Quando manca il contratto scritto…il Fisco può contestare l'imputazione dei costi

I costi imputati in contabilità in base ad un contratto verbale possono essere contestati dal Fisco quando non appare verosimile che per costi di rilievo le parti non abbiano sottoscritto un contratto scritto, per fissare le condizioni contrattuali.

Con l’ordinanza n.7897 del 28 marzo 2013, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo l’accertamento dell’ufficio che ha recuperato a tassazione dei costi di appalto, di elevato importo, privi di un contratto che ne esplicitasse le modalità.

Per la Corte,

“un appalto di importo molto considerevole, come nella specie, va stipulato con atto scritto, o comunque in maniera da lasciare una traccia documentale. Ciò non risulta che sia avvenuto nel caso in esame, quindi appare legittima la conclusione che quel contratto non fosse stato mai stipulato. Tanto più che la parte privata non offriva alla valutazione del giudice argomenti per ritenere che nella specie la stipula di un contratto scritto non fosse necessaria per particolari ragioni, idonee a superare l’id quod plerumque accidit> (Cfr. anche Cass. Sent. 21.2.2007, n. 4046). Il fatto certo è che mancava la prova della stipula del contratto di appalto, ergo la contribuente non aveva diritto alla detrazione di imposta”.

Inoltre, osserva la Corte,

“qualora l’Amministrazione contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziari sulla inesistenza di quelle fatturate, come nella specie, è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la dimostrazione della regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (V. pure Cass. Sentenze n. 12802 del 10/06/2011, n. 2847 del 2008)”.

 

NOTA

Gli uffici fiscali si preoccupano, in sede di controllo, di intercettare tutti quei costi che, pur regolarmente indicati in contabilità, potrebbero nascondere operazioni sospette; ciò si verifica più frequentemente nelle aziende di medie dimensioni che nelle aziende di grandi dimensioni, dove le differenze di ruolo fra management e proprietà sono più marcate.

La sentenza in commento si inserisce, quindi, in quel filone giurisprudenziale da ritenere ormai costante e maggioritario, che nell’avallare i recuperi degli uffici, afferma che grava sul contribuente l’onere di dimostrare l’inerenza e la certezza di una spesa all’esercizio dell’impresa1 e, quindi, la deducibilità delle somme versate dal reddito d’impresa.

Il pronunciamento in esame va tenuto presente per tutte quelle controversie dove la parte si limita a contestare il rilievo, senza provare ciò che afferma2.

Non appare verosimile che per costi di rilievo le parti non abbiano sottoscritto un contratto, per fissare (nero su bianco) le condizioni contrattuali.

L’assenza di un apposito accordo, pur non pregiudicando in via di principio la deducibilità del costo, legittima, a nostro avviso, il recupero a tassazione da parte dei verbalizzanti, ove il contribuente non sia in grado di fornire i supporti documentali richiesti.

Il contratto non costituisce requisito essenziale ai fini della deducibilità fiscale. Tuttavia, in tali ipotesi (importi rilevanti, come il caso prospettato), la sua assenza, permette ai verificatori di trarre legittimamente tutta una serie di presunzioni.

E’ naturale che la documentazione aziendale e fattura costituisce il primo punto di partenza nella ricostruzione dei fatti economici, nella convinzione del principio di buona fede che deve (dovrebbe) presiedere la formazione della contabilità.

La veridicità della fattura viene però meno tutte le volte in cui i verificatori, sulla base di tutta una serie di elementi a supporto, constatino la falsità.

La Corte richiama un suo precedente giurisprudenziale: la sentenza n. 4046 del 18.01.2007, depositata il 21.02.2007 (anche qui un contratto di appalto di circa 13 miliardi di vecchie lire, senza un regolare contratto), né in sede contenziosa la società ha dimostrato di avere stipulato un contratto di appalto in forza del quale sarebbero state realizzate le opere fatturate. Nel caso di specie, il giudice di appello non aveva ravvisato motivi

“per discostarsi dalle motivazioni contenute nella sentenza impugnata”ed ha ritenuto “inverosimile che per un importo di tale rilievo (circa 13 miliardi di lire), non sia stato stipulato un regolare contratto di appalto”.

La seconda parte della motivazione del giudice di secondo grado “espone una considerazione, basata su una condivisibile e riconosciuta massima di esperienza, secondo la quale un appalto di importo considerevole va stipulato con atto scritto o comunque in maniera da lasciare una traccia documentale. Nella specie, ciò non risulta che sia avvenuto e, quindi, appare legittima la conclusione che il contratto non sia stato mai stipulato.

Tanto più che la parte ricorrente non offre alla valutazione del giudice argomenti per ritenere che nella specie la stipula di un contratto scritto non fosse necessario per particolari ragioni, idonee a superare l’id quod plerumque accidit.

Non è vero, come invece assume la parte ricorrente, che il ragionamento del giudice di merito sarebbe basato su una presunzione illegittima, in quanto non basata su un fatto certo. Il fatto certo è che manca la prova della stipula del contratto di appalto, ergo il contribuente non ha diritto alla detrazione di imposta.

Basta questa proposizione a far concludere che la sentenza impugnata è congruamente, anche se sinteticamente, motivata”.

 

12 giugno 2013

Gianfranco Antico

 

NOTE

1 Si segnala, la sentenza n. 3109 del 19 dicembre 2005, depositata il 13 febbraio 2006, con cui la Corte di Cassazione ha statuito che costituisce principio consolidato l’affermazione secondo cui grava sul contribuente l’onere di dimostrare l’inerenza di una spesa all’esercizio dell’impresa e, quindi, la deducibilità delle somme versate dal reddito d’impresa (nella specie, la pronuncia è relativa alla locazione di un appartamento asseritamene adibito a foresteria). Sempre la Corte di Cassazione, con sentenza n. 1421 del 20 dicembre 2007, dep. il 23 gennaio 2008, ha affermato che costituisce principio consolidato, che giustifica il rigetto in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c. del ricorso del contribuente, l’affermazione secondo cui l’art. 19, comma 1, del D.P.R. n. 633/72, consente al compratore di portare in detrazione l’Iva addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore solo quando si tratti di acquisto effettuato nell’esercizio di impresa, richiedendo un quid pluris rispetto alla qualità di imprenditore dell’acquirente, cioè l’inerenza o strumentalità del bene comprato rispetto all’attività imprenditoriale; inoltre, la norma lascia la dimostrazione di detta inerenza o strumentalità a carico dell’interessato, senza che la sussistenza di detti requisiti possa presumersi in ragione della qualità di società commerciale dell’acquirente (nel caso di specie, una società esercente l’attività di commercio all’ingrosso di frutta aveva rilevato un immobile in leasing da altra società in difficoltà finanziarie ed il giudice di merito aveva escluso la detraibilità dell’iva conseguente all’operazione). In senso conforme si attesta la migliore dottrina che ha avuto modo di affrontare la problematica, CROVATO-LUPI, Il Reddito d’impresa, Il Sole24ore, Milano, 2002, pag. 93, sostenendo che in ipotesi come quella descritta dalla sentenza in esame, spetti al contribuente provare il rapporto funzionale : “di fronte a spese di dubbio collegamento con l’attività aziendale, è il contribuente a dover addurre le circostanze che spiegano il costo nella logica imprenditoriale”.

2 Cfr. da ultimo Cass. sent. n. 1023 del 24 ottobre 2007 (dep. il 18 gennaio 2008), osserva che, nell’ambito dell’accertamento ex art. 39, c. 1 lett. d d.p.r. 600/1973 (quale è quello in rassegna), “… l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche da presunzioni semplici purché queste siano gravi, precise e concordanti”. La Suprema Corte conviene con l’Amministrazione ricorrente che, tenuto anche presenti i criteri sopra richiamati, la motivazione della decisione impugnata si rivela gravemente deficitaria, in quanto suggerisce le indagini che ulteriormente l’Ufficio avrebbe potuto eseguire, ma non si sofferma minimamente ad analizzare e a valutare criticamente, nel quadro complessivo degli elementi di giudizio, le valutazioni con cui il Tribunale di Ferrara era pervenuto a pronunciare, per i medesimi fatti, sentenza penale di condanna, nonché tutti gli altri elementi posti dell’accertamento e richiamati dall’amministrazione ricorrente “(mancata indicazione nella fattura della natura, del luogo e dei tempi delle prestazioni attestate; la circostanza che l’attività dichiarata non rientrava nell’oggetto sociale dell’impresa che aveva emesso il documento; il fatto che mancava ogni tipo di prova, anche indiziaria, dell’avvenuto pagamento, essendo inverosimile la giustificazione secondo cui il pagamento in contanti di una somma consistente era avvenuta senza il rilascio di alcuna ricevuta; il rilievo che l’utilizzazione della fattura aveva permesso di alterare sensibilmente il reddito effettivo e la conseguente imposta da assolvere)”.