Imposta di scopo o tassa di soggiorno, aperto il dibattito…

in questa fase di transizione al federalismo fiscale e con i tagli ai bilanci degli enti locali, diventa sempre più pressante per i Comuni la ricerca di nuove risorse; per i comuni turistici cosa può convenire? La tassa di soggiorno o l’imposta di scopo? (il parere personale di Carlo Rufo Spina)

In questi giorni varie amministrazioni comunali si trovano a dover decidere se applicare i nuovi tributi che lo Stato consente di applicare nel territorio, in modo da fornire alle Città entrate stabili e costanti per far fronte agli investimenti ed al rinnovo strutturale cui sono chiamate. Le soluzioni al vaglio sono sostanzialmente due: tassa di soggiorno o imposta di scopo.

Il personalissimo parere di chi scrive è che appare preferibile e più equa la tassa di soggiorno rispetto all’imposta di scopo. Si tratta di una problematica che interessa particolarmente tutti quei comuni in cui vi è un forte impatto del settore turistico-alberghiero sull’economia cittadina.

Innanzi tutto per una questione di giustizia. L’imposta di scopo colpirebbe i cittadini residenti, mentre il peso della tassa di soggiorno andrebbe a ricadere sui turisti, che rappresentano gli utenti che utilizzano e si servono delle infrastrutture cittadine ben più degli stessi residenti, sicché paiono giunti i tempi per far contribuire per il progresso, il miglioramento e la manutenzione del territorio coloro che più di tutti se ne servono, come è ormai principio consolidato in ogni parte del mondo dove questa fonte di contribuzione è in uso da decenni e in alcune parti d’Italia, dove già si applica da inizio 2011.

Poi per una questione di numeri ed entità del tributo. La tassa di soggiorno, proprio perché andrebbe a incidere su una quantità di soggetti passivi largamente superiore rispetto all’imposta di scopo, è in grado di rendere disponibile nelle casse comunali, a fronte di una tassazione pro-capite estremamente contenuta, cifre enormi, a seconda della località, delle fasce stabilite e dell’entità del tributo fissato.

Da qui ci si allaccia poi alla ragione di equità sociale. Infatti la tassa di soggiorno, nella sua qualità di tributo indiretto, viene a gravare i soggetti passivi in ragione della loro capacità di spesa (costo giornaliero della camera) ed in base al soggiorno (consumo) effettivamente goduto, avendo quindi riguardo alla loro capacità patrimoniale e contributiva (i.e., si potrebbe andare da un minimo di 1 euro per le camere popolari, per salire a 2, 3 e 4 euro per le sistemazioni di sempre maggior pregio, fino ad arrivare al tetto massimo dei 5 euro per le suite di lusso dai costi elevati e proibitivi), diversamente dall’imposta di scopo che, quale addizionale sull’ICI, colpirebbe, come ogni addizionale, indistintamente tutti i contribuenti, solo in quanto possessori e non utilizzatori di un immobile nel comune.

Poi per una questione di facilità della riscossione e contenimento dell’evasione. Questo infatti è dovuto alla predetta qualità di essere un tributo indiretto, che colpisce lo scambio di ricchezza, e che si avvale, come l’IVA di un collettore d’imposta (l’albergatore) che versa l’importo dovuto direttamente nelle casse dell’Ente creditore (il Comune): l’eliminazione del principio di autotassazione demandato all’onestà del contribuente, rende infatti questo genere di tributi maggiormente certi.

Per quanto riguarda infine il presunto timore degli albergatori che una tale tassa faccia diminuire le presenze e quindi danneggi l’economia del turismo, pare francamente difficile affermare in modo serio e realistico che l’aggiunta di un tributo del costo di un caffè al giorno (o anche inferiore) possa rappresentare davvero un ostacolo alla competitività dell’offerta alberghiera e scoraggiare i turisti.

 

5 novembre 2011

Carlo Rufo Spina