Studi di settore: l'acquisto di un bene può essere indice di ricavi non dichiarati

l’acquisto di beni non coerente col reddito dichiarato può essere un indice utilizzabile per ricostruire induttivamente il reddito partendo anche dagli studi di settore

Gli studi di settore sono applicabili in presenza di ricavi che sono insufficienti a coprire gli acquisti e non c’è traccia di donazione da parte della famiglia; la Corte di Cassazione con la sentenza n.2805/2013 ha legittimato l’applicazione dello studio di settore, anche se i documenti presentati dal professionista giustificavano lo scostamento.

La vicenda si sviluppa a seguito del fatto che la CTR aveva accolto, con sentenza del febbraio 2010, il ricorso di un avvocato , successivamente deceduto, che aveva impugnato un avviso di accertamento relativo all’Irpef; l’Agenzia delle Entrate, avverso la sentenza sfavorevole della CTR, ha proposto ricorso in Cassazione.

La Commissione tributaria regionale nell’accogliere il ricorso dell’avvocato aveva osservato che l’avviso di accertamento si basava su elementi standardizzati, che tuttavia erano stati smentiti dalla documentazione prodotta dal contribuente, col quale peraltro non c’era stato un precedente contraddittorio, senza che di contro l’Agenzia avesse fornito la prova della pretesa azionata.

Per i giudici del merito il contribuente, in sostanza, aveva prodotto dei documenti che giustificano in pieno l’incongruenza agli studi di settore del professionista e sui quali si basava l’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate.

Va osservato che la giurisprudenza di legittimità ritiene che, ove il contribuente non partecipi al contraddittorio, a prescindere dalla causa, l’Ufficio può legittimamente emettere l’avviso di accertamento sulla base del solo dato disponibile dello scostamento tra il dichiarato e quello emergente dagli studi di settore gravando sul contribuente, nella fase contenziosa, l’onere della prova contraria.

In ogni caso, alcuni principi sono da ritenersi ormai consolidati. In particolare, l’esito del contraddittorio non condiziona la successiva eventuale impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente. Questi, peraltro, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo, disponendo della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte.

Nel ricorso in Cassazione, l’Agenzia delle Entrate ritiene, in primo luogo, che la CTR nella sentenza favorevole all’avvocato, avrebbe dovuto fornire gli elementi necessari al fine di esplicitare il procedimento argomentativo, in virtù del quale perveniva al giudizio espresso favorevole al professionista, mentre ciò non si è verificato nel caso in esame.

Per i giudici di legittimità la censura mossa dalle Entrate è fondata , in quanto, com’è noto, in tema di accertamento induttivo dei redditi, l’Amministrazione finanziaria può, ai sensi dell’art. 39 del DPR 600/1973, fondare il proprio accertamento sia sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili “dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta”, come nella specie, sia sugli studi di settore, nel quale ultimo caso l’Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente.

Va evidenziato che in via eccezionale, l’Agenzia delle Entrate può procedere all’accertamento induttivo prescindendo dalle scritture contabili e dalle risultanze del bilancio e avvalendosi di notizie e dati comunque in suo possesso. L’Ufficio può ricorrere alla rettifica induttiva ai sensi dell’articolo 39, comma 2, del DPR 600/1973, quando;

  • il reddito di impresa non è stato indicato nella dichiarazione;

  • dal verbale di ispezione risulta che il contribuente non ha tenuto o ha sottratto all’ispezione una o più scritture contabili ovvero quando le scritture non sono disponibili per causa di forza maggiore;

  • le omissioni, le falsità, le inesattezze o le irregolarità formali delle scritture contabili sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibile nel loro complesso le scritture stesse;

  • il contribuente non ha dato seguito , o lo ha fatto in modo incompleto , agli inviti degli Uffici previsti dalla normativa IVA;

  • viene rilevata l’omessa o infedele indicazione dei dati previsti nei modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore, nonché nei casi di infedele compilazione dei predetti modelli che comporti una differenza superiore al 15 per cento, o comunque ad euro 50.000, tra i ricavi o compensi stimati applicando gli studi di settore sulla base dei dati corretti e quelli stimati sulla base dei dati indicati in dichiarazione.

Va ricordato, tra l’altro, che con un recente orientamento la Corte di Cassazione (sentenza 16939/2012) ha trattato un argomento simile a quello oggetto del presente commento. In quell’occasione un contribuente a seguito della sentenza della CTR che aveva accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate, aveva proposto ricorso in Cassazione. I giudici di secondo grado avevano ribaltato la sentenza della Commissione tributaria provinciale accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate riconoscendo la legittimità dell’avviso di accertamento relativo alla maggiore Irpef, Irap ed Iva per il periodo di imposta 2002. In particolare la CTR osservava che l’atto impositivo emesso dall’amministrazione finanziaria si basava proprio sugli studi di settore, per i quali peraltro si era tenuto conto del reddito dichiarato dal contribuente, e quindi anche dei costi, riscontrandosi anche che la crisi del comparto denunziata non aveva comportato uno scostamento dai ricavi relativi alle annualità precedenti, mentre per converso il medesimo aveva acquistato:

1) una grossa autovettura;

2) un’imbarcazione negli anni successivi in aggiunta a tre altre auto possedute;

3) un grosso immobile di otto vani.

La Cassazione con la sentenza n.16939/2012 aveva dato torto alla difesa del contribuente, lavoratore autonomo, il quale sosteneva che lo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli studi di settore era dovuto alla grave crisi economica del settore; nel periodo preso in considerazione a seguito dell’accertamento, tuttavia, il contribuente aveva acquistato beni di lusso in contrasto con il basso volume di affari dichiarato.

Con riferimento alla sentenza oggetto del presente commento l’Agenzia delle Entrate nel ricorso in Cassazione denunciava, tra l’altro, il vizio di motivazione, perché la CTR non aveva indicato le ragioni, per le quali ometteva di esaminare la questione attinente all’acquisto di un’autovettura oltre che dì un appartamento da parte del professionista per importi molto superiori alle sue possibilità , senza che gli assegni bancari e circolari prodotti potessero denotare che si sarebbe trattato di una donazione del padre.

In sostanza la Cassazione accoglie il ricorso dell’Agenzia delle Entrate e annulla la sentenza della CTR, rinviando la questione ad altra sezione della CTR.

 

2 agosto 2013

Federico Gavioli