella sentenza che si annota erano stati ribaditi con la sentenza n. 8211 dell’11 aprile 2011 (ud. del 10 marzo 2011), con cui la Corte di Cassazione ha confermato l’orientamento assunto (in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora sia contestata la deducibilità dei costi documentati da fatture relative ad operazioni asseritamene inesistenti, l’onere di fornire la prova che l’operazione rappresentata dalla fattura non è stata mai posta in essere incombe all’Amministrazione finanziaria la quale adduca la falsità del documento (e quindi l’esistenza di un maggior imponibile), e può essere adempiuto, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, non ostandovi il divieto della doppia presunzione, il quale attiene esclusivamente alla correlazione tra una presunzione semplice con altra presunzione semplice, e non può quindi ritenersi violato nel caso in cui da un fatto noto si risalga ad un fatto ignorato, che a sua volta costituisce la base di una presunzione legale” (Corte cass. 5′ sez. 18.1.2008 n. 1023; id. 5′ sez. 28.4.2010 n. 10157) e “null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili, perchè proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti o di valore di gran lunga eccedente quello effettivo” (Corte cass. 5′ sez. 16.1.2009 n. 951).

 

Principio, peraltro ancora espresso con l’ordinanza n. 23533 del 20 dicembre 2012 (ud. 19 settembre 2012) dove la Corte di Cassazione ha posto in capo al contribuente l’onere della prova (In materia IVA, la fattura è documento idoneo a provare un costo dell’impresa; nell’ipotesi di fatture che l’amministrazione ritenga relative ad operazioni in tutto o in parte inesistenti, non spetta al contribuente provarne l’effettività, ma all’Amministrazione stessa dedurre argomenti idonei a palesare l’inesistenza o la diversa e minore entità dell’operazione oggetto della fattura. Tuttavia, qualora l’amministrazione fornisca sufficienti elementi per sostenere l’affermazione che alcune fatture riflettono operazioni in tutto o in parte fittizie, l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza e consistenza di tali operazioni si sposta sul contribuente (Cass. 31.03.2008, n. 8247). Tuttavia l’A.F., per disattendere la contabilità del contribuente, deve indicare qualche elemento, anche indiziario, che infici la contabilità e non può limitarsi a una generale ed apodittica non accettazione della documentazione del contribuente, essendo suo onere quello di indicare specificamente gli elementi, anche indiziali, sui quali si fonda la contestazione (Cass. n. 21953/2007; Cass. n. 1727/2007)”. Osserva la Corte che “ai fini della prova dell’esistenza di un’operazione non è sufficiente produrre la relativa fattura in quanto l’emissione della fattura può prescindere dall’effettiva stipulazione della cessione; perciò il contribuente, a fronte della contestazione dell’Amministrazione circa l’inesistenza di un’operazione, ha l’onere di dimostrare la effettività del contratto e non può limitari a dar prova dell’emissione della fattura. (Cass. 27 ottobre 2010 n. 21949). Va, infatti, ribadito che la fattura commerciale non è prova documentale circa l’esistenza dell’operazione), infatti la fattura commerciale, per la sua formazione unilaterale e la sua inerenza a un rapporto già formato tra le parti, ha natura di atto partecipativo e non di prova documentale”.

 

E confermato con la sentenza n. 20524 del 6 settembre 2013 (ud. 9 maggio 2013), dove la Corte di Cassazione ha ritenuto che, in materia di operazioni inesistenti, se la fattura è documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa, “in ipotesi di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere. Tale prova, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 40, e art. 54, comma 2, potrà essere fornita anche mediante presunzioni, nel qual caso passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, a norma dell’art. 2697 c.c., comma 2. Pertanto il giudice tributario, qualora ritenga gli elementi addotti dall’Amministrazione dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve passare a valutare la prova contraria offerta dal contribuente (cfr. tra le tante n. 9108 del 06/06/2012)”.

 

E anche precedentemente la Giurisprudenza si è così espressa.

  • Con la sentenza n. 21707 del 22 ottobre 2010 (ud. del 12 luglio 2010) la Corte di Cassazione ha affermato che è principio consolidato “che la prova dell’effettiva esistenza dell’operazione non può essere tratta dalla sola esibizione delle fatture, atteso che il meccanismo elusivo consistente nel contabilizzare operazioni inesistenti presuppone, per definizione, l’approntamento di tale documentazione formale (Cass. n. 21953/2007)”, e che la prova dell’effettività delle operazioni non può essere vinta dal contribuente mediante la mera esibizione delle fatture non prova niente (Cass. sentenza n. 21303/2008 secondo cui “detta prova non può, peraltro, essere costituita dalla sola esibizione dei mezzi di pagamento, che normalmente vengono utilizzati fittiziamente, e che, pertanto, rappresentano un mero elemento indiziario, la cui presenza (o assenza) deve essere valutata nel contesto di tutte le altre risultanze processuali“).

  • Con la sentenza n. 17428 del 17 luglio 2013 (ud. 26 aprile 2013) la Corte di Cassazione ha ribadito che, in materia di operazioni inesistenti, la prova è del contribuente.In continuità dell’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte in materia di fatture per operazioni inesistenti, va ribadito che qualora l’Amministrazione contesti indebite detrazione di Iva e deduzione di costi fatturati, fornendo elementi anche semplicemente presuntivi, purchè oggettivi, atti ad asseverare l’emissione di fatture in assoluta assenza di corrispondente prestazione – è onere del contribuente, che rivendichi la legittimità dei costi fatturati e quella della detrazione dell’i.v.a. correlativamente indicata, fornire la prova dell’effettiva esistenza delle operazione. Ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, la fattura è, infatti, documento idoneo a rappresentate operazioni rilevanti ai fini fiscali, ma, in presenza di elementi seriamente inducenti a ritenere l’insussistenza di corrispondente prestazione commerciale, perde detta idoneità, così determinandosi il passaggio sul contribuente dell’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni rappresentate (così da ultimo e tra le tante Cass. n. 6229/13)”.

  • Con la sentenza n. 17959 del 24 luglio 2013 (ud. 17 ottobre 2012) la Corte di Cassazione ha ribadito che una volta che l’amministrazione abbia fornito oggettivi elementi di prova, anche indiziari, in ordine all’inesistenza dell’operazione o all’inattendibilità della scrittura addotta dal contribuente a base della richiesta di detrazione, sarà il contribuente a dovere offrire la prova circa la verità ed inerenza dell’operazione medesima – v. Cass. n. 12802/2011; Cass. n. 5282/2011”.

4 febbraio 2014

Roberta De Marchi