Anche le operazioni infragruppo fra imprese che operano in Italia sono soggette alle norme sul transfer price per evitare che venga fittiziamente redistribuito il reddito d’impresa per sola convenienza fiscale.
Con la sentenza n. 8849 del 16 aprile 2014 (ud. 25 febbraio 2014) la Corte di Cassazione torna a legittimare il transfer pricing interno (nel caso specifico l’Ufficio aveva recuperato a tassazione costi indeducibili a fronte di operazioni di transfer pricing, conseguenti al trasferimento di utili a favore dell’impresa controllante).
Il principio relativo al transfer pricing interno espresso in sentenza
Richiamando un proprio precedente (sent. n. 17955/2013) la Corte ha affermato che nella valutazione fiscale delle manovre sul trasferimento dei prezzi tra società facenti parte di uno stesso gruppo ed aventi tutte sede in Italia (transfer pricing c.d. “domestico” o “interno”),
“va applicato il principio, avente valore generale, e dunque non circoscritto ai soli rapporti internazionali di controllo, stabilito dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, che non ha mera portata contabile e che impone il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi presi in considerazione dal contribuente.
Si tratta, invero, di una clausola antielusiva, costituente esplicazione del generale divieto di abuso del diritto in materia tributaria, essendo precluso al contribuente conseguire vantaggi fiscali – come lo spostamento dell’imponibile presso le imprese associate che, nel territorio, godano di esenzioni o minor tassazione – mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di legge, di strumenti giuridici idonei ad ottenere vantaggi in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici”.
Oltretutto, osserva la Corte, che l’art.9, del T.U. n. 917/86,
“non sia una norma dettata per le sole transazioni tra una società nazionale ed una estera, lo si evince – in maniera inequivocabile – dalla stessa collocazione della norma tra le ‘disposizioni generali’ applicabili in materia di imposte sui redditi, di cui al titolo I, capo I del D.P.R. n. 917 del 1986.
E, non a caso, la disposizione dell’art. 76, commi 2 e 5 (come, ora l’art. 110, commi 2 e 7) del decreto cit. rinvia al precedente art. 9, – secondo la tecnica normativa del rinvio recettizio ad una disposizione di carattere generale, da parte di una norma speciale che non prevede una disciplina specifica della fattispecie da regolare (Cass. 914/68) – ai fini della determinazione del valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, con riferimento alle transazioni commerciali effettuate tra società dello stesso gruppo; e ciò, sia pure con riferimento specifico all’ipotesi in cui alcune di tali società siano italiane, altre straniere”.
Nel caso di specie,
“la maggiorazione del prezzo praticato dalla C.E.M. Cooperativa a r.l. a favore della C.E.M.S. s.r.l., controllata al 100% dalla prima, nelle cessioni di carne operate negli anni in contestazione, non trova alcun altro fondamento, se non nello scopo di aumentare i costi per la controllata, determinando – al contempo – per quest’ultima una diminuzione dell’utile imponibile, trasferito, di fatto, – attraverso un aumento dei corrispettivi – alla cooperativa controllante, ottenendo, in tal modo, un’indebita esenzione da imposta.
Siffatta operazione si è – per vero – tradotta in un sicuro vantaggio fiscale per il gruppo, atteso che, in forza della previsione di cui alla L. n. 449 del 1997, art. 21, comma 10, le imposte sui redditi relative al maggior utile conseguito per effetto delle variazioni reddituali prodottesi a chiusura dell’esercizio, non concorrono a formare il reddito imponibile della cooperativa, ma sono destinate alle riserve indivisibili; sicchè le imposte sui redditi versate possono essere dedotte come costo dalla stessa società cooperativa”.
E in tali operazioni grava
“sul contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova ex art. 2697 c.c., l’onere di dimostrare che tali transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua dell’art. 9, comma 3, del menzionato decreto (Cass. 11949/12; 10742/13), sicchè l’operazione non possa considerarsi ispirata dalla finalità di evasione delle imposte dovute.
Ma tale dimostrazione è del tutto mancata nel caso di specie”.
Considerazioni sul transfer pricing interno
La sentenza che si annota va sul solco del precedente pronunciamento, peraltro richiamato (sentenza n.1 7955 del 24 luglio 2013), dove la Corte di Cassazione aveva già confermato la sussistenza del transfer pricing domestico (interno).
Per la Corte siamo in presenza di manovre sui prezzi di trasferimento interni, vere e proprie operazioni elusive, “motivate dalla convenienza, in ambito nazionale di trasferire la materia imponibile, agendo sui prezzi negoziati per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi ‘intercompany’. Si tratta del fenomeno del cd. ‘transfer pricing domestico’.
Lo strumento, osservava ancora la Corte di Cassazione,
“é normalmente utilizzato da società controllanti o collegate, con sede nei territori del Centro-Nord, che cedono merci o beni immateriali alle controllate o consociate aventi sede nel Mezzogiorno ad un prezzo inferiore al valore normale così come definito dall’art. 9 cit.
Tali manovre, secondo le determinazioni dell’amministrazione finanziaria, consentono di realizzare una contrazione dell’utile per l’impresa settentrionale con reddito assoggettato alle aliquote ordinarie e di ‘gonfiare’ l’utile dell’impresa meridionale che gode delle agevolazioni fiscali stabilite dall’art. 26 d.p.r. 601/73 (Circolare del 26/02/1999 n. 53)”.
In sintesi,
“si attuano in ambito nazionale le medesime forme di politiche sui prezzi, attuate assai di frequente in ambito internazionale mediante transazioni infragruppo inferiori (o superiori) al loro valore normale, onde spostare l’imponibile presso le imprese associate che, nei rispettivi territori, godono di esenzioni fiscali e subiscono minore tassazione”.
Se la specialità della disciplina nazionale sul “transfer pricing esterno o internazionale”, fa sì che l’art. 110 TUIR (ex art. 76) non possa di per sé stesso trovare applicazione diretta al “transfer pricing interno o domestico” (cfr. anche Circ. cit.),
“tuttavia, si è ritenuto che la disciplina che regola il “transfer pricing internazionale”, secondo cui i componenti di reddito derivanti da operazioni ‘intercompany’ con società non residenti sono valutati in base al ‘valore normale’ dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti, determinato ex art. 9 cit., costituisce una clausola antielusiva che non solo trova radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto, ma anche immanenza in settori del diritto tributario nazionale (C. 22023/06)”.
Conclusivamente, la Corte accoglie anche il secondo motivo e, in ordine ad esso, formula il seguente principio di diritto:
“Per la valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, costituenti il cd. ‘transfer pricing domesticot, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’ art. 9 del d.p.r. n. 917 del 1986, che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente”.
Rileviamo ancora che la CTP di Firenze (sentenza n. 66/11/08 del 18 settembre 2008) ha avallato il recupero dell’ufficio basato su un illecito transfer pricing (interno), avvenuto per comprimere il reddito delle singole consorziate per fini meramente fiscali, pianificando una collocazione ottimale delle componenti reddituali (positive o negative), che permettesse una riduzione del carico fiscale della società a regime fiscale più svantaggioso.
Tramite transazioni antieconomiche, come quella oggetto di esame da parte dei giudici fiorentini, si realizza infatti un vero e proprio abuso del diritto (cfr. anche CTP di Milano 577/1998, CTC 3286/1992, Corte di appello di Venezia 816/1991).
Per i giudici di Firenze
“è pacifico che gli ex dipendenti del Consorzio … hanno continuato ad occuparsi della contabilità del Consorzio e delle partecipate; a fronte di tali prestazioni…la società consorziata non ha fatturato alcunché…, accollandosi per intero anche il costo del personale che ha svolto invece attività a favore di altra società…
Il passaggio del personale … pertanto fa presumere che le due società, in un’ottica di esclusivo risparmio fiscale, abbiano trasferito il costo del personale amministrativo su quella che presenta un trattamento tributario degli utili più svantaggioso, cioè su quello che presenta la forma della spa, avendo ben presente il regime agevolato di tassazione degli utili conseguiti dalla società cooperativa…”.
Da un paio di anni a questa parte, nella generale consapevolezza che la congruità dei prezzi di trasferimento riguardi anche i “rapporti interni”, il Fisco, per relationem, sta trasferendo i principi espressi dall’art. 110, c. 7, del T.U. n. 917/86 anche nell’ipotesi di rapporti fra società residenti, facenti parte dello stesso gruppo.
Il predetto fenomeno1, pur non essendo espressamente disciplinato dal legislatore tributario, è stato oggetto di attenzione da parte dell’Amministrazione finanziaria ( circolare n.53/1999), la quale, dopo aver escluso l’applicabilità della normativa sui prezzi di trasferimento e quella in materia di elusione fiscale contenuta nell’art. 37-bis del Dpr 600/1973, ha riconosciuto la possibilità di ricorrere all’accertamento analitico-induttivo, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lettera d), del Dpr 600/1973, e all’interposizione, disciplinata nell’art.37, terzo comma, del Dpr 600/1973, al fine di contrastare i predetti comportamenti elusivi.
La circolare n. 53/1999 ha precisato che lo strumento può essere utilizzato da società controllanti o collegate, con sede nei territori del Centro-Nord, che cedono merci o beni immateriali alle controllate o consociate aventi sede nel Mezzogiorno ad un prezzo inferiore al valore normale così come definito dall’art. 9 del D.P.R. 917/86.
Tale manovra consente di realizzare una contrazione dell’utile per l’impresa settentrionale con reddito assoggettato alle aliquote ordinarie e di “gonfiare” l’utile dell’impresa meridionale che gode delle agevolazioni fiscali stabilite dall’art. 26 del D.P.R. n. 601/73.
In effetti, attraverso la manovra della “sottofatturazione”, l’alienante trasferisce quote utili all’acquirente ma resta titolare effettivo del reddito in qualità di controllante o collegata e, in sede di distribuzione di dividendi, può attribuirsi dette quote, non tassate.
Nell’ipotesi che il ricorso alle suddette norme risultasse di difficile praticabilità, occorrerà valutare la possibilità di suggerire proposte normative finalizzate a prevedere l’estensione dell’applicazione del citato art. 110, c. 7, T.U.I.R. anche alle società residenti.
Potrebbe risultare più agevolmente perseguibile la riconduzione degli “sconti” praticati fra i ricavi, ossia costruire la fattispecie come negozio misto di vendita (per la parte coperta da corrispettivo) e donazione (dunque elargizione gratuita), con la possibilità di ripresa a tassazione della differenza.
Appare opportuno ricordare che l’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 305/E del 17.9.2002, nel rispondere ad una specifica istanza di interpello con la quale si chiedeva di sapere se la costituzione di una società di capitali, la cui attività consista nello svolgimento di prestazioni accessorie all’attività professionale sia configurabile o meno come una ipotesi di interposizione fittizia, ha evidenziato che “occorre avere riguardo alle specifiche modalità organizzative che verranno adottate ed in particolare ai rapporti contrattuali che verrebbero configurati tra professionista e società di servizi e tra questa e i terzi (clienti, fornitori, dipendenti)”, risultando
“evidente, infatti, che l’ipotesi di interposizione fittizia non può escludersi nel caso in cui le due sfere di attività non risultino definite con chiarezza sotto il profilo organizzativo ed operativo-contabile”.
L’unica ragione economica data dalla ristrutturazione organizzativa, che determinerebbe la convenienza fiscale all’operazione,
“in assenza di altri elementi attinenti ai profili organizzativi di svolgimento dell’attività societaria, induce a ritenere che l’operazione non assume i contorni di una semplice programmazione fiscale ma si traduce in un comportamento finalizzato a realizzare un risparmio fiscale non giustificato da una corrispondente realtà economica e, pertanto, la costituzione della società di capitali configura una ipotesi di interposizione fittizia nello svolgimento dell’attività economica della professionista istante”2.
Sempre sui rischi di elusione è intervenuta la Direzione regionale dell’Emilia Romagna, di cui si è già occupata la stampa specializzata3, che ha riportato un estratto del pensiero espresso 4, secondo cui
“in linea teorica, non si esclude che, nel caso di soggetti residenti, l’amministrazione possa, in sede di accertamento, ricorrere al concetto di valore normale per rettificare il reddito imponibile ma, in tal caso, non si può attribuire alla suddetta valutazione rilevanza di presunzione assoluta.
Da quanto sopra, consegue che in relazione alla fattispecie prospettata dal signor XXX non trovi applicazione il disposto del comma 5, dell’art.76 del dpr 917/86, in quanto entrambi i soggetti economici sono residenti nel territorio dello stato.
Sarà, peraltro, cura dell’amministrazione finanziaria controllare, ai sensi del citato art. 39, la correttezza delle scritture contabili anche in relazione alle operazioni intercorse tra il professionista e la Società di servizio e procedere a eventuali rettifiche, qualora ne sussistano i presupposti”.
La dottrina5 non ha mancato di mettere in luce che
“forte del principio generale secondo cui le imposte reddituali sono determinate in base al prezzo effettivo pattuito tra le parti, l’Agenzia regionale esclude, senza mezzi termini, la legittimità di una verifica che metta in discussione la congruità dei costi sostenuti dal professionista istante, in assenza dei requisiti oggettivi e soggettivi cui è subordinato l’impiego del valore corrente, in deroga a tale principio…
Secondo tale impostazione, il valore corrente della transazione conclusa tra contraenti entrambi residenti e comunque legati da rapporti di cointeressenza, rappresenta, dunque, un mero parametro per controllare l’esistenza di eventuali artificiose manovre sui corrispettivi contabilizzati, indubbiamente riscontrabili qualora: sussista, in concreto, un’ingiustificata e abnorme sproporzione rispetto ai prezzi comunemente praticati all’epoca dei fatti, nel luogo geografico in cui operano detti contraenti, per beni o servizi similari a quelli scambiati ( cfr. Cass., Sez.Trib., 24/7/2002, n.10802); almeno uno dei soggetti coinvolti nell’operazione usufruisca di regimi fiscali da favore ( cfr. CM 26/2/1999, n.53/E)”.
“L’intento elusivo perseguito dal contribuente può essere individuato: in una serie di atti la cui sequenza appaia anomala in relazione al risultato economico cui essi sono stati preordinati, o caratterizzata dall’assenza di una qualsiasi plausibile ragione non fiscale della loro concatenazione; dalla sussistenza di un’interdipendenza funzionale tra le singole operazioni che, apparentemente autonome e casuali nella loro successione, perseguono nella sostanza uno scopo unitario6”.
Il documento di prassi del 2002 è stato criticato da una parte della dottrina7, secondo cui nell’ipotesi della costituzione della solita società di servizi di appoggio al commercialista
“il discorso delle valide ragioni economiche (tipico della materia elusiva) nel caso dell’interposizione fittizia (vale a dire nel caso della creazione di un soggetto intermedio e fittizio tra la fonte del reddito e il contribuente reale) deve avere una taratura assai resistente per non cozzare contro il rilievo che l’organizzazione della propria attività professionale/imprenditoriale, anche sotto il profilo della sua programmazione fiscale, non può non avere margini di libertà ampi.
Altrimenti si potrebbe verificare una situazione di non conformità alle norme costituzionali e comunque alle regole che garantiscono la libera esplicazione dell’autonomia privata, specie sotto il profilo della libertà d’intrapresa economica”.
Altra dottrina di rilievo8, “sebbene sia vero che eseguire alcune attività diverse da quelle intellettuali protette a una società anziché svolgerle nell’ambito dell’attività professionale potrebbe avere una convenienza fiscale … ritiene sia scorretto asserire che ciò comporta la divisione del reddito prodotto.
Infatti in tale eventualità il reddito è prodotto usufruendo di una delle forme giuridiche previste dal codice civile per poter svolgere una delle attività economiche indicate dall’art.2195 del codice civile nell’ottica di una sana pianificazione fiscale che porta a preferire, tra quelle disponibili, la veste giuridica più conveniente dal punto di vista fiscale.
Difendere la risoluzione n.305/02 significa dichiarare che tutti coloro che svolgono più di un’attività non possono svolgerne alcune in comune attraverso la costituzione di società se da ciò emerge un vantaggio fiscale o un frazionamento del reddito”.
La risoluzione diramata dalla Entrate, a nostro avviso, va difesa perchè legittima, coerente, e in linea con la normativa vigente, dal momento che, al di là della possibile costituzione a latere del professionista di una società di servizi, occorre rifarsi ai principi fiscali e civili, cioè la prestazione va fatturata dal soggetto che realmente ha effettuato il servizio.
Il problema, a nostro avviso, sta tutto lì: il rischio di commistione fra attiva societaria e attività professionale.
Di tutto ciò non si ha traccia nell’istanza; anzi, la parte, in maniera quasi candida, ammette che l’unico motivo per cui si sta mettendo in piedi questa struttura societaria è la “ convenienza fiscale”.
La stessa dottrina che si è espressa criticamente9 nei confronti del pensiero dell’Agenzia riconosce che la risoluzione
“va letta in controluce, in quanto le conclusioni formulate sono state determinate dal tenore del quesito … e la risoluzione ammette che, ove vi siano rapporti contrattuali ben definiti (tra il professionista e la società e tra costo e i clienti) e vi siano una struttura organizzativa ( si pensi alla distribuzione dei locali e all’articolazione del personale) e patrimoniale ( per esempio, la coerente ripartizione dei cespiti tra l’una e l’altra struttura) ben individuate e specifiche, viene meno il sospetto che la società sia creata a fini meramente fiscali”.
29 maggio 2014
Gianfranco Antico
NOTE
1 Cfr. MICHELI, Transfer pricing interno: traslazione del reddito tra tipi diversi di società, in“il fisco”, n. 13/2000, pag. 3561.
2 Per un suo articolato commento si rinvia a CARPENTIERI, La risposta troppo stringata lascia quesiti insoluti, in “Guida normativa”, del 25.9.2002, pag. 22.
3 Cfr. “ItaliaOggi”, del 15.4.2003.
4 Per un suo commento si rinvia a ROMANO- SCALABRINI, Società di servizi, ok alle deduzioni, in “Italia Oggi”, del 15.4.2003.
5 Cfr. ROMANO-SCALABRINI, Società di servizi, ok alle deduzioni, in “Italia Oggi” del 15.4.2003.
6 Cfr. CARRIROLO, Elusione e norme antielusione: novità, schemi e ipotesi, “il fisco” n. 30/ 2004, fasc. n. 1, pag. 4695.
7 Cfr. BUSANI, Srl di servizi, rischio elusione, in “Il Sole 24 ore”, edizione del 18.9.2002, pag. 29.
8 Cfr. CARPENTIERI, La risposta troppo stringata lascia quesiti insoluti, in “Guida normativa” del 25.9.2002, pag. 22.
9 Cfr. BUSANI, Srl di servizi, rischio elusione, “Il Sole 24 ore”, edizione del 18.9.2002, pag. 29.