A proposito di motivazione della sentenza

analizziamo i principi che regolano la motivazione delle sentenza tributaria puntando il mouse anche sulla famigerata motivazione per relationem

libraryCon la sentenza n. 18231 del 16 settembre 2016 la Corte di Cassazione torna ad affrontare una questione particolarmente importante in sede contenziosa: la motivazione della sentenza.

 

Il principio affermato

La Corte, dopo aver premesso che:

la sentenza è affetta da vizio di motivazione apparente quando il giudice di merito omette di indicare, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (9113/12; 1756/06; 2067/98)”, ha rilevato che nel caso di specie “la sentenza impugnata si espone inconfutabilmente alla rilevata manchevolezza processuale, avendo la Corte anche di recente ricordato, a riprova del fatto che l’obbligo costituzionale della motivazione non è soddisfatto ove non si estrinsechi in un apprezzamento critico delle ragioni di ciascuna delle parti, che la sentenza motivata “mediante mera adesione acritica all’atto d’impugnazione, senza indicazione né della tesi in esso sostenuta, né delle ragioni di condivisione, è affetta da nullità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., in quanto corredata da motivazione solo apparente” (20648/15).

Invero limitandosi a constatare che le deduzioni difensive dell’appellante “sono le stesse con le quali aveva sostenuto l’avviso di accertamento” e condividendo “le concise argomentazioni giuridiche” fatte proprie dai giudici di prime cure, senza provvedere al minimo esame delle prime e senza riprodurre il contenuto delle seconde, in tal modo astenendosi da ogni vaglio critico delle une e delle altre, la CTR ha mostrato di ignorare il doveroso compito motivazionale sotteso all’ufficio decisionale assunto nella specie, assolvendo il relativo obbligo solo in modo apparente”.

Né, ricorrono i presupposti per riconoscere che:

la CTR abbia legittimamente motivato la propria decisione per relationem, poiché, atteso che secondo il consolidato dictum di questa Corte la motivazione per relationem della sentenza pronunciata in sede di gravame, è legittima a condizione che il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto (11138/11; 18625/10; 15843/08)”.

Nel caso di specie:

la sentenza impugnata non si sottrae alla doverosa cassazione, dal momento che la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione alle argomentazioni dei primi giudici e senza alcuna ricognizione delle ragioni di impugnazione dispiegate dall’appellante, non consente in alcun modo di ritenere che all’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame”.

 

Il quadro giurisprudenziale

La sentenza che si annota si inserisce in quel filone giurisprudenziale che prende di fatto le mosse dai principi espressi a SS.UU., con la sentenza n. 14814 del 19 febbraio 2008 (dep. il 4 giugno 2008)1, dove era stato affermato che la motivazione di una sentenza può essere redatta per relationem ad altra sentenza, purché la motivazione stessa non si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento, occorrendo la riproduzione dei contenuti mutuati, e che questi diventino oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa (anche se connessa) causa sub iudice, in maniera tale da consentire anche la verifica della compatibilità logico-giuridica dell’innesto.

Per le Sezioni Unite, la mancanza di una autonoma ed esauriente motivazione, non consente il controllo di legittimità sull’operato del giudice (criteri di valutazione degli elementi probatori adottati, regole ermeneutiche applicate, logica della decisione) che è l’unico possibile controllo sul corretto esercizio della giurisdizione in uno Stato di diritto.

D’altra parte, non si può richiedere il rispetto del principio dell’autosufficienza delle impugnazioni se la sentenza impugnata non è, a sua volta, autosufficiente.

La Corte, quindi, conferma l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, secondo il quale quando la motivazione di una sentenza si limiti a rinviare ad altra motivazione, in maniera che non sia possibile individuare le ragioni che stanno a fondamento del dispositivo, la sentenza è nulla.

La motivazione deve essere “autosufficiente“, nel senso che dalla lettura della stessa deve essere possibile rendersi conto delle ragioni di fatto e di diritto che stanno a base della decisione.

La motivazione di una sentenza può essere redatta per relationem rispetto ad altra sentenza, purché la motivazione stessa non si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento: occorre che vengano riprodotti i contenuti mutuati, e che questi diventino oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa (anche se connessa) causa sub iudice, in maniera da consentire poi anche la verifica della compatibilità logico-giuridica dell’innesto.

Infine, sul piano sistematico, la tesi che la ratio decidendi si debba sempre poter ricavare, in maniera espressa ed autosufficiente, dalla motivazione della sentenza trova un preciso riscontro legislativo nell’art. 12, c. 7, della L. n. 212/2000.

E “sarebbe assurdo ipotizzare che la chiarezza ed esaustività che si pretendono in sede amministrativa, vengano meno nella sede giudiziaria, nella quale le garanzie del contraddittorio e della difesa (che la norma citata intende garantire fin dalla fase delle procedure amministrative di accertamento) sono tutelati con norme costituzionali”.

Ancora di recente, sempre la Cassazione, a SS.UU., con la sentenza n.642 del 16 gennaio 2015, ha ritenuto che nel processo tributario non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di un atto di parte, sempre che le ragioni del giudicante, sulle quali la decisione è fondata, risultino in maniera chiara, univoca ed esaustiva.

Nel contenzioso civile, in cui di regola si contrappongono due parti o più parti, il compito del giudice è, come già rilevato, quello di decidere la controversia accogliendo – e rispettivamente rigettando -, totalmente o parzialmente, le pretese di una parte rispetto all’altra e ciò (a meno che non emerga la necessità di una diversa ricostruzione giuridica e fattuale della vicenda) per le ragioni dalla medesima espresse nei propri atti.

D’altro canto, lo scopo di una difesa professionale e della presentazione di scritti difensivi è proprio quello di convincere il giudice delle proprie buone ragioni.

E quando ciò dovesse accadere, cioè quando il giudice, adempiendo il proprio dovere di decidere la controversia, accogliesse l’istanza che ritiene meritevole di tutela (solo o anche) alla stregua delle ragioni esposte dalla parte nei propri scritti difensivi, ove queste ragioni risultassero espresse in modo chiaro ed esaustivo, sarebbe ipocrita chiedere al medesimo giudice di esporre nuovamente con diverse parole le medesime motivazioni che lo hanno convinto a stabilire una determinata regolamentazione degli interessi in conflitto, risultando invece più ragionevole e più ‘trasparente’, nonché in perfetta linea con un processo giusto, di durata contenuta ed ispirato al principio di effettività, riportare nella motivazione i passi dell’atto di parte condivisi e fatti propri dal giudice, piuttosto che parafrasarli in nome di una ‘originalità’ espositiva priva di qualsivoglia fondamento logico o giuridico.

In ogni caso non potrebbe sicuramente ravvisarsi un sintomo di parzialità del giudice nel fatto che egli abbia motivato la decisione riportando in sentenza il contenuto di un atto di parte, giacché l’imparzialità è – alla stregua delle disposizioni del codice di rito e della Costituzione siccome interpretate dalla Corte costituzionale – ben altro che non una sorta di ‘pudore’ formale postumo, e comunque non basterebbe certo un mutamento di registro stilistico a garantirla”.

Sulla questione annotiamo ulteriori ed interessanti pronunce, per fornire al Lettore un preciso quadro di riferimento giurisprudenziale.

  • Con l’ordinanza n. 10490 del 30 aprile 2010 (ud. del 17 febbraio 2010) la Corte di Cassazione ha ritenuto che la decisione pronunciata in appello non incorre nel vizio di carenza, inesistenza o apparenza di motivazione subordinatamente alla condizione che, attraverso il rinvio al contenuto della sentenza del primo giudizio, il giudice chiarisca (anche sinteticamente) motivi per i quali intende condividere le conclusioni della sentenza gravata garantendo l’esposizione di un iter logico giuridico sufficientemente argomentato, anche per il tramite dell’integrazione delle due decisioni. Risponde, infatti, ad un orientamento consolidato in giurisprudenza di legittimità “che la motivazione per relationem della sentenza pronunziata in sede di gravame è legittima purchè il giudice di appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima sia pur sinteticamente le ragioni della conferma della pronunzia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto; sicchè deve essere cassata la sentenza d’appello quando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che alla affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di impugnazione (v. Cass., 14/2/2003, n. 2196, e, da ultimo, Cass., 11/6/2008, n. 15483)”. Nell’impugnata sentenza, invece, ci si è limitati ad affermare che “Questo giudice, esaminati gli atti, considerata la sentenza emessa dai giudici di prime cure, ampiamente articolata e motivata, in particolare per quanto asserito nella risoluzione n. 29 e 2001 della Direzione Centrale Normativa e Contenzioso, ritiene che la stessa, non meritando censura alcuna, vada confermata emerge evidente come il giudice dell’appello abbia nel caso invero disatteso il suindicato principio”.

  • Con la sentenza n. 9537 del 29 aprile 2011 (ud. del 16 febbraio 2011) la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità della motivazione per relationem della sentenza pronunciata in sede di gravame, purchè il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, così che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto. È consolidato indirizzo di questa Corte (Cass. nn. 890/2006, 1756/2006 e 2067/1998) che “ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza…, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice di merito omette di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento”. E’ pertanto (Cass. nn. 2268/2006, 1539/2003, 6233/2003 e 11677/2002) è “legittima la motivazione ‘per relationem’ della sentenza pronunciata in sede di gravame, purchè il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto. Deve viceversa essere cassata la sentenza d’appello allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che alla affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame”.

  • Con l’ordinanza n. 10490 del 30 aprile 2010 (ud. del 17 febbraio 2010) la Corte di Cassazione ha affermato che risponde ad un orientamento consolidato in giurisprudenza di legittimità “che la motivazione per relationem della sentenza pronunziata in sede di gravame è legittima purchè il giudice di appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima sia pur sinteticamente le ragioni della conferma della pronunzia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto; sicchè deve essere cassata la sentenza d’appello quando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che alla affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di impugnazione (v. Cass., 14/2/2003, n. 2196, e, da ultimo, Cass., 11/6/2008, n. 15483)”.

  • Con la sentenza n. 20032 del 30 settembre 2011 (ud. del 6 luglio 2011) la Suprema Corte ha cassato la sentenza di secondo grado che, nel testo della motivazione, fa riferimento a talune sentenze della Corte, indicando i principi affermati, senza alcun collegamento concreto con le fattispecie in esame. Rileva l’estensore della sentenza che il pronunciamento di secondo grado giustifica la decisione “con affermazioni apodittiche e riferimenti esemplificativi ai processi verbali, senza indicarne i contenuto. Non è dato sapere dalla sentenza chi siano i ‘terzi’, le cui dichiarazioni sono state poste a base degli accertamenti e che possono, secondo la giurisprudenza che sarà esaminata in seguito,costituire legittime fonti di prova”.

  • Con la sentenza n. 26504 del 12 dicembre 2011 (ud. 21 settembre 2011), la Corte di Cassazione ha affermato che “la motivazione per relationem della sentenza di appello è legittima purchè il giudice del gravame, facendo proprie le argomentazione di quello di prima istanza, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, di guisa che il percorso argomentativo, desumibile dal raffronto tra le parti motive di entrambe le sentenze, risulti appagante e corretto, in conformità al modello di sentenza prefigurato dal disposto dell’art. 132 c.p.c., n. 4. Tale correttezza del percorso motivazionale non può, per contro, essere ritenuta da questa Corte laddove il giudice di appello si limiti ad una laconica motivazione, formulata in termini di mera adesione alla motivazione dell’impugnata sentenza. E’ fin troppo evidente, infatti, che in siffatta ipotesi non è in alcun modo possibile inferire che alla condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto sulla base dell’esame dei motivi di gravame, e di una valutazione di infondatezza degli stessi (Cass. 2268/06, 15483/08, 18625/10, 11138/11)”. Nel caso sottoposto alla Suprema Corte, “l’impugnata sentenza ha addirittura letteralmente trascritto la motivazione della decisione di prime cure, come si evince dal riferimento – contenuto in più punti della decisione di appello – ai motivi di ricorso del contribuente ed alle controdeduzioni dell’Ufficio, anzichè ai motivi di appello proposti dall’amministrazione finanziaria. Ed è certamente significativo che la CTR – a p. 2 della decisione, a chiusura della parte narrativa della motivazione – abbia testualmente riportato la seguente affermazione: ‘chiede l’Ufficio che il ricorso venga rigettato perchè infondato’; laddove, rivestendo l’amministrazione finanziaria la qualità di appellante, la stessa non avrebbe logicamente potuto concludere per il rigetto del proprio ricorso in appello. Ma vi è di più. Il dispositivo dell’impugnata sentenza addirittura reca la pronuncia di accoglimento del ricorso della contribuente (‘la Commissione accoglie il ricorso e dichiara compensate le spese’), anzichè quella di rigetto dell’appello proposto dall’amministrazione finanziaria. Sicchè è di palmare evidenza che la CTR, men che motivare per relationem la propria decisione, mediante richiamo a quella emessa in prime cure, si è limitata a riprodurre pedissequamente quest’ultima, senza effettuare esame alcuno dei motivi di appello proposti dall’Agenzia delle Entrate, che – in verità – non risultano neppure menzionati nella sentenza di appello”. L’esame della pronuncia di primo grado, nell’ambito e nei limiti dei motivi di gravame risulta pertanto ristretta, nel caso di specie, alla seguente laconica ed apodittica affermazione: “la decisione della Commissione di primo grado appare logica, conforme a diritto e non deve perciò essere modificata“.

  • Con la sentenza n. 15249 del 12 settembre 2012 (ud. 12 luglio 2012) la Corte di Cassazione ha fissato dei limiti al rinvio in sentenza alla motivazione di altro giudice, secondo il costante insegnamento della Corte Suprema. Nel caso di specie – “a fronte degli specifici e dettagliati motivi di appello, regolarmente trascritti nel ricorso, ai fini della autosufficienza, e mirati a contestare, in maniera del tutto analitica, ciascuno dei rilievi operati dall’Ufficio – l’impugnata sentenza si è limitata ad operare un secco e laconico, nonché apodittico, riferimento alle conclusioni cui è pervenuta la decisione di prime cure, senza premurarsi di specificare le ragioni per le quali tali conclusioni siano da condividere, e senza spendere neppure una parola in ordine alle consistenti censure mosse dalla contribuente alla decisione di primo grado”. La sentenza di appello è, quindi, solo apparentemente motivata, “palesandosi tale decisione del tutto priva dell’indicazione degli elementi da cui l’organo giudicante, nel confermare la decisione di primo grado, ha tratto il proprio convincimento (Cass. 1756/06, 9113/12)”.

  • Con la sentenza n. 3340 del 12 febbraio 2013 la Corte di Cassazione ha affermato che “la motivazione di una sentenza può essere redatta per relationem rispetto ad altra sentenza, purché la motivazione stessa non si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento: occorre che vengano riprodotti i contenuti mutuati, e che questi diventino oggetto di autonoma valutazione critica, in maniera da consentire poi anche la verifica della compatibilità logico-giuridica dell’innesto motivazionale. (Cass., SS.UU., 4.06.2008 n. 14814)”. Pertanto, “ il rinvio per relationem al disposto di altra sentenza è perfettamente legittimo e giustificato da una economia di scritture, ma il Giudice rinviante non può limitarsi ad un generico richiamo, come nel caso di specie, ma deve citarne i contenuti o riportarne i passaggi fondamentali. Nel caso in cui come nella fattispecie, il rinvio venga effettuato con riferimento ad una sentenza di merito, relativa di un altro processo, (quindi non sempre facilmente reperibile a differenza delle sentenze della Cassazione), senza alcuna motivazione al riguardo, ad una sentenza di altra Commissione tributaria con la sola indicazione del numero della sentenza e dell’anno, ma senza la indicazione della sezione (in quanto la numerazione delle sentenze tributane di merito viene operata per ciascuna sezione e non per Commissione) deve ritenersi doppiamente illegittimo, posto che il ricorrente non può essere obbligato alla ricerca di documenti extraprocessuali”.

  • Con la sentenza n. 22697 del 4 ottobre 2013 (ud. 24 aprile 2013) la Corte di Cassazione ha confermato che la sentenza deve contenere l’iter logico motivazionale. Per la Corte, “nella sentenza impugnata ricorre il difetto di motivazione, mostrando essa, nel suo insieme un’obiettiva deficienza del criterio logico che ha condotto il giudice d’appello alla formazione del proprio convincimento (Cass. n. 2109/99; 10396/98; 914/96). Nella sentenza impugnata l’esigenza di una congrua e corretta motivazione non è stata soddisfatta, sia per quanto attiene al richiamato e decisivo punto della controversia relativo all’attività d’intermediazione che la contribuente asseriva di svolgere, sia, più in generale, riguardo alla sussistenza dei presupposti dell’accertamento induttivo. Osserva la Corte che la sentenza della C.T.R. “non contiene un’autonoma esposizione dell’iter argomentativo attraverso il quale essa è pervenuta alla statuizione resa, e, in particolare, è da ritenere viziata … quando, in tema di accertamento dell’imponibile, anzichè ancorarsi ad una valutazione fondata su emergenze processuali acquisite ben indicate ed autonomamente apprezzate, si correli ad una generica, e non specificamente giustificata, adesione agli assunti prospettati da una delle parti (Cass. n. 27969/2009 emessa tra le stesse parti)”.

  • Con la sentenza n. 24434 del 30 ottobre 2013 (ud. 17 dicembre 2012) la Corte di Cassazione ha confermato che “è legittima la motivazione della sentenza di secondo grado ‘per relationem’ a quella di primo grado, a condizione che fornisca, comunque, sia pure sinteticamente, una risposta alle censure formulate nell’atto di appello, attraverso un iter argomentativo desumibile dalla integrazione della parte motiva delle due sentenze di merito, in altri termini a condizione e il giudice di appello dimostri in modo adeguato di avere valutato criticamente sia la pronunzia censurata che le censure proposte (cfr. Corte cass. 2, sez. 28.1.2000 n. 985. Massima consolidata: Corte cass. SU 8.6.1998 n. 5712; id. 3 sez. 18.2.2000 n. 181; id. 1 sez. 27.2.2001 n. 2839; id. 5 sez. 12.3.2002 n. 3547; id. 5 sez.3.2.2003 n. 1539)”. Pertanto, solo in tale caso, la motivazione per relationem – “richiamando i punti essenziali della motivazione della sentenza di primo grado e confutando le censure mosse contro di essi con il gravame, attraverso un itinerario argomentativo ricavabile dalla integrazione dei due corpi motivazionali – è in grado di assolvere, in quanto elemento costitutivo della sentenza, ai requisiti minimi di validità del provvedimento giurisdizionale (cfr. Corte cass. 2, sez. 4.3.2002 n. 3066; id. 1 sez. 14.2.2003 n. 2196; id. 3 sez. 2.2.2006 n. 2268)”.

  • Con la sentenza n. 863 del 17 gennaio 2014 (ud. 21 novembre 2013) la Corte di Cassazione ha confermato che la sentenza motivata secondo la tecnica cosiddetta per relationem è “da ritenersi in linea di massima consentita, quando però il giudice d’appello prenda in considerazione i mezzi di gravame ed in ragione degli stessi precisi esattamente la sua adesione agli argomenti adottati dal giudice di prime cure (Cass. sez. 3’ 22910 del 2012; Cass. sez. 2’ n. 8021 del 2012). Mentre, al contrario, la sentenza motivata per relationem deve giudicarsi illegittima se, come avvenuto nella concreta fattispecie pervenuta all’esame, il giudice d’appello ometta ogni riferimento ai ridetti mezzi di gravame e si limiti soltanto ad una generica ed acritica totale adesione alle ragioni della prima decisione e con ciò impedisca di stabilire l’iter logico seguito (Cass. sez. trib. n. 10490 del 2010; Cass. sez. lav. n. 6912 del 2009)”.

  • Con la sentenza n. 19755 del 19 settembre 2014 (ud. 23 giugno 2014) la Corte di Cassazione rileva che la sentenza adottata dal giudice di appello, che dichiara di volersi riportare “alle puntuali, precise, ed esaustive considerazioni fatte dal giudice di primo grado” costituisce “un esempio scolastico di motivazione per relationem, che com’è noto, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, non è drasticamente inibita al giudice di secondo grado a condizione però che, ‘facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto’ (10943/14; 21566/13; 766/13)”. Per la Suprema Corte, “la legittimità della motivazione per relationem mediante rinvio alle ragioni di diritto rinvenibili nel corpo motivazionale di un distinto atto espressamente richiamato nella sentenza, che può essere rappresentato tanto dalla decisione di prime cure nel caso in cui alla motivazione per relationem ricorra la sentenza di appello quanto più in generale dagli atti del procedimento (verbale istruttorio, consulenza dell’ausiliario, documenti del giudizio) (Cass. 12664/12), che divengono in quanto tali ‘parte integrante dell’atto rinviante’ (Cass. 3367/11), è perciò soggetta alla condizione che ‘il rinvio venga operato in modo tale da rendere possibile ed agevole il controllo della motivazione, essendo necessario che si dia conto delle argomentazioni delle parti e dell’identità di tali argomentazioni con quelle esaminate nella pronuncia oggetto del rinvio (Cass. 7347/12) e che dall’integrazioni tra i due corpi motivazionali risulti l’esplicitazione dell’itinerario argomentativo … che deve dare conto dell’esame critico delle questioni già risolte nell’atto richiamato e della idoneità delle stesse a fornire la soluzione anche alle questioni che devono essere decise (Cass. 12664/13)”. Nel caso di specie, “la CTR, limitandosi a manifestare la propria condivisione della sentenza di primo grado e dichiarando di volersi uniformare ad essa, si è invece astenuta dall’assolvere doverosamente all’obbligo di motivazione impostole dal gravame, in particolare omettendo la considerazione delle ragioni difensive fatte valere dall’impugnante, che, pur se lacunosamente riportate in fatto, non sono state tuttavia fatte oggetto di una compiuta disamina e tanto meno hanno formato oggetto di un giudizio critico. E ciò perchè, con più diretto riferimento al motivo di censura, è mancato qualsivoglia richiamo alle ragioni che avevano indotto il primo giudice a respingere il ricorso, non potendo perciò giudicarsi ‘appagante e corretto’ sotto il profilo motivazionale il percorso argomentativo che, come nella sentenza qui gravata, non faccia seguire all’affermazione che la ‘Commissione Tributaria Regionale di Milano si riporta alle puntali, precise ed esaustive considerazioni fatte dal Giudice di primo grado che fa proprie’, l’esposizione anche in forma sintetica delle ragioni ‘puntuali, precise ed esaustive’ addotte dal primo giudice per motivare il proprio rigetto”.

  • Con l’ordinanza n. 242 del 12 gennaio 2015 (ud. 20 novembre 2014) la Corte di Cassazione ha confermato che in tema di processo tributario, è nulla, per violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 36 e 61, nonchè dell’art. 118 disp. att. c.p.c., la sentenza della commissione tributaria regionale completamente carente dell’illustrazione delle critiche mosse dall’appellante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle e che si sia limitata a motivare per relationem, alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, atteso che, in tal modo, resta impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo e non può ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l’esame e la valutazione dell’infondatezza dei motivi di gravame” (tra le più recenti, vedi Cass., ord. 16 dicembre 2013, n. 28113). Nel caso di specie, attraverso la trascrizione delle sentenze di primo grado si é preso atto della pressochè completa coincidenza del testo delle sentenze d’appello nonchè, mediante trascrizione dei punti rilevanti degli atti di appello, della proposizione di censure avverso le sentenze di primo grado del tutto trascurate da quelle di secondo grado.

  • Con la sentenza n. 4138 del 2 marzo 2016 (ud. 27 aprile 2015) la Corte di Cassazione ha confermato che “deve considerarsi nulla, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 36 e 61, art. 118 disp. att. c.p.c., nonchè art. 111 Cost., la sentenza della Commissione Tributaria Regionale completamente carente dell’illustrazione delle critiche mosse dall’appellante alla statuizione di primo grado, nonché delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle, e che si sia limitata a motivare ‘per relationem’ alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa. E’ di tutta evidenza, infatti, che, in tal modo, resta impossibile l’individuazione del ‘thema decidendum’ e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo, e non può ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l’esame e la valutazione dell’infondatezza dei motivi di gravame proposti (tra le tante, Cass. 3367/2011; 7347/2012; 28113/2013; 13148/2014)”.

 

16 gennaio 2017

Gianfranco Antico

 

NOTE

1 Pur se anche antecedentemente si registrano diverse pronunce: con la sentenza n. 15833/2006 la Cassazione ha ritenuto non sufficientemente motivata una sentenza che si limiti a richiamare altre sentenze di organi giudicanti senza riferirne neppure succintamente le argomentazioni.

Nello specifico, il vizio di motivazione della sentenza “è invece fondato per quanto di ragione, in quanto non può essere ritenuta sufficientemente motivata una sentenza che richiami per relationem sentenze della Commissione tributaria provinciale di Roma già prodotte nel giudizio di primo grado senza riportarne, neppure succintamente le argomentazioni”; con la sentenza n. 1248 del 21 dicembre 2005 (dep. il 23 gennaio 2006) la Corte di Cassazione ha affermato che non è in sé nulla la sentenza motivata per relationem al contenuto di altra sentenza pronunciata contestualmente.

È pertanto onere del ricorrente che la impugni dedurre che le circostanze di fatto e di diritto, su cui si fondano le due sentenze, non sono identiche e che, di conseguenza, il rinvio alla motivazione di altra sentenza è insufficiente; sempre la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 19110 del 16 giugno 2005 (dep. il 29 settembre 2005), aveva già statuito che la decisione della controversia relativa al reddito conseguito dai soci può dipendere, pregiudizialmente, dalla decisione della controversia promossa dalla società.

Pertanto, il giudice della controversia relativa al socio può motivare mediante il richiamo alla sentenza relativa al reddito prodotto dalla società; deve però indicare gli estremi della sentenza cui rinvia nonché dare atto se essa è passata in giudicato (e, in caso contrario, sospendere il processo). Qualora manchino queste indicazioni la sentenza motivata per relationem è nulla (rectius, inesistente).