Non emergono profili di censurabilità della condotta dei verificatori se l’accesso al fine della verifica fiscale è eseguito presso la sede amministrativa del contribuente anziché quella legale.
Lo ha affermato la Quinta Sezione della Suprema Corte nell’ordinanza n. 19344 del 18 luglio 2019.
L’ordinanza n. 19344 del 18/7/2019 della Cassazione
A cura di Gianfranco Antico
A seguito di una verifica fiscale condotta dai militari della Guardia di Finanza, l’Ufficio notificava ad una società a responsabilità limitata un avviso di accertamento, contestando violazioni formali e sostanziali in materia di imposte sui redditi e Iva.
La Commissione provinciale tributaria (a seguito del ricorso del contribuente, che lamentava l’inesistenza giuridica dell’avviso di accertamento per difetto di notifica, l’illegittimità dello stesso per mancata allegazione del PVC e per difetto del contraddittorio, l’infondatezza nel merito dei recuperi operati) accoglieva il ricorso “sulla base della sola pregiudiziale eccezione di illegittimità dell’accesso per difetto di autorizzazione, che, seppure esistente, si riferiva alla sede legale di Rieti e non a quella amministrativa di Fiano Romano, ove era stato effettuato l’accesso”.
Di tutt’altro avviso la Commissione regionale che (a seguito dell’appello dell’Ufficio) riteneva corretto l’operato della Guardia di Finanza che aveva eseguito il proprio accesso non presso i locali abitativi bensì presso il commercialista depositario delle scritture contabili, e nei medesimi luoghi nei quali veniva svolta l’attività, valutando altresì corretta la notifica dell’atto impositivo ed infondate le rimanenti eccezioni.
La pronuncia della Cassazione oggi in esame (accogliendo talune eccezioni del contribuente e rigettandone altre) riveste particolare importanza operativa poiché ci offre la possibilità di “fare il punto” su interessanti questioni tributarie, in primis quella sulla legittimità degli accessi da parte degli operatori del fisco.
A tal riguardo gli Ermellini hanno messo in evidenza a tutti gli operatori che – al di fuori dei casi in cui l’accesso deve essere eseguito in locali adibiti esclusivamente ad uso abitativo – gli articoli 33 del DPR n. 600/1973 e 52 DPR n. 633/1972
“prevedono la possibilità che gli impiegati dell’Amministrazione finanziaria o la Guardia di Finanza possano accedere presso i locali adibiti all’esercizio dell’attività commerciale, agricola, artistica o professionale, ovvero presso i locali adibiti ad uso promiscuo (e, dunque, anche abitativo) dietro la semplice autorizzazione del capo dell’ufficio e del Procuratore della Repubblica, senza l’indicazione di specifici presupposti, ponendosi tali autorizzazioni come meri adempimenti procedimentali, legati alla necessità che la perquisizione sia avallata da un’autorità gerarchicamente o funzionalmente sovraordinata”.
Nel caso di specie, una volta riscontrata l’esistenza dell’autorizzazione all’accesso rilasciata dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate ai militari della Guardia di Finanza “senza distinguere fra sede legale e sede amministrativa, ma indicando, nome, sede legale e partita iva della contribuente destinataria dell’accesso, solo ai fini della sua identificazione (Cass. Ord. 28.03.2018 n. 773)”, la Suprema Corte non ha potuto fare a meno di giudicare legittimo “l’accesso della Guardia di Finanza presso la sede amministrativa e presso il commercialista depositario delle scritture contabili”.
Fatto che (“a cascata”) ha privato di fondamento le censure afferenti alla (presunta) illegittimità derivata dell’avviso di accertamento e alla inutilizzabilità delle prove irritualmente acquisite.
E proprio a tal riguardo i giudici hanno riaffermato che nel nostro ordinamento tributario non esiste un principio