La censura di una sola ratio decidendi di una pronuncia fondata su una pluralità di rationes decidendi rende inammissibile l’atto di impugnazione. A cura di Carmela Lucariello.
La censura di una sola ratio (1) decidendi di una pronuncia fondata su una pluralità di rationes decidendi rende inammissibile l’atto di impugnazione.
Qualora la decisione impugnata si fondi su una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la mancata censura di una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto la loro eventuale fondatezza non potrebbe comunque condurre, stante l’intervenuta definitività di una di esse all’annullamento della pronuncia stessa.
Tale importante assunto e stato statuito dalla Cassazione civile, sez. Tributaria, con sentenza n. 22118 del 22-10-2007 (nel caso di specie, la ratio decidendi consistente nel rilievo che il maggior valore attribuito alle rimanenze era stato “affermato, ma non dimostrato dall’Ufficio IVA non era stata censurata con il ricorso in cassazione da parte del fisco).
Orbene, nel caso in cui la decisione impugnata sia fondata su una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, l’omessa specifica impugnazione di una delle ragioni, rende inammissibile per difetto d’interesse le censure relative alle ragioni esplicitamente oggetto di doglianza, perché queste ultime non potrebbero mai condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre non impugnate (es. intervenuta definizione agevolata della pretesa recata dai precedenti avvisi di accertamento prodromici rispetto alla cartella di pagamento), all’annullamento della pronuncia.
E’ius receptum, nella giurisprudenza della Corte Suprema, il principio per il quale l’impugnazione di una decisione basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l’uno dallo altro, e ciascuno, di per sé solo, idoneo a supportare il relativo dictum, per poter essere ravvisata meritevole di ingresso, deve risultare articolata in uno spettro di censure tale da investire, e da investire utilmente, tutti gli ordini di ragioni cennati, posto che la mancata critica di uno di questi o la relativa attitudine a resistere agli appunti mossigli comporterebbero che la decisione dovrebbe essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato e priverebbero il gravame dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (cfr. in merito, ex multis,Cassazione n. 24189 del 13-11-2006; Cass. sez. 3A civ. sent. n. 4349 del 26.3.2001, id. sent. n. 4424 del 27.3.2001, id., sent. n. 5149 del 6.4.2001, id., Sez. I civ. sent. n. 5493 del 12.4.2001, id. Sez. III civ., sent. n. 7077 del 24.5.2001 e Cass. Sez V n. 3965/02).
E’ pacifico presso la giurisprudenza di legittimità l’assunto secondo cui ove una sentenza (o un capo di questa) si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario – per giungere all’annullamento della pronunzia – non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo stesso dell’impugnazione.
Questa, infatti, è intesa all’annullamento della sentenza in toto, o in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano.
E’ sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, perchè il motivo di impugnazione debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni (in tale senso, ad esempio, tra le tantissime, Cass. 18 maggio 2005, n. 10420; Cass. 4 febbraio 2005, n. 2274; Cass. 26 maggio 2004, n. 10134).
Quando un provvedimento giurisdizionale risulti motivato in base ad una pluralità di argomentazioni autonome, ciascuna delle quali sia sufficiente, da sola, a giustificarne compiutamente il dispositivo, l’impugnazione proposta contro di esso, per essere ammissibile sotto il profilo dell’interesse all’impugnazione, deve investirle tutte con censure specifiche, giacché, diversamente, il ricorrente, pur se le censure dedotte contro una od alcune di tali argomentazioni dovessero ritenersi fondate, non potrebbe conseguire alcun risultato pratico dalla sua impugnazione, restando il provvedimento impugnato autonomamente giustificato dall’altra o dalle altre argomentazioni non censurate”.
Esemplificando, qualora la sentenza di primo grado sia basata su due rationes decidendi (idoneità della documentazione prodotta a provare la reale consistenza dei beni e irretroattività dei coefficienti presuntivi di reddito), l’appello dell’Ufficio che abbia contestato solo la seconda ratio decidendi, va dichiarato inammissibile dalla Commissione tributaria regionale.
Va rammentato che qualora il petitum della domanda attrice sia fondato su un duplice ordine di ragioni giuridiche, collegate a presupposti antitetici e formulate in via alternativa o subordinata, la sentenza del giudice del merito, la quale, dopo aver aderito alla prima ragione, esamini ed accolga anche la seconda, al fine di sostenere la decisione pure nel caso in cui la prima possa risultare erronea, non incorre nel vizio di contraddittorietà della motivazione, né contiene, quanto alla causa petendi alternativa o subordinata, un mero obiter dictum, non suscettibile di trasformarsi nel giudicato, ma configura una pronuncia basata su due distinte rationes decidendi, ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, che, pertanto può essere utilmente impugnata solo mediante la censura di entrambe (Cassazione Civile, Sezioni Unite del 20 febbraio 2007 n. 3840;Cass. 28 maggio 1985, n. 3236; Cass. 21 ottobre 1981, nn. 5520, 5517, 5516, 515, 5510 e 5503, Cass. 18 dicembre 2003 n. 19433).
Obiter dicta e argomento rafforzativo.
Alla luce di quanto sopra esposto è necessario identificare le rationes decidendi, distinguendole da due altre categorie logico-dialettiche fortemente affini, ed assai frequentemente impiegate dal giudice tributario, costituite dagli obiter dicta (2) e dall’argomento rafforzativo (3).
Gli obiter dicta sono affermazioni parentetiche prive di rilevanza argomentativa specifica.
Sono pensieri del giudice che non riescono ad attingere la dignità di argomenti.
Si può affermare che uno degli indizi della presenza di tal figura consiste proprio nel fatto che il dictum può essere tranquillamente espunto senza che l’argomentazione complessiva ne risenta.
Il tratto peculiare dell’obiter dictum è rappresentato dal fatto che, da sola, l’affermazione parentetica non è sufficiente a reggere la decisione adottata dal giudice, ovvero non ha correlazione alcuna, logica e giuridica, con la decisione adottata.
Se l’argomento considerato può essere espunto senza alterare la catena logica complessiva e se non ha relazione diretta con il decisum, allora si ha la certezza della sua natura di obiter dictum.
La distinzione prospettata è importante, perché l’obiter dictum deve non essere impugnato, mentre la ratio decidendi deve essere oggetto di impugnazione.
Si rammenta che il giudicato non si forma sugli obiter dicta ovvero sulle affermazioni, considerazioni o argomentazioni del giudice che esulano dalla controversia.
L’efficacia vincolante della sentenza è limitata alla sola ratio decidendi, ossia agli argomenti essenziali addotti dal giudice per giustificare la decisione del caso a lui sottoposto.
Le rimanenti parti della sentenza, ossia le argomentazioni non essenziali per la decisione, costituiscono i cosiddetti obiter dicta (sing. obiter dictum), ai quali non è riconosciuta efficacia vincolante, ma solo persuasiva in ragione della solidità delle argomentazioni sui quali sono fondati.
La seconda figura affine è l’argomento rafforzativo (cd. argomento ad abundantiam). L’argomento rafforzativo si inserisce all’interno degli stessi presupposti logico-giuridici entro cui è strutturata l’argomentazione.
«Una affermazione, pur contenuta nella motivazione di una sentenza, la quale non abbia tuttavia spiegato alcuna influenza sul dispositivo della medesima, e che risulti espressa ad abundantiam, essendo improduttiva di effetti giuridici non può essere oggetto di impugnazione, per difetto di interesse» (Cass. civ., sez. III, 24 ottobre 2003, n. 16009; Cass civ sez. III, 14 dicembre 2002, n. 17949; sez. lav., 9 luglio 2002, n. 9963; sez. III, 13 febbraio 2002, n. 2087; sez. III, 11 gennaio 2002, n. 317).
Tuttavia,secondo il giudice di legittimità (Cass civ. Sez. II, 25/10/1988, n. 5778)
«Le affermazioni “ad abundantiam”, contenute nella motivazione della sentenza, consistenti in argomentazioni rafforzative di quella costituente la premessa logica della statuizione contenuta nel dispositivo, vanno considerate di regola superflue e quindi giuridicamente irrilevanti ai fini della censurabilità qualora l’argomentazione rafforzata sia di per sé sufficiente a giustificare la pronuncia adottata, ma possono anche consistere in statuizioni autonome (cioè in un sillogismo completo) qualora, risolvendosi in un “posterius” logico di quella contenuta nel dispositivo, siano destinate a divenire operative nelle ipotesi di erroneità di questa.
In tale ultima ipotesi sorge per la parte soccombente l’interesse e l’onere all’impugnazione, onde evitare la formazione del giudicato sulle anzidette statuizioni. (Nella specie, il ricorrente aveva censurato la statuizione con la quale i giudici di secondo grado avevano dichiarato inammissibile l’appello, omettendo di assolvere all’onere dell’impugnazione nei riguardi dell’ulteriore statuizione, qualificata dagli stessi giudici “ad abundantiam”, secondo cui l’appello era comunque infondato nel merito; la C.S., in base all’enunciato principio, ha rigettato il ricorso che si era limitato ad impugnare la declaratoria d’inammissibilità dell’appello)».
Carmela Lucariello
8 Maggio 2008
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NOTE
1) La sentenza n. 23476 del 17 dicembre 2004 della Cassazione civile, sez. Tributaria così recita: La Commissione Tributaria Provinciale, nel rigettare l’istanza di rimborso, ha stabilito che il contribuente era decaduto dalla relativa azione per non avere osservato il termine di diciotto mesi stabilito dall’art. 38 del D.P.R. n. 602.73. Ha poi motivato anche nel merito, osservando che trattasi di indennità imponibile siccome connessa alla cessazione anticipata del rapporto di lavoro. Siffatta “doppia motivazione” è stata impugnata relativamente alla seconda “ratio decidendi” (merito), talché è passata in giudicato la prima statuizione, inerente alla decadenza.
La Commissione Tributaria Regionale non si è avveduta che il contribuente non aveva impugnato la decisione di primo grado sulla decadenza, ed erroneamente è entrata nel merito.
Viceversa, il ricorso del contribuente in appello doveva essere dichiarato inammissibile in quanto non censurava la prima “ratio decidendi”.
La sentenza n. 18867 del 28 giugno 2007 (dep. il 7 settembre 2007) della Corte di Cassazione così recita: il ricorso è ammissibile. Esso, infatti, investe entrambe le rationes decidendi di cui sostanzialmente si compendia la decisione impugnata: quella fondata sull’avvenuto sgravio dei ruoli impugnati successivamente alla decisione di primo grado (valutato in termini sia di sopravvenuta cessazione della materia del contendere sia di carenza di interesse ad agire ex art. 100 del codice di procedura civile); quella fondata sull’insussistenza dei titoli della contestata iscrizione a ruolo, in dipendenza della ritenuta conciliazione giudiziale della controversia sui prodromici avvisi di accertamento.
La sentenza n n. 16819 del 3 aprile 2007 (dep. il 30 luglio 2007) della Corte Cass., Sez. tributaria così recita:
La censura della contribuente relativa alla legittimità del recupero a tassazione, quale sopravvenienza attiva, della somma di lire 20.000.000 “corrispondente ad un credito per finanziamento ricevuto da soci e da questi rinunciato”,
infine, è inammissibile perché non coglie una delle due autonome rationes decidendi poste dal giudice a quo a fondamento della sua decisione sul punto e, quindi, non è idonea a scalfire tale decisione.
La sentenza n. 10597 dell’8 febbraio 2007 (dep. il 9 maggio 2007) della Corte Cass., Sez. tributaria così recita :il giudice di merito ha fondato la sua decisione su due distinte ed autonome rationes decidendi, la prima delle quali – infungibilità delle prestazioni del libero professionista – è priva di fondamento, ma la seconda delle quali – mancanza di qualsiasi organizzazione è il risultato di un accertamento di fatto.
In ordine alla seconda ratio decidendi la ricorrente non ha svolto alcuna specifica considerazione, in particolare non dimostrando se e in quali atti processuali si sia evidenziata l’utilizzazione, da parte del professionista, di elementi di organizzazione che il giudice di merito abbia trascurato di prendere in esame o che abbia valutato con motivazione viziata sotto uno dei profili solo astrattamente denunciati; pertanto, i motivi di impugnazione sono entrambi infondati e il ricorso deve essere rigettato.
Le censure alla prima ratio decidendi sono da ritenere prive di fondamento e pertanto quella formulata nei confronti della seconda, relativa alla ritenuta invalidità dell’avviso di accertamento impugnato per carenza di motivazione deve dichiararsi inammissibile per carenza di interesse a proporla, in quanto, ove anche, per mera ipotesi, fondata, la sentenza impugnata resterebbe pur sempre sorretta dalla ratio decidendi legittimamente adottata (Corte Suprema di Cassazione – Sezione V Civile Tributaria sentenza n. 11348 del 30 agosto 2001).
Nei gradi di impugnazione, il principio dell’interesse ad agire si configura diversamente rispetto al giudizio di primo grado, dovendosi tener conto dell’intervenuta pronuncia della sentenza di primo grado, idonea ad assumere la consistenza del giudicato per le parti non impugnate, a causa dei limiti dell’effetto devolutivo dell’appello; ne deriva che nel decidere sulla sussistenza di tale interesse, e quindi sull’ammissibilità dell’impugnazione proposta, si deve aver riguardo agli effetti che potrebbero derivare dal suo accoglimento e alla loro idoneità a soddisfare un interesse della parte impugnante in relazione ai temi del giudizio.
Pertanto, l’interesse, ed il conseguente onere, della parte soccombente ad impugnare è esteso e nel contempo limitato alle “rationes decidendi” poste a base della sentenza, ma non coinvolge le questioni sulle quali questa non si sia pronunciata, perché ritenute assorbite (Cassazione Sezione V – Sentenza n. 12700 del 18/10/2001,Cass. 9175/98, 2022/2000, 4851/2000).
2) Ai fini della giurisdizione la Suprema Corte si è espressa in un obiter dictum contenuto in una recente ordinanza (Corte di Cassazione, SS.UU., ord. n. 3171 dell’11 febbraio 2008) dove si legge che
“Possono, inoltre, essere attribuite ai giudici tributati quelle controversie che riguardino atti ‘neutri’, cioè utilizzabili a sostegno di qualsiasi pretesa patrimoniale (tributaria o no) della mano pubblica. Così, la L. n. 248/2006 ha inserito fra gli atti elencati nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, ed impugnabili avanti alle Commissioni Tributarie: e-bis) l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’articolo 77 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni; e-ter) il fermo di beni mobili registrati di cui all’articolo 86 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni.
Questa attribuzione al giudice tributario è stata compiuta in considerazione del fatto che si discute di misure collocate all’interno nel sistema della esecuzione esattoriale e di matrice tributaristica, cui il legislatore ha ritenuto di far ricorso per facilitare la riscossione anche di entrate non tributarie. Ed il relativo contenzioso riguarda questioni attinenti alla regolarità formale e sostanziale della misura adottata; non alla fondatezza della pretesa che ha dato luogo al provvedimento di fermo ed alla iscrizione di ipoteca (dal momento che questa fondatezza deve già essere stata accertata con atti definitivi)”.
Le affermazioni, estranee alla logica del decisum, devono considerarsi obiter dicta non suscettibili di passare in cosa giudicata e pertanto, anche sotto questo ulteriore profilo, deve escludersi un interesse dei contribuenti all’impugnazione in esame (sent. n. 6366 del 21 dicembre 2005, dep. il 22 marzo 2006 della Corte Cass., Sez. tributaria).
Il tratto peculiare dell’obiter dictum è rappresentato dal fatto che, da sola, l’affermazione parentetica non è sufficiente a reggere la decisione adottata dal giudice, ovvero non ha correlazione alcuna, logica e giuridica, con la decisione adottata.
Se l’argomento considerato può essere espunto senza alterare la catena logica complessiva e se non ha relazione diretta con il decisum, allora si ha la certezza della sua natura di obiter dictum.
La distinzione prospettata è importante, perché l’obiter dictum deve non essere impugnato, mentre la ratio decidendi deve essere oggetto di impugnazione.
Si rammenta che il giudicato non si forma sugli obiter dicta ovvero sulle affermazioni, considerazioni o argomentazioni del giudice che esulano dalla controversia.
L’efficacia vincolante della sentenza è limitata alla sola ratio decidendi, ossia agli argomenti essenziali addotti dal giudice per giustificare la decisione del caso a lui sottoposto.
Le rimanenti parti della sentenza, ossia le argomentazioni non essenziali per la decisione, costituiscono i cosiddetti obiter dicta (sing. obiter dictum), ai quali non è riconosciuta efficacia vincolante, ma solo persuasiva in ragione della solidità delle argomentazioni sui quali sono fondati.
Le affermazioni, estranee alla logica del decisum, devono considerarsi obiter dicta non suscettibili di passare in cosa giudicata e pertanto, anche sotto questo ulteriore profilo, deve escludersi un interesse dei contribuenti all’impugnazione in esame (Sent. n. 6366 del 22 marzo 2006 dep. il 21 dicembre 2005 della Corte Cass., Sez. tributaria).
Nuova è, invece, l’affermazione contenuta nella seconda parte dell’ord. n. 3171/2008, secondo cui
“Possono, inoltre, essere attribuite ai giudici tributari quelle controversie che riguardino atti ‘neutri’, cioè utilizzabili a sostegno di qualsiasi pretesa patrimoniale (tributaria o no) della mano pubblica …”,
con riferimento, in particolare, al fermo di beni mobili registrati, di cui all’art. 86 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, inserito nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 con la lettera e-ter), unitamente all’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’antecedente art. 77, con la lettera e-bis), dalla L. n. 248/2006 di conversione del decreto “Bersani” (art. 35, comma 26-quinquies).
Innanzi tutto è da premettere che, nell’economia dell’ordinanza, l’affermazione non è funzionale rispetto al thema decidendum, avente ad oggetto un regolamento di giurisdizione per sanzione amministrativa.
Sicché costituisce un semplice obiter dictum, cui è da riconoscere il valore di un’opinione, anche se autorevole per la sede in cui è stata espressa, priva della forza e dell’efficacia di un giudicato, e, quindi, del carattere di “precedente”, sia pure non vincolante (in tal senso, Ennio Attilio Sepe, Cass., ord. n. 3171 dell’11 febbraio 2008: la giurisdizione sul fermo di beni mobili registrati in “il fisco” n. 17 del 28 aprile 2008, pag. 3079).
3) Le affermazioni ‘ulteriori’ contenute nella motivazione della sentenza, consistenti in argomentazioni rafforzative di quella costituente la premessa logica della statuizione contenuta nel dispositivo vanno considerate di regola superflue, qualora l’argomentazione principale sia sufficiente a reggere la pronuncia adottata.
Tuttavia l’affermazione di infondatezza della domanda, contenuta nella sentenza che ne abbia pregiudizialmente dichiarato l’inammissibilità, ove formulata nei limiti delle domande ed eccezioni hic et inde proposte, può non integrare una motivazione ad abundantiam improduttiva di effetti giuridici, e, qualora sia inserita dal giudice perché idonea a sorreggere la decisione nell’ipotesi di erroneità di quella contenuta nel dispositivo, può costituire un’ulteriore autonoma statuizione.
Ne consegue che per la parte soccombente sorge l’interesse e l’onere all’impugnazione al fine di evitare la formazione del giudicato sull’anzidetta statuizione, al pari di quanto avviene nel caso di pronunzia di accoglimento fondata su distinte rationes decidendi (Cass. civ., Sez. III, 26 maggio 2004, n. 10134).
10 Maggio 2008
A cura di Carmela Lucariello.
IL PRESENTE INTERVENTO E’ ESPRESSIONE DI OPINIONI PERSONALI DELL’AUTORE