L’IVA recuperata in sede di accertamento, che non può essere addebitata in rivalsa, finisce quindi con l’essere un’imposta a carico del contribuente e in quanto tale deducibile dal reddito di impresa.
IVA da accertamenti deducibile dalle imposte
La Corte di Cassazione ha sancito che deve ritenersi deducibile dal reddito di impresa l’IVA recuperata a tassazione, in quanto l’art. 99 comma 1 del TUIR stabilisce che le imposte per le quali non è prevista la rivalsa sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento. Tale è il caso dell’IVA recuperata in sede di accertamento, che non può essere addebitata in rivalsa e finisce quindi con l’essere un’imposta a carico del contribuente e in quanto tale deducibile dal reddito di impresa.
Tale pronuncia è importante in quanto relativa ad un anno, il 2011, in cui non era ancora in vigore l’art. 60 del DPR 633/72, come modificato dal D.L. n. 1/2012.
Prima di tali modifiche, la norma prevedeva l’impossibilità di rivalersi nei confronti di cessionari o committenti dell’imposta pagata a seguito di accertamento.
Il divieto di rivalsa IVA
Tra l’altro, la terminologia usata dal legislatore permetteva un escamotage: poiché infatti il divieto operava, appunto, solo a seguito di accertamento, prima che tale atto venisse emesso era consentito – almeno in linea di principio – esercitare la rivalsa, anche emettendo la fattura tardivamente rispetto al momento di effettuazione dell’operazione, o integrandola (in aumento), ex art. 26.
La fatturazione tardiva si riteneva consentita anche se fosse intervenuta una verifica fiscale in cui si constatava proprio l’omessa fatturazione.
La ratio del divieto veniva ricondotta, oltre a motivi para-sanzionatori, anche a esigenze pratiche, legate alla inopportunità della riapertura, anche dopo lungo tempo, dei rapporti contrattuali interessati.
Tale norma, tuttavia, contrastando con il diritto comunitario del divieto di rivalsa a seguito di accertamento, era stata censurata dalla Commissione Europea nella procedura di infrazione 2011/4081, ed a seguito di ciò il legislatore italiano ha, come sappiamo, modificato il tiro.
Oggi la norma prevede, al comma 7, che:
“Il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi.
In tal caso, il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione”.
Non trattandosi di norma retroattiva, nel 2011 non era possibile rivalersi dell’Iva in questione, sicchè era assolutamente legittima la sua deduzione, ai fini Ires ed Irap.
Da una lettura superficiale, si potrebbe pensare che il problema della indetraibilità dell’IVA sia stato risolto.
Ma, a ben vedere, vi sono ancora casi in cui l’IVA accertata non possa materialmente essere oggetto di rivalsa, semplicemente perché manca il soggetto su cui effettuarla.
È evidente che ci stiamo riferendo ad accertamenti presuntivi o analitico-induttivi, perché essi non fanno riferimento a specifici clienti, ma alla massa indistinta ed indeterminata.
In questo caso, quindi, il contribuente accertato potrà legittimamente portare in deduzione l’IVA pagata a seguito di tale tipo di accertamento.
Fonte: Corte di Cassazione, Sentenza n. 7112/2022.
A cura di Danilo Sciuto
Giovedì 10 marzo 2022