Le società di capitali a ristretta base partecipativa possono far presumere – in caso di accertamento – che gli utili "in nero" siano di fatto acquisiti direttamente dai soci

anche se le società di capitali non vengono tassate per trasparenza, in resenza di società caratterizzate da pochi soci nasce la presunzione che gli utili accertati vengano di fatto direttamente acquisiti dai soci

Aspetti generali

Anche se le società di capitali non vengono tassate per trasparenza – escludendo il caso delle società fiscalmente trasparenti per opzione (artt. 115 e 116 del TUIR) -, di fronte a società caratterizzate da una base partecipativa «ristretta», formata da poche persone spesso legate da rapporti di parentela, si delinea un preciso indirizzo nella prassi operativa dell’amministrazione finanziaria, avvalorato dalla giurisprudenza1, fondato sulla presunzione che gli utili vengano di fatto direttamente acquisiti dai soci (senza attendere una formale deliberazione).

La Corte di Cassazione – più volte chiamata ad occuparsi di tale argomento – ha affermato che la ristretta base azionaria costituisce, da sola, la prova presuntiva di distribuzione degli utili ai soci, capovolgendo così l’onere della prova2.

L’indirizzo della Suprema Corte confligge con il pensiero di una parte della giurisprudenza3, secondo la quale, in presenza di un accertamento ad una società di capitali a ristretta base azionaria, l’ufficio può utilizzare la presunzione semplice di maggior reddito ai soci quando :

  • l’accertamento effettuato in capo alla società non venga impugnato;

  • l’accertamento, se impugnato, venga dichiarato legittimo, in tutto o in parte;

  • la base imponibile recuperata in capo alla società sia di fatto costituita da «nero», ossia da maggiori corrispettivi realizzati e non regolarmente fatturati;

  • il socio abbia una percentuale di capitale assai qualificata ed abbia potere decisionale.

Di fronte all’estensione della nozione di «abuso del diritto», operata dalla Corte di Cassazione ai fini della decisione di controversie in materia tributaria estrapolando delle regole di diritto direttamente applicabili dalle norme e dai principi costituzionali, anche la questione che qui interessa, ossia l’imputazione presuntiva di materia imponibile (utili) ai soci di società di capitali in assenza di formale deliberazione, è stata classificata come un’ipotesi «abusiva», secondo la lettura fornita dalla Corte nella sentenza. n. 13338 del 10.6.2009 (udienza del 20.3.2009).

L’abuso del diritto

Alcune pronunce emanate dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel corso del 2008 (sentenze n. 30055 e 30057/2008) hanno accolto un’applicazione estensiva della nozione di «abuso del diritto», in grado di legittimare le contestazioni degli uffici fiscali anche in assenza di specifiche disposizioni antielusive (ad esempio, nel settore delle imposte indirette, oppure al di fuori delle fattispecie specificamente individuate dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973).

Il contenzioso che è all’origine della controversia sorge, nella prima delle fattispecie esaminate dalla Cassazione (sentenza 23.12.2008, n. 30055), dall’attività accertativa posta in essere dall’ufficio fiscale, il quale aveva disconosciuto la deducibilità fiscale delle minusvalenze conseguenti a operazioni di acquisto e rivendita di titoli dopo la riscossione dei dividendi (c.d. dividend washing), in quanto asseritamente poste in essere a soli fini di elusione fiscale.

A tale riguardo, aderendo a un recente filone interpretativo della sezione tributaria (la pronuncia fa richiamo, in particolare, alle sentenze Cass. n. 10257/2008 e n. 25374/2008), le SS.UU. hanno ravvisato nell’ordinamento tributario italiano la presenza di «un generale principio antielusivo», precisando altresì che «la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano».

Insomma, benché manchi nell’ordinamento l’espressa formulazione di un principio generale in materia – mentre la Corte di Giustizia Europea ha ricavato un principio analogo in materia di Iva – le SS.UU. hanno ritenuto che esso ugualmente promani dalla Carta costituzionale, in quanto esplicitazione dei principi (capacità contributiva, progressività dell’imposizione) in essa contenuti.

In tale prospettiva, la sopravvenuta introduzione di norme antielusive espresse (specifiche) si pone, secondo la Corte, quale «mero sintomo» dell’esistenza di una regola generale (tale affermazione era coerente con Cass. n. 8772/2008).

Una parziale limitazione dei poteri del fisco – discendente dalla necessità di dimostrare l’esistenza del disegno elusivo a sostegno delle rettifiche operate, oltre alle supposte modalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici rinvenute, evidenziando per quali motivi se ne determini l’aggiramento, e tenendo conto dell’evoluzione degli strumenti giuridici – è stata individuata dalla successiva sentenza della sezione tributaria n. 1465 del 17.11.2008, depositata il 21.1.2009.

Secondo la pronuncia, anche se il carattere fiscalmente «abusivo» dell’operazione può essere riconosciuto e contestato dal Fisco in modo ampio, nell’esercizio di un potere che è espressione dell’art. 53 della Costituzione, la contestazione è legittima solamente se il fine elusivo si pone come predominante e assorbente rispetto al complessivo comportamento del contribuente.

Abuso e società a ristretta base partecipativa

La predetta sentenza n. 13338 del 2009 è intervenuta applicando il «canone» dell’abuso del diritto agli utili presuntivamente distribuiti, secondo l’Amministrazione, da società di capitali a ristretta base partecipativa, affermando in sostanza che la presunzione è applicabile anche in ipotesi di sussistenza di una partecipazione mediata dall’intermediazione di altra persona giuridica.

In particolare, la sentenza della CTR (impugnata per cassazione dall’Agenzia delle Entrate) aveva affermato che al socio – persona fisica non poteva applicarsi la presunzione di riparto degli utili ai soci, in quanto questo non era direttamente socio della società, ma solamente il suo potenziale titolare tramite il possesso del 99% della società controllante.

È innanzi tutto evidente che, in base a un mero criterio logico, se – in virtù della situazione di controllo totalitario che si verifica nelle situazioni in esame – si intende ammettere la distribuzione di utili in assenza di una formale decisione societaria, tale situazione non viene a mutare allorquando tra il socio (al 99%!) e la partecipata «di secondo livello» si interponga un’ulteriore società di capitali.

In tale ipotesi (presunzione di imputazione degli utili extrabilancio ai soci di società di capitali a ristretta base sociale) opera altresì, secondo la Corte, il principio generale del divieto dell’abuso del diritto, che trova fondamento:

  • nei principi costituzionali di capacità contributiva (art. 53 Cost.) e di eguaglianza (art. 3 Cost.) (a tale riguardo è direttamente richiamata la succitata sentenza n. 30055 del 2008);

  • nella tendenza all’oggettivazione del diritto commerciale e all’attribuzione di rilevanza giuridica all’impresa, indipendentemente dalla forma giuridica assunta dall’imprenditore (è a tale riguardo fatto richiamo alla sentenza n. 8481 dell’8.4.2009, relativa al leasing tra società facenti parte di un gruppo).

     

La sostanza economica dell’operazione

La «declinazione» del principio dell’abuso del diritto ha comportato nel caso esaminato dalla Cassazione che, senza contraddire la validità civilistica della scelta organizzativa adottata dall’impresa, non poteva opporsi « … l’esistenza di un socio intermedio, avente la natura di persona giuridica, per sottrarre i pochi soci effettivi dell’impresa alla presunzione di essersi ripartiti gli utili non contabilizzati».

Ciò che assume rilevanza, quindi, è la sostanza economica dell’operazione, o – meglio – « … del fenomeno economico sottostante alle forme giuridiche, al fine di assicurare il rispetto dei principi costituzionali in tema di doveri di solidarietà dei consociati secondo la loro capacità contributiva (art. 3 Cost., comma 2, e art. 53 Cost., comma 1)».

Secondo le affermazioni della Corte, tale prospettiva è coerente con l’evoluzione del diritto commerciale e con la progressiva affermazione in dottrina della concezione orientata alla centralità dell’impresa, « … che è eretta a punto di riferimento sostanziale della normazione, a prescindere dalla persona del suo titolare».

Occorre quindi attribuire rilevanza giuridica anche al fenomeno sostanziale unitariamente ravvisabile al di là « … dello schermo delle personalità giuridiche delle singole società interessate alla gestione dell’impresa». L’impresa è insomma un’entità individuabile soprattutto in ragione della sua organizzazione e finalizzazione alla produzione o allo scambio di beni e servizi, piuttosto che per la sua «apparenza» formale.

Sulla base di tali considerazioni, i giudici hanno affermato che la presunzione relativa all’imputazione ai soci degli utili extrabilancio delle società a ristretta compagine partecipativa non riguarda il solo «primo grado» delle partecipazioni, « … ma estende la sua efficacia anche al grado ulteriore, cioè quando, per effetto della partecipazione alla società di capitali titolare dell’impresa di un’altra società di capitali, che sia a sua volta a ristretta base sociale, la compagine sociale, per così dire, di secondo grado, sia ancora caratterizzata dalla ristrettezza».

Insomma, se A controlla B, e B controlla C, con un grado di «contiguità» (o quasi-identità) analogo a quello dei soci delle società a ristretta base partecipativa, la presunzione non si arresta (e non si arresterebbe, a parere di chi scrive, neppure se la catena partecipativa fosse molto più lunga).

In definitiva, il principio di diritti enucleato dalla Cassazione nella sentenza in esame (che ha deciso per il rinvio ad altra sezione della CTR rimettente) è il seguente, testualmente ripreso dalle motivazioni della sentenza: «in attuazione del principio costituzionale di eguaglianza, formale (art. 3 Cost., comma 1) e sostanziale (art. 3 Cost., comma 2), e del principio costituzionale di capacità contributiva (art. 53 Cost., comma 1) e del principio, che ne è corollario, del divieto dell’abuso di diritto tributario, la presunzione dell’imputazione degli utili extrabilancio ai soci di una società di capitali K, a ristretta base sociale, opera anche nei confronti dei soci della società di capitali L, che sia socia della società K e che, a sua volta, sia a ristretta base sociale».

Le criticità processuali

Nel caso dell’accertamento effettuato nei confronti di una società a ristretta base partecipativa, la conseguenza per i soci del comportamento processuale della società (evidentemente guidato dagli amministratori della stessa) è chiara e diretta.

L’omessa impugnazione dell’accertamento da parte della società, ovvero la decisione, con riguardo alla stessa, nel senso della cessazione della materia del contendere, anche per effetto di una raggiunta conciliazione giudiziale, dovrebbe infatti riflettersi automaticamente sulla situazione dei soci, senza che questi abbiano di per sé la facoltà di rendersi autonomi.

Per lo stesso ordine di considerazioni, i soci seguono il destino della società anche nel caso in cui la vertenza venga definita tramite accertamento con adesione.

Tornando ai profili strettamente processuali, si osserva che le rilevanti conseguenze per i soci del comportamento societario in sede giudiziale non incontrano qui le medesime garanzie che invece assistono le società «trasparenti» per natura, ovvero le società di persone, per le quali opera la regola del litisconsorzio necessario dei soci e della società.

La Cassazione infatti ha preferito optare (per evitare i possibili conflitti tra il giudicato relativo alla società a ristretta base sociale e quello relativo ai soci) per la sospensione, ex art. 295 c.p.c., del processo tributario attivato dai soci, in attesa che arrivi a conclusione il giudizio relativo alla società.

Ciò, nel presupposto che la sentenza che accerta definitivamente gli utili extracontabili della società esplica effetti di giudicato esterno nel giudizio instaurato dal socio.

A tale riguardo, è utile guardare alla sentenza della S.C. n. 2214 del 31.01.2011.

Il rapporto tra l’accertamento sulla società e quello sul socio

In relazione al punto sopra esaminato, ossia agli effetti del contenzioso societario sulla situazione processuale dei soci, con la possibilità di dar luogo alla sospensione del giudizio, ha osservato la Corte nella pronuncia citata che «il tema riguarda il rapporto fra l’accertamento di utili di natura extracontabile nei confronti di una società di capitali e l’accertamento nei confronti del socio della stessa, quale percettore degli utili stessi, allorché si tratti di organismo a base ristretta, in tal caso, secondo un orientamento consolidato di questa Corte, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertali, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati, invece, accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti (Cass., 16 marzo 2007, n. 6197)».

«Il procedimento logico giuridico in esame muove dalla premessa che il reddito nei confronti della società risulti accertato in maniera definitiva, ragion per cui, non ricorrendo l’ipotesi del litisconsorzio necessario affermato per le società di persone (Cass., Sez. Un., 4 giugno 2008, n. 14815), il giudizio nei confronti del socio, per quanto attiene all’esistenza degli utili extracontabili realizzati dalla società, è pregiudicato dall’esito dell’accertamento effettuato nei confronti della società stessa».

Ciò avviene perché l’accertamento nei confronti della società costituisce un presupposto dell’accertamento nel confronti dei soci, in conseguenza dell’unico atto amministrativo dal quale entrambe le rettifiche promanano (a tale riguardo la Corte ha fatto richiamo ai propri precedenti giurisprudenziali: Cass. 30.6.2006, n. 15171; Cass. 3.9.2008, n. 22171).

Per tale ragione, ricorre secondo la Corte un’ipotesi di sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c.

Secondo tale articolo del codice di rito civile, come rammentato dalla Cassazione, «il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa».

Così decidendo la Corte ha ritenuto assorbente la decisione sul motivo di ricorso in esame, cassando con rinvio la decisione della CTR ad altra sezione dello stesso giudice, con l’obbligo di conformarsi al principio enunciato.

In definitiva, la posizione assunta dalla Corte di Cassazione ha escluso la possibilità del litisconsorzio necessario tributario (ipotesi nella quale la sentenza produce i propri effetti solamente se sono presenti in giudizio tutte le parti coinvolte) in presenza di contenziosi riguardanti società di capitali a ristretta base partecipativa.

In questo modo, pur conducendo ai medesimi effetti sotto il profilo sostanziale in virtù di una presunzione semplice, la situazione della società «a base ristretta» è trattata differentemente rispetto a quella delle società personali.

17 dicembre 2013

Fabio Carrirolo

1 Cfr. La sentenza Cass. Sez. I, n.11785 del 19.2.1990.

2 Oltre alla pronuncia di cui alla sup. nota 1, può essere richiamata Cass. Sez. Trib. n.4695 del 18.10.2001, depositata il 2.4.2002, la quale ha confermato che la ristretta base familiare di una società di capitali può costituire il fatto noto che consente all’ufficio di risalire, in via di presunzione, a quello ignorato della distribuzione ai soci del maggior utile non contabilizzato.

3 Cfr., tra le altre, CTP Reggio Emilia, Sez.VII, sentenza n.284 del 20.11.1997, depositata il 1° dicembre 1997.