gli effetti sostanziali dell’operazione che prevede il conferimento d’azienda e la successiva cessione delle partecipazioni detenute nella conferitaria
La Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata in merito alla possibilità, per l’Ufficio Finanziario, di valorizzare gli effetti economici – anziché quelli giuridici – degli atti sottoposti a registrazione, applicando a tal fine l’art. 20 del D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131.
In particolare, con la recentissima sentenza del 15 marzo 2017 n. 6758, la Sezione tributaria della Suprema Corte ha sostenuto che l’art. 20 del menzionato decreto non detta una regola antielusiva, bensì interpretativa, che impone una qualificazione oggettiva degli atti secondo la causa concreta della complessiva operazione negoziale posta in essere.
Dalla tesi in commento discenderebbe, sul piano pratico, la liquidazione dell’imposta di registro in misura proporzionale anziché in misura fissa.
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Premessa
L’Agenzia delle Entrate, anche a causa di alcuni arresti giurisprudenziali della Corte di Cassazione, è solita effettuare degli accertamenti ai fini dell’imposta di registro, eccependo che il conferimento di un’azienda in una società seguita in un breve lasso temporale dalla cessione delle partecipazioni ricevute in cambio, debbano essere assoggettate ad imposizione proporzionale quali cessioni di azienda.
Tale rilievo, che presuppone evidentemente lo svilimento dello strumento societario scelto dal contribuente (considerato come totalmente inesistente ai fini dell’inquadramento tributario dell’operazione) viene effettuato in forza del noto art. 20 del Testo Unico sull’imposta di registro che consentirebbe agli Uffici tributari di “reinterpretare” gli atti dei contribuenti, tassandoli in ragione della loro “intrinseca natura” e degli “effetti giuridici” da essi spiegati, al di là della “forma apparente”.
Ciò è accaduto anche nel caso in commento.
Con la sentenza del 15 marzo 2017 n. 6758 la Sezione Tributaria della Cassazione, sulla falsariga di altre recenti pronunce dei giudici di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass. 3562/2017), pur ribadendo come l’art. 20 non sia una norma anti-elusiva e, pertanto, non permetta all’Ufficio di fondare la propria pretesa contestando la mancanza di ragioni valide economiche e l’abuso del diritto, ha sostenuto che la norma nondimeno legittima la lettura congiunta di più atti ritenuti collegati, al fine di individuare e valorizzare la causa concreta, intesa quale sintesi degli interessi “oggettivati nell’operazione economica”, che li lega.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, l’imposta di registro avrebbe per oggetto il negozio giuridico nel suo complesso e non i singoli atti documentali che ne costituiscono, per così dire, i tasselli.
Ne deriva perciò un’interpretazione unitaria del negozio in parola (pur se frazionato in atti distinti) tesa alla valorizzazione della relativa causa reale, quale elemento sintetico degli effetti economici finali delle operazioni poste in essere.
Come rilevato da Assonime (Circolare n. 21 del 4 agosto 2016, p. 23), questa tesi, però, si rivela intrinsecamente contradittoria, finendo per legittimare di fatto un’applicazione dell’art. 20 che, nel travalicare l’interpretazione degli atti per il loro contenuto giuridico, sconfina, senza oltretutto assicurare le tutele procedurali altrimenti previste, proprio in quella logica antiabuso che la stessa Cassazione nega possa essere attribuita all’art. 20.
Prima di soffermarci sui motivi per cui non si ritengono condivisibili le conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, è opportuno esporre brevemente il contenuto della vicenda oggetto di causa, tenendo altresì conto delle difese processuali svolte dalle parti.
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La sentenza della Corte di Cassazione n. 6758 del 15 marzo 2017.
La Corte di Cassazione, ha esaminato l’appello presentato dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza 52/7/11 della Commissione Tributaria Regionale della Liguria.
Il giudice di merito si era espresso con riguardo alla contestazione formulata, ai fini dell’imposta di registro, circa un’operazione di conferimento di ramo d’azienda in una società di nuova costituzione, seguita, a breve distanza di tempo, dalla cessione totalitaria delle partecipazioni detenute nella conferitaria.
In particolare, l’Ufficio, ritenendo che le predette fattispecie unitariamente considerate realizzassero una cessione di ramo d’azienda, aveva applicato l’imposta di registro determinata su base proporzionale, anziché quella fissa prevista per le cessioni di quote.
Nell’esposizione dei fatti contenuta nella sentenza impugnata emerge come l’Ufficio, per giustificare la pretesa, si fosse appellato alla sussistenza di una supposta unica causa elusiva dell’insieme degli atti sottoposti a registrazione.
I giudici di secondo grado liguri avevano, invece, respinto l’appello dell’Agenzia delle Entrate, escludendo l’unitarietà sostanziale dei negozi posti in essere e censurando l’assenza del contradittorio endoprocedimentale, avendo l’Ufficio notificato l’atto impositivo senza alcun confronto preventivo con il contribuente.
L’Agenzia delle Entrate di Genova ricorreva al giudice di legittimità, affidandosi a tre motivi di gravame.
Con il primo lamentava, in sintesi, che il giudice di seconde cure avesse disatteso la giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo la quale l’Amministrazione ha il potere, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, di dare preminente rilievo alla causa reale e alla regolazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche se mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali.
Con il secondo motivo l’Ufficio sosteneva che gli argomenti spesi dal giudice d’appello in merito alla genuinità commerciale dell’operazione fossero non pertinenti, in quanto l’intento elusivo non costituirebbe elemento rilevante ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 20 in commento.
Con il terzo motivo, infine, l’Agenzia denunciava il vizio di ultrapetizione in cui sarebbe incorso il giudice d’appello per aver rilevato il difetto di contradittorio precontenzioso mai eccepito dal contribuente, sostenendo al contempo come un siffatto obbligo generale sussista solo per i tributi armonizzati.
La difesa del resistente si è focalizzata sull’individuazione delle ragioni extra-fiscali sottese alle operazioni poste in essere e idonee ad escludere la riconduzione di queste ultime nell’alveo delle condotte elusive; ciò sul presupposto che l’art. 20 costituisca una disposizione antielusiva in senso proprio, stante l’utilizzo che ne aveva fatto l’Ufficio accertatore a supporto della propria pretesa.
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondati tutti tre i motivi di ricorso proposti dall’Agenzia delle Entrate.
In primis, ha ribadito la natura interpretativa della norma in commento tesa a valorizzare gli atti nella loro oggettività ermeneutica, a prescindere da qualunque riferimento a un eventuale disegno elusivo delle parti.
L’art. 20 è, pertanto, secondo il pensiero della Suprema Corte, una norma di “qualificazione” degli atti, che non si sovrappone all’autonomia privata delle parti, ma si limita a definirne l’esercizio unitamente agli altri canoni legali di ermeneutica negoziale. Come norma interpretativa ha quale oggetto la causa dell’atto nella sua dimensione reale e concreta. Pertanto, quando “gli atti sono plurimi e funzionalmente collegati, quando cioè la causa tipica di ciascuno è in funzione di un programma negoziale che la trascende, non può rilevare che la causa concreta dell’operazione complessiva”.
Peraltro, secondo la Suprema Corte, la configurazione dell’imposta di registro come “imposta di negozio” e non come “imposta d’atto” costituirebbe corollario del principio costituzionale di capacità contributiva, in quanto soltanto considerando i negozi collegati nella loro interezza funzionale sarebbe possibile misurare il reale movimento di ricchezza, non individuabile altrimenti attraverso la mera interpretazione atomistica dei singoli momenti dell’operazione negoziale.
Tuttavia, le conclusioni della Suprema Corte non possono essere condivise.
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L’interpretazione dell’art. 20 del D.P.R. 131/1986.
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Sulla illegittima lettura congiunta degli atti sottoposti a registrazione
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L’interpretazione degli atti sottoposti a registrazione – basata su una valutazione congiunta degli stessi – contrasta con la natura intrinseca dell’imposta di registro.
Come noto, detto prelievo mira a colpire l’atto in sé e non i diritti che risultano costituiti, modificati o documentati dallo stesso. Si parla di “imposta d’atto” appunto per sottolineare il fatto che essa colpisce l’atto in sé, ricollegando alla effettiva natura giuridica dello stesso la manifestazione di ricchezza da assoggettare ad imposizione; “pertanto, l’interpretazione dell’atto da registrare, ex art. 20 T.U, pur dovendo essere effettuata in conformità ai principi civilistici, è diversa rispetto a quella disciplinata dagli artt. 1362 e seguenti del codice civile, nella misura in cui non può avvalersi di tutti quegli elementi – quale ad esempio il comportamento complessivo della parti anche successivo alla formazione del contratto ex art. 1362, comma 2, c.cc. – che non trovano riscontro nell’atto stesso”1.
Così correttamente ricostruita, la natura giuridica dell’imposta di registro comporta il divieto di ricorrere, in sede di interpretazione, a fatti extra-testuali. Al pari, in sede di tassazione, è fatto divieto all’Amministrazione Finanziaria di creare collegamenti tra diversi negozi giuridici, salvo che nelle ipotesi specificatamente e tassativamente previste dalla legge: si pensi, ad esempio, a quelle disciplinate dall’art. 21 del D.P.R. 131/1986, in tema di atti che contengono più disposizioni, ovvero a quelle di cui al successivo art. 22, in base al quale viene data rilevanza ad un precedente atto solo se questo è enunciato in altro atto e solo se il precedente atto è intervenuto tra le stesse parti.
A fini sistematici le citate disposizioni chiariscono inequivocabilmente la volontà del legislatore del Testo Unico che, quando ha inteso attribuire rilevanza a vicende estranee all’atto sottoposto a registrazione, l’ha espressamente previsto e codificato.
Non si può non osservare, poi, come l’orientamento giuridico elaborato dalla Suprema Corte, che legittima l’interprete ad individuare il presunto comportamento del contribuente anche se manifestato in distinti negozi, sia in definitiva frutto di una forzosa interpretazione della norma in chiave anti-abuso. Disposizione questa tesa a perseguire gli intenti elusivi del contribuente che ha posto in essere una concatenazione di atti ravvicinati per ottenere, in assenza di apprezzabili effetti economici, di un vantaggio fiscale indebito.
Un percorso logico di questo tipo è, paradossalmente, proprio quello che la Suprema Corte non ritiene applicabile nell’ambito dell’imposta di registro.
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Sulla teoria della “causa concreta” quale oggetto della norma interpretativa
La trasposizione in ambito tributario della teoria della “causa concreta”, intesa come manifestazione degli interessi reali delle parti che la pattuizione mira a soddisfare, si trasforma – di fatto – in un’indagine, peraltro erronea, in merito al risultato economico perseguito, che viene assunto a paradigma per la qualificazione del tipo di negozio e/o del suo oggetto, in una prospettiva propria delle disposizioni anti-abuso.
Con ciò, a ben vedere, esce snaturata la stessa teoria della causa concreta, sviluppatasi in seno alla dottrina civilistica, per la quale gli interessi concretamente perseguiti dalle parti devono essere ricercati nel testo del contratto e non anche attraverso un’analisi extra-testuale, ossia attraverso un’analisi di coerenza (in termini di effetti giuridici) tra la forma (ndr nomen iuris) del contratto e il suo contenuto.
Il dato letterale della norma, oltre che l’evoluzione normativa che lo ha interessato, depone in tal senso.
L’art. 20, infatti, espressamente menziona gli “effetti giuridici” e costituisce una svolta innovativa rispetto alla disposizione già contenuta nell’art. 8 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, che faceva, invece, riferimento, ai fini dell’interpretazione degli atti, ai loro generici “effetti”, lasciando gli interpreti dell’epoca discordanti sull’esigenza di considerare gli effetti giuridici ovvero quelli economici.
I due concetti, del resto, sono all’evidenza diversi e in nessun caso devono essere confusi: infatti, mentre gli effetti giuridici sono gli effetti che la legge fa conseguire agli atti e ai negozi codificati, quelli economici sono, invece, quelle modificazioni sostanziali che si realizzano in conseguenza della messa in atto di uno o più atti e/o negozi.
Peraltro, anche recente giurisprudenza di merito ha preso una posizione netta e chiara in materia, evidenziando la necessità “di evitare l’equivoco, …, di confondere gli effetti giuridici dell’atto, o degli atti collegati, presentati alla registrazione, con gli effetti economici dell’operazione, ossia di confondere la sostanza giuridica con quella economica. E’ imprescindibile, infatti, ai fini della “riqualificazione”, che vi sia omogeneità dei risultati giuridici tra gli atti da tassare ed il modello di riferimento” (CTR di Napoli sez. 52, 4 novembre 2015, n. 9666 ; in senso conforme CTR di Bologna, 29 ottobre 2007 n. 93; CTR di Milano, 27 giugno 2014 n. 3466).
Il riferimento agli effetti giuridici contenuto nella norma comporta che l’imposta debba essere applicata in relazione allo schema giuridico che l’atto sottoposto a registrazione è idoneo a realizzare, alla sintesi, cioè, delle conseguenze giuridiche che è idoneo a produrre, indipendentemente dalla denominazione indicata dalle parti e dalla veste formale che lo racchiude.
La ratio della norma, avente natura interpretativa, è quella di consentire all’Amministrazione finanziaria di non fermarsi al nomen iuris attribuito dalle parti agli atti sottoposti a registrazione, avendo il dovere di verificare che vi sia coerenza tra la denominazione dell’atto e le clausole in esso contenute, valorizzandone a tal fine esclusivamente i relativi effetti giuridici (CTR Lombardia 8 marzo 2012 n. 32; CTP Milano 10 febbraio 2012 n. 43; in senso conforme CTR Lombardia 27 marzo 2012 n. 68, CTR Veneto 18 maggio 2010 n. 66; in senso conforme: Marongiu, “L’abuso del diritto nella legge di registro tra principi veri e principi asseriti”, in Dir. prat. trib, n. 2/2013, pag. 10361).
In altri termini, la disposizione è tesa a fugare la possibilità di intitolare l’atto in un modo e poi redigere le clausole disponendo regole non coerenti con l’intitolazione, sostenendo gli oneri tributari corrispondenti al nomen iuris improprio risultante dal contratto.
Come correttamente recente giurisprudenza di merito ha rilevato “si può riconoscere … all’articolo 20 la possibilità di riqualificare l’atto o gli atti … per individuare l’esatta natura giuridica rispetto a quella inesatta, oppure utilizzata erroneamente o artatamente. Ma questo nulla ha a che vedere con la possibilità di riconoscere la presunta valenza economica…” (CTP Emilia-Romagna Reggio Emilia, 14 luglio 2016, n. 228).
Non condivisibile, peraltro, è l’assunto formulato nella sentenza in commento per cui la dicotomia tra effetti giuridici ed economici si avrebbe solo nell’ipotesi in cui gli atti sottoposti a registrazione fossero considerati nella loro individualità. Ciò in quanto, anche considerando congiuntamente gli atti in esame, non si può trascurare come l’effetto giuridico finale degli stessi sia diverso dal quello proprio di una cessione di azienda: il cessionario diventa titolare di un bene di secondo grado (la partecipazione) e non di un bene di primo grado (il complesso di beni integranti l’azienda), con indubbie differenze in tema di responsabilità e di commistione del proprio patrimonio con quello del soggetto acquisito.
Il trasferimento di azienda e il trasferimento di quote non sono, in altre parole, operazioni sovrapponibili e intercambiabili né dal punto di vista giuridico, né da quello economico. Ciò perché essere direttamente titolari di un’azienda ed essere titolari del 100% delle quote di una società proprietaria di un’unica azienda, non comporta i medesimi effetti.
Assoggettare, quindi, ad imposizione il conferimento d’azienda succeduto dalla cessione della partecipazione nella conferitaria, come se si fosse in presenza di una cessione d’azienda presuppone non la valorizzazione degli effetti giuridici degli atti sottoposti a registrazione, quanto piuttosto la loro sostituzione col diverso istituto giuridico che, secondo i giudici, avrebbe potuto essere utilizzato per conseguire un risultato ritenuto (tra l’altro a torto) economicamente equivalente.
3.3 Sulla dimensione complessiva dell’affare, quale indice di misurazione del reale movimento di ricchezza.
Non condivisibile, inoltre, è l’assunto della Suprema Corte per cui solo “la dimensione complessiva dell’affare”, ossia la considerazione congiunta degli atti sottoposti a registrazione, se ritenuti connessi, sarebbe in grado di misurare il reale movimento di ricchezza.
All’esito di siffatto ragionamento, infatti, si finirebbe per qualificare il trasferimento di ricchezza quale parametro di riferimento per l’individuazione della tassazione ai fini dell’imposta di registro.
A tal proposito, va in primo luogo osservato come non esista nella struttura dell’imposta di registro un principio secondo cui il trasferimento di ricchezza debba di per sé essere tassato applicando le più elevate aliquote previste dalla tariffa; piuttosto si tratta di un’imposta che tende a tassare tutti i trasferimenti di ricchezza con aliquote differenti determinate a seconda dell’atto (individuato sulla base dei relativi effetti giuridici) attraverso il quale il trasferimento viene perfezionato. Sulla base di tale principio sia il conferimento d’azienda che il successivo trasferimento di partecipazioni vengono considerati un trasferimento di ricchezza ma assoggettati, oltretutto in ottemperanza ad una Direttiva Europea (Direttiva del Consiglio UE 12 febbraio 2008, 2008/7/CE, concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali), ad un carico impositivo inferiore rispetto a quello previsto per le cessioni di azienda.
La minore imposizione non è correlata all’assenza di un trasferimento di ricchezza, ma alla scelta del Legislatore (nazionale ed Europeo) di agevolare i trasferimenti che avvengono nell’ambito di operazioni di riorganizzazione societaria.
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Conclusioni
Il procedimento logico seguito dalla giurisprudenza di legittimità nella sentenza in commento nega il ricorso al principio dell’abuso del diritto, ma a ben vedere contraddice se stesso perché è fondato proprio sui medesimi presupposti.
Di fatto, la Suprema Corte finisce per legittimare un utilizzo della norma teso alla valorizzazione degli effetti economici degli atti sottoposti a registrazione, sulla base di una lettura congiunta degli stessi, presupposti propri delle disposizioni antielusive.
Poco persuasiva appare allora l’effettiva intenzione della Cassazione di prendere le distanze dall’applicazione dell’articolo 20 come clausola antielusiva, per ricondurla alla sua corretta natura di norma di qualificazione degli atti soggetti a registrazione.
Si auspica che le criticità rilevate, inducano la Suprema Corte a non ritenere sopito il contrasto, sorto in merito alla possibilità di qualificare (applicando l’art. 20 di cui si discute) le operazioni di specie quali cessioni d’azienda, e portino invece a valorizzare la differente pronuncia resa con sentenza del 27 gennaio 2017, n. 2054.
In tale occasione, con estrema chiarezza, il collegio giudicante, pur rilevando che l’Amministrazione non è tenuta ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella “forma apparente” al quale lo stesso art. 20 fa riferimento, ha ritenuto indubbio che in tale attività riqualificatoria non sia possibile travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici. In altre parole non deve essere ricercato un presunto effetto economico dell’atto tanto più se e quando, come nel caso di specie, lo stesso è il medesimo per due negozi tipici diversi per gli effetti giuridici che si vogliono realizzare.
Del resto, come sancito dalla Corte di Cassazione (con sentenza del 27 gennaio 2017, n. 2048) in occasione di un giudizio avente per oggetto l’imponibilità o meno ai fini dell’imposta di registro di una passività trasferita con un ramo d’azienda, i giudici tributari devono sempre vagliare scrupolosamente la documentazione probatoria di parte contribuente e, qualora quest’ultimo riesca a dimostrare che gli effetti di un determinato atto siano diversi da quelli contestati, gli stessi giudici hanno l’obbligo di annullare le pretese dell’Ufficio.
Le eventuali eccezioni di possibili abusi normativi dovranno essere sollevate esclusivamente facendo riferimento all’art 10-bis L. 27 luglio 2000 n. 212, sia per i profili sostanziali, che procedimentali in modo d’assicurare condizioni di certezza del diritto e di concorrenza uniformi.
La numerosità di interventi del giudice in tema di applicazione dell’imposta di registro in ipotesi di operazioni di cessioni di aziende, o qualificate come tali, rende quanto mai evidente la necessità che il legislatore intervenga “a monte” sostituendo la tassazione proporzionale delle cessioni di azienda con quella fissa, essendo la prima non più coerente con l’imposizione applicabile ad altri strumenti giuridici utilizzabili per la circolazione delle attività d’impresa. Una siffatta soluzione avrebbe il pregio di evitare, per lo meno per il futuro, le variegate contestazioni che (purtroppo) si associano praticamente ad ogni trasferimento di azienda, rendendo meno onerosa la circolazione delle stesse.
17 maggio 2017
Fabio Gallio e Stefano Brunello
1 Consiglio Nazionale del Notariato, Imposta di registro – Elusione fiscale, interpretazione e riqualificazione degli atti, Studio n. 95/2003/T del 26 marzo 2004