In questo articolo analizziamo le differenze nella cancellazione di società di persone e società di capitali, quali sono le responsabilità dei soci dopo l'estinzione ed il particolare regime di favore per il creditore Fisco. L'articolo segnala le principali massime della giurisprudenza sul tema.
L’intervento della Corte Costituzionale, in più di una circostanza, ha consentito di superare i dubbi interpretativi avanzati dalle corti di merito e corroborati dalla dottrina, in tema di cancellazione delle società dal Registro delle imprese e responsabilità verso i creditori, nonchè circa l’asserita ingiustificata disparità di trattamento tra i crediti di diritto comune e quelli di natura tributaria.
La cancellazione della società dal Registro delle imprese
L’art. 2495, commi 1 e 2, c.c., rubricato “Cancellazione della società”, dispone che i liquidatori, una volta che sia intervenuta l’approvazione del bilancio di liquidazione, devono chiedere la cancellazione della società dal Registro delle imprese, presso la Camera di commercio competente, a meno che, nei 90 giorni successivi all'iscrizione dell'avvenuto deposito (Trattasi del deposito, ai sensi dell’art. 2492 c.c., del bilancio di liquidazione, sottoscritto dai liquidatori, e accompagnato dalla relazione dei sindaci e da quella del soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti), anche un solo socio proponga reclamo davanti al tribunale in contraddittorio dei liquidatori. Quindi, trascorsi 5 giorni dal predetto termine di 90 giorni, il conservatore del Registro delle imprese iscrive la cancellazione della società, qualora non riceva notizia della presentazione di reclami da parte del cancelliere.
Cancellazione della società di capitali dal registro imprese
L’art. 2495 c.c., comma 3, dispone che i creditori sociali delle società di capitali, qualora siano rimasti insoddisfatti nella riscossione dei relativi crediti, possono far valere i loro diritti nei confronti:
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dei soci, i quali sono responsabili dei debiti sociali limitatamente alla quota corrispondente alle eventuali somme di denaro loro attribuite a causa della liquidazione della società;
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dei liquidatori, se il mancato pagamento dei loro crediti sia da attribuire a questi ultimi.
Si tratta di una responsabilità extracontrattuale (aquiliana), per lesione del diritto di credito del terzo. In quanto si tratta di responsabilità aquiliana, l’azione di responsabilità avanzata verso il liquidatore è soggetta a prescrizione quinquennale, che decorre dalla data d’iscrizione della cancellazione della società dal Registro delle imprese.
Al principio enunciato della Corte di Cassazione (sentenza del 16 novembre 1996, n. 10065), secondo il quale la cancellazione della società, sia essa personale che di capitali, dal Registro delle imprese non comporta l’estinzione della stessa società, qualora vi siano dei rapporti giuridici pendenti, ovvero che l’estinzione della società diventa effettiva soltanto quando vi è una corrispondenza tra il provvedimento formale di cancellazione della società e l’esaurimento di tutti i rapporti giuridici derivanti dall’attività da essa svolta o a questa connessa, si è fatto largo un nuovo orientamento giurisprudenziale.
Quest’ultimo ha fatto capolino a seguito della sentenza della Corte Costituzionale del 21 luglio 2000, n. 319, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, dell’allora legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, ora sostituito, in linea con il precetto della Corte delle leggi, dall’art. 33, del D.Lgs. 19 gennaio 2019, n. 14), nella parte in cui non è previsto che il termine di un anno dalla cessazione dell’attività per la dichiarazione di liquidazione giudiziale della società decorra dalla cancellazione della stessa società dal Registro delle imprese.
Sull’argomento, si annota un brano della predetta sentenza:
“(Omissis). Il termine annuale, previsto da tale norma, oltre il quale non può darsi declaratoria difallimento, nel caso di impresa collettiva decorre – appunto secondo il diritto vivente – non già dalla cessazione dell’attività o dallo scioglimento della società medesima, bensì dal compimento della fase liquidatoria, che non coincide con la chiusura formale della liquidazione ma con la liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, sicché questa si considera esistente, e dunque assoggettabile a fallimento, finché rimangono rapporti, attivi o passivi, da definire”.
La Corte delle leggi fa delle stringenti considerazioni:
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se la norma fosse così interpretata, risulterebbe in pratica inapplicabile, in quanto il termine di un anno entro il quale può essere dichiarato il fallimento della società, nonché in estensione quello dei suoi soci illimitatamente responsabili, presenta il dies a quo dal momento in cui, essendo stato risolto ogni rapporto passivo che interessa la stessa società, non si può immaginare la presenza dello stato di insolvenza, che costituisce la motivazione per la dichiarazione di fallimento;
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in tema, va precisato che il legislatore può fissare diversamente, per l’impresa individuale e per quella collettiva, il momento dal quale il fallimento dev’essere dichiarato dopo la cessazione dell’impresa;
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la discrezionalità del legislatore nel fissare il predetto termine trova il limite fissato nel principio di ragionevolezza ex art. 3, della Costituzione, il quale postula che la norma, con la quale viene fissato un termine, non sia stabilita in maniera da annullare completamente la ratio che presiede alla fissazione di quel termine, rendendolo così del tutto inutile.
Da quanto sopra, la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale “dell’art. 10, della legge fallimentare, nell