Residenza fiscale ai fini IVA con criteri civilistici

si esamina il caso di una sentenza della Corte di Cassazione che ha sottolineato il principio secondo il quale, ai fini IVA, la residenza fiscale viene determinata con i criteri della disciplina civilistica

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 14071/2011, ha sottolineato il principio secondo il quale, ai fini IVA, la residenza fiscale viene determinata con i criteri della disciplina civilistica.

Il caso di specie, tratta di avvisi di accertamento ad un cantante lirico, attraverso i quali il Fisco riprendeva a tassazione, per gli anni dal 1994 al 1996, i compensi corrisposti da teatri italiani.

Il contribuente impugnava gli avvisi.

La linea d’attacco dell’Amministrazione, fissata sul fatto che, pur avendo il contribuente trasferito la propria residenza nel Principato di Monaco dal 1989, lo stesso continuava a mantenere in Italia la sede principale dei propri affari e interessi patrimoniali e morali, si basava su vari comportamenti concludenti del soggetto.

A questo proposito, l’Ufficio sottolineava il fatto che la moglie del contribuente trasferiva la propria residenza anagrafica nel Principato di Monaco nel 1994, che nel 1995 il cantante lirico acquistava un immobile in Italia, con le agevolazioni prima casa, per il quale risultava intestatario di contratto per la fornitura di energia elettrica, inoltre risultava l’utilizzo di carte di credito per un periodo di 93 giorno in territorio italiano e l’apertura di due conti correnti in Italia: quanto elencato sopra, secondo l’Ufficio, rappresentava la diretta manifestazione del fatto che il contribuente manteneva la sede dei propri affari ed interessi in Italia.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione, fissa il principio di diritto secondo il quale, : l’IVA è dovuta dal soggetto che presta servizi in Italia con il presupposto che in Italia sia la sua dimora abituale e la sede dei suoi affari e interessi.

La Corte precisa le nozioni di domicilio e di residenza effettivi sottolineando l’applicazione dell’art. 43 c.c. ed il fatto che l’art. 17, comma 3, d.p.r. n. 633 del 1972 si applica nel caso in cui il soggetto che ha reso la prestazione non sia residente in Italia: in vero, si considera ulteriormente che in caso di divergenza tra residenza effettiva e residenza anagrafica rileva la prima dimostrabile tramite una serie di elementi ritenuti significativi in base ad un giudizio complessivo.

Il caso si conclude con la cesura delle sentenze da parte della Corte nella parte in cui considerano applicabile l’art. 17, comma 2, D.P.R. n. 633 del 1972: infatti, la Suprema Corte sottolinea che poiché il concetto di residenza non trova nella normativa IVA alcuna definizione speciale, deve necessariamente ritenersi applicabile quella stabilita dall’art. 43 c.c. e quindi, sia per le imposte sui redditi che per l’IVA è applicabile il concetto civilistico di residenza, salva l’applicazione, per le imposte dirette, del criterio della prevalenza quantitativa – temporale.

In particolare, si ricordi come,

per quanto riguarda l’IRPEF,

  • l’art. 2, comma 2, TUIR considera residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile, mentre l’art. 43 c.c. definisce il domicilio come il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi, mentre la residenza è definita come il luogo in cui la persona ha la dimora abituale;

per quanto riguarda invece l’IVA,

  • l’art. 17, comma 2, D.P.R. n. 633/1972 stabilisce che gli obblighi relativi alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato da soggetti non residenti nei confronti di soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato, compresi i soggetti indicati all’articolo 7 ter, comma 2, lettere b) e c), sono adempiuti dai cessionari o committenti.

Ricordati i principi generali, i giudici fondano un giudizio indiziario basato sull’analisi globale degli elementi di prova individuati dall’Amministrazione finanziaria e per quanto riguarda la distribuzione dell’onere della prova, la Suprema Corte stabilisce che spetta a chi fa valere il fatto costitutivo provare la sussistenza della serie di indizi gravi, precisi e concordanti, mentre la controparte dimostra l’eventuale sussistenza di quegli elementi di discordanza che possono determinarne la falsificazione.

Inoltre, si stabilisce che il giudizio complessivo deriva dal carattere della fattispecie di natura indeterminata ed elastica: proprio per tale situazione, il concetto di sede principale dei propri affari e interessi vuole la determinazione dell’esame complessivo e sintetico.

Sonia Cascarano

26 Ottobre 2011