Professionisti: associazione per delinquere e bancarotta

attenzione! risponde di bancarotta e associazione per delinquere il consulente legale che partecipa alla gestione economica dell’azienda con la consapevole intenzione di incrementare il dissesto finanziario

 

Risponde di bancarotta e associazione per delinquere il consulente legale che partecipa alla gestione economica dell’azienda nella consapevole intenzione di incrementare il crac finanziario. A statuirlo la Corte di Cassazione con la sentenza n. 37370 del 17 ottobre 2011. Con tale pronuncia, la Sezione Penale ha affrontato la questione relativa ai profili di responsabilità penale del professionista che svolga, nell’interesse di un gruppo aziendale (nella specie, Parmalat), un’attività di consulenza e di supporto strumentale alla realizzazione di plurimi reati fallimentari da parte dei soggetti posti al vertice del gruppo.

 

La Corte di Cassazione Penale, con la sentenza numero 37370, pubblicata il 17 ottobre 2011, ha confermato in via definitiva alcune condanne emesse dai giudici di merito, nell’ambito dell’inchiesta sul crac finanziario che ha coinvolto la Parmalat. La pronuncia in commento si innesta, pertanto, in un quadro giudiziario di ben più ampia portata.

Tuttavia, in questo documento ci soffermeremo ad analizzare i principali motivi che hanno condotto la Corte a ravvisare la responsabilità penale del consulente legale del gruppo. Motivi racchiusi nelle quasi sessanta pagine di cui si compone la sentenza.

Con l’occasione, si farà anche il punto, in ordine alle condotte che possono configurare ipotesi di reato a carico del professionista.

 

La difesa

Nella fattispecie, i Giudici con l’ermellino hanno respinto l’estesissimo ricorso (articolato in ben trenta motivi), presentato da un consulente tecnico, condannato nei primi due gradi di giudizio per reati di associazione per delinquere e di bancarotta fraudolenta e semplice.

Con tale ricorso, la difesa ha sostenuto che:

  • l’uomo aveva prestato la propria attività professionale, senza conoscere le finalità illecite della cliente (Parmalat, appunto);

  • in ogni caso, il professionista non avrebbe potuto essere punito, dal momento che non era suo compito impedire la prosecuzione degli illeciti.

 

La Corte d’Appello di Bologna avrebbe, quindi, errato nel non riconoscere che l’imputato era stato egli stesso un “raggirato” atteso che:

  • la consapevolezza della manovra distrattiva (e della sua imponenza e vastità) era intervenuta solamente in secondo tempo, ovvero, “post factum”, laddove erano oramai divenute note le conseguenze sul piano mediatico e giudiziario.

 

In altri termini, l’imputato aveva fornito alla Parmalat strumenti giuridici e operativi che a sua insaputa erano stati “piegati a una finalità illecita”.

Il ricorrente era, quindi, rimasto del tutto estraneo alle manipolazioni contabili (fuoriuscenti, per altro, dal suo campo di competenza professionale); manipolazioni che, comunque, non avevano determinato il dissesto, atteso che esso aveva la sua origine negli anni ’80-’90, epoca in cui il ricorrente non aveva rivestito il ruolo di collaboratore del gruppo.

 

L’associazione per delinquere, contestata al consulente, è prevista e punita dall’art. 416 del codice penale. Si tratta di un reato necessariamente pluri-soggettivo permanente, che si realizza nell’ipotesi in cui tre o più persone si associano stabilmente al fine di commettere una serie indeterminata di delitti. Nell’ambito della realtà associativa, tali soggetti assumono una diversa qualifica in ragione dell’attività esercitata: così, ai soggetti promotori (coloro che assumono l’iniziativa circa la costituzione dell’associazione) e ai costitutori (coloro che materialmente e concretamente creano l’associazione) si affianca la figura degli organizzatori, i quali, sia pure nell’ambito delle direttive impartite dai capi, svolgono in autonomia il compito di coordinare l’attività degli aderenti e di reperire le risorse per la sussistenza e lo sviluppo dell’associazione.

 

Motivi della decisione

La Suprema Corte, ripercorsa la struttura delle diverse operazioni illecite poste in essere al fine di occultare le distrazioni e descritto il contributo causale del professionista, nonché la consapevolezza di quest’ultimo circa gli intenti criminosi dei clienti, ha respinto il ricorso e confermato le sentenza di condanna.

In particolare, il Collegio di Piazza Cavour ha osservato che l’apporto del ricorrente è stato ricostruito nella fase del merito come quello di colui che, consapevole degli scopi illeciti cui la struttura malavitosa era funzionale, aveva messo a disposizione le propria competenze legali ed i propri studi professionali (in Italia e negli USA) per costituire alcune tra le società che dovevano servire a “confondere le acque” nella gestione del gruppo, consentendo di occultare (o, quantomeno, di oscurare) il tortuoso percorso attraverso il quale risorse finanziarie venivano stornate e riaccreditate, ovvero la liquidità del gruppo veniva apparentemente “creata”.

Non basta: la condotta addebitata al consulente era consistita anche nel reperimento delle “teste di legno” cui intestare tali società.

A lui, pertanto, è stato attribuito un ruolo organizzativo (e in parte ideativo) vero e proprio.

Dal ché, ad avviso del Supremo Collegio è stato più che corretto sostenere l’attribuzione della qualifica di organizzatore in capo all’imputato atteso che “essa spetta all’affiliato che, sia pure nell’ambito delle direttive impartite dai capi, esplica, con autonomia, la funzione di curare il coordinamento dell’attività degli altri aderenti e/o l’impiego razionale delle strutture e delle risorse associative, ovvero reperisce o appronta i mezzi necessari alla realizzazione del programma criminoso (ASN 199401793-RV 198579)”.

 

Peraltro, del tutto irrilevante è apparso il fatto (utilizzato dalla difesa), che il professionista non risultasse inserito nella struttura criminale sin dall’inizio della sua attività, atteso che “il ruolo di organizzatore non compete solo all’iniziatore dell’organizzazione, ma anche a colui che, rispetto al gruppo costituito, provochi ulteriori adesioni, ovvero sovrintenda alla complessiva gestione di esso, o anche assuma funzioni decisionali”.

 

Ne consegue che, dovendo darsi per certa (in quanto giudizialmente acquisita) la partecipazione dell’imputato alla sociates sceleris, rappresenta poi un’intrinseca contraddizione sostenere, come fatto in ricorso, che lo stesso, pur avendo predisposto materialmente gli strumenti per la perpetrazione dei reati-fine, fosse in realtà inconsapevole dei reali obiettivi che l’associazione stessa voleva perseguire attraverso l’utilizzo di quegli strumenti.

A riguardo, la Corte ha osservato che l’affectio societatis:

  • presuppone, tra l’altro, la conoscenza (e la condivisione) – almeno nelle linee generali – degli scopi per cui il sodalizio è stato costituito. E se, il consulente ha suggerito e approntato le modalità tecnico – giuridiche attraverso le quali gli scopi illeciti furono raggiunti, non si vede come possa poi, nel suo ruolo di associato per delinquere, essere considerato un mero strumento in mano altrui”.

Considerazione, quest’ultima, confermata delle stesse dichiarazioni rese dal ricorrente (che il Collegio di legittimità ha definito “sostanzialmente confessorie”) in base alle quali “ad un certo punto”, l’imputato pur avendo compreso cosa stesse accadendo, non se l’era di fatto sentita di rinunziare a un cliente della importanza della Parmalat, tanto da continuare a prestare la propria opera professionale.

 

Motivi in sintesi

Insomma, a parere degli Ermellini, l’apporto del ricorrente può essere ricostruito come quello di colui che, consapevole degli scopi illeciti cui la sua struttura malavitosa era funzionale, aveva messo a disposizione la propria competenza legale e i propri studi professionali (in Italia e in America) per costituire alcune società che dovevano servire a confondere le acque nella gestione del gruppo Parmalat, consentendo di occultare il tortuoso percorso attraverso cui risorse finanziarie venivano stornate e riaccreditate, ovvero la liquidità del gruppo veniva apparentemente creata.

In altri termini, il ricorrente è stato definito sodale dell’associazione, nonché organizzatore, giacché aveva messo a disposizione le proprie competenze professionali, approntando i mezzi necessari alla realizzazione del programma criminoso (quali la creazione di società estere, la predisposizione di contratti, l’individuazione dei soggetti-teste di legno), con la affectio societatis scelerum, ossia la consapevolezza degli intenti scopi criminosi perseguiti dal sodalizio.

Inevitabile, quindi, la conferma delle pesanti condanne comminate in primo e, poi, in secondo grado.

 

Osservazioni

Ma in quali ipotesi si può configurare la responsabilità penale del professionista, nell’ambito dei reati di tipo associativo?

A ben vedere, in tale tipologia di reati si pone un problema circa la configurazione del ruolo del professionista che presti la propria attività professionale a favore del sodalizio criminoso.

In particolare, questi potrà essere definito un sodale dell’associazione e un organizzatore (vedi caso di specie) qualora sia organicamente e stabilmente inserito nella struttura e metta a disposizione le proprie competenze professionali approntando i mezzi necessari alla realizzazione del programma criminoso (quali la creazione di società estere, la predisposizione di contratti, l’individuazione dei soggetti-teste di legno), con la affectio societatis scelerum, ossia la consapevolezza, almeno nelle linee generali, degli scopi criminosi perseguiti dal sodalizio (ricavata nel caso di specie delle stesse dichiarazioni confessorie dell’imputato).

Giova altresì precisare che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, che ha trovato nuovo vigore nella pronuncia in oggetto, il ruolo di organizzatore è ravvisabile anche in capo al soggetto che subentrato nell’ambito di una associazione già costituita, si adoperi per reperire nuovi aderenti ovvero intraprenda, come nel caso di specie, attività decisorie a sostegno dell’associazione medesima (Cass. 17.11.1994, n. 11446, RV200937).

 

Concorso esterno in associazione a delinquere

Più spesso, però, il professionista incorre nel reato di concorso esterno nell’associazione a delinquere, che si configura quando questi, non essendo organicamente inserito nella struttura fornisca in ogni caso un contributo causale all’esistenza stessa dell’associazione. Sul piano soggettivo, invece, il reato si concretizza se il concorrente esterno sia consapevole dei fini dell’associazione e dell’efficacia causale del suo contegno. A riguardo, le Sezioni Unite della Cassazione, hanno chiarito che si tratta di requisiti soggettivi incompatibili con il dolo eventuale e integranti quanto meno un dolo diretto (Cass., SS.UU., 28.12.1994, n. 16; Cass., SS.UU. 12.07.2005 n. 33748).

 

Reati fallimentari

Nell’ambito dei reati fallimentari, invece, il coinvolgimento del professionista è regolato dai principi generali del concorso di persone nel reato. Circostanza che si evince dal tenore dell’art. 232 L.F. Pertanto, si richiede che:

  • il professionista abbia assunto una condotta quanto meno agevolatrice sul piano materiale o morale alla realizzazione dell’illecito;

  • agisca con la coscienza e volontà di aderire al fatto compiuto dal soggetto qualificato, senza che occorra il previo accordo con quest’ultimo.

 

Bancarotta

Tuttavia, nella concreta applicazione di tali principi si registra un contrasto giurisprudenziale con riguardo alla figura del consulente legale.

Infatti, secondo orientamento di legittimità più risalente, è escluso il concorso del professionista nel reato di bancarotta se questi si sia limitato a illustrare in astratto le possibili operazioni “a difesa” dei beni dell’imprenditore in quanto è integrata la responsabilità ex art. 110 c.p. solo se il professionista fornisca in concreto assistenza alla stipulazione dei negozi simulati, fraudolenti ovvero si attivi per un’adozione diretta dell’espediente illecito (Cass., Cass. 7.11.1985 in Cass. pen. 1987, p. 1468; Cass. 5.2.1986, in G. Fall., 1986, p. 26; più di recente Cass. 10.3.2008, in Riv. pen., 2009, p. 112 ).

 

Un secondo orientamento, invece, ritiene che anche la mera indicazione astratta circa i mezzi attraverso i quali sottrarre ai creditori i beni, accompagnata dalla consapevolezza dei propositi illeciti del cliente, costituisce un contributo causale all’illecito commesso dall’imprenditore sorretto dal dolo di partecipazione.

Non sembrano, invece, esservi dubbi sul fatto che non ricorre il concorso, nell’ipotesi in cui il professionista si limiti a recepire le intenzioni criminose del cliente senza dissuaderlo giacché, in difetto di una posizione di garanzia in capo al primo, è realizzata una situazione di mera connivenza, penalmente irrilevante.

 

6 marzo 2012

Antonio Gigliotti