I presupposti per procedere ad accertamento per antieconomicità della gestione

è fatto noto che l’antieconomicità della gestione dell’azienda viene spesso individuata come un evidente sintomo di sottofatturazione per nascondere redditi: quali sono i presupposti che permettono al Fisco di utilizzare l’antieconomicità come criterio base per l’accertamento?

urlo-di-munchLa Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con la sentenza n. 2179/9/15 del 14.12.2015, ha affermato importanti principi su alcuni temi di interesse, tra cui (ma non solo) i presupposti di contestazione di un’operazione commerciale per supposta antieconomicità.

Nel caso di specie la società contribuente aveva impugnato dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Firenze l’avviso con cui l’Agenzia delle Entrate aveva rettificato il reddito per l’anno 2006, sostenendo l’antieconomicità dell’operazione compiuta dalla contribuente.

Secondo il ricorrente, però, tale accertamento era basato solo su semplici presunzioni, come anche dimostrato da una perizia tecnica, volta a dimostrare l’esistenza di valide ragioni economiche alla base dell’operazione contestata.

La Commissione Tributaria Provinciale di Firenze accoglieva il ricorso.

Su appello dell’Ufficio, i giudici di secondo grado, dapprima respingevano l’eccezione di nullità dell’avviso di accertamento per invalidità della sottoscrizione dell’atto in quanto avvenuta da parte di “funzionario dell’amministrazione finanziaria privo dei necessari poteri di firma“, dato che, oltre ad essere stata sollevata per la prima volta in grado di appello, quando erano già scaduti i termini per l’impugnazione, l’eccezione si palesava comunque chiaramente infondata, essendo corretta la distinzione compiuta dall’Agenzia delle Entrate fra il conferimento a un funzionario di un incarico dirigenziale, che può essere travolto dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale e la delega di firma, che avviene in base ad atto del Dirigente dello specifico settore dell’Amministrazione e non ha niente a che vedere con la ripartizione organica di uffici, funzioni e competenze.

Nel merito, invece, la Commissione riteneva di dover condividere l’assunto del Giudice di primo grado riguardo alla inaccoglibilità della presunzione dell’Ufficio circa la antieconomicità dell’operazione immobiliare, non essendo sufficiente asserire che un’operazione di un imprenditore presenta aspetti che rendono problematico il comprenderne l’utilità in funzione della produzione del reddito, cui per definizione è orientata una società commerciale, occorrendo invece una valutazione più ampia, anche in senso temporale, dell’attività della società, e “fermo restando che vi è un limite insuperabile nella discrezionalità dell’imprenditore che, come tale, non può essere valicato nemmeno a fini fiscali”.

Secondo la Commissione, quindi, anche se si poteva in effetti esprimere qualche dubbio sulla validità dell’operazione in termini, puramente, di convenienza economica, tuttavia si sarebbe anche dovuto, da parte dell’Ufficio, verificare che l’operazione stessa non avesse una qualche giustificazione nell’assetto generale degli interessi della società contribuente”.

Né valeva, in senso contrario, l’osservazione dell’Ufficio riguardante l’adesione del contribuente ad un rilievo analogo attinente alla determinazione del reddito imponibile dell’esercizio 2007.

A parte infatti che il rilievo non era l’unico effettuato per quell’anno di imposta dall’Ufficio e che dunque le ragioni dell’adesione non potevano essere collegate unicamente alla questione in esame, la tesi dell’Ufficio finirebbe, in linea generale, per sconsigliare i contribuenti dal procedere all’estinzione con modalità concordate delle controversie tributarie.

Del resto, con la sentenza n. 23776 del 20.11.2015, la Corte di Cassazione ha recentemente deciso in merito ad una fattispecie relativa ad un’adesione non sottoscritta e non perfezionata, come appunto anche nel caso di specie.

La Corte ha dunque chiarito un “equivoco” in cui, a volte, cadono le Commissioni di merito, le quali interpretano in maniera errata la valenza giuridica del contraddittorio d’adesione non andato a buon fine, ritenendo che, comunque, il fatto che una delle parti (Ufficio o contribuente che sia) conceda qualcosa rispetto all’originaria pretesa, confermi che lei stessa non era in realtà “convinta” della pretesa.

Tale conclusione è però giuridicamente infondata.

La procedura di adesione infatti è una forma di transazione tesa a deflazionare il contenzioso. E soprattutto attiene ad una fase meramente amministrativa, la cui finalità, non solo è del tutto avulsa dal successivo ed eventuale contenzioso, ma è addirittura contraria alla ratio del medesimo contenzioso.

È infatti chiaro che, mentre nella prima fase lo scopo è raggiungere un accordo (laddove questo sia possibile), nella seconda fase (a parte l’ulteriore possibilità di conciliazione) il fine è far dichiarare la vittoria di una delle due contrapposte tesi in giudizio.

Eventuali proposte non andate poi a buon fine giammai potrebbero influire sulla decisione del giudice, il quale, come noto, quando chiamato a ius dicere, deve decidere esclusivamente in base alla legge e nei limiti del petitum e della causa petendi.

Infine, nel merito, i giudici di secondo grado, ritenevano comunque ragionevole la tesi della società contribuente, la quale aveva ritenuto di fare un buon affare, mettendosi in condizione di acquistare l’immobile in questione per un prezzo che sembrava inferiore a quello di mercato, il che poteva ben consentire di sopportare il costo di un comodato gratuito concesso a terzi per un periodo predeterminato.

E’ noto, dunque, che l’antieconomicità della gestione dell’azienda viene spesso individuata come un evidente sintomo di sottofatturazione.

Vero è che la rivendita di beni sottocosto o la contrazione del reddito mediante l’imputazione di costi eccessivi rispetto all’ordinaria attività di impresa, quando effettuata scientemente, comporta la possibilità per l’Ufficio di rideterminare induttivamente il reddito da sottoporre a tassazione.

Le scelte imprenditoriali, infatti, come ormai costantemente affermato dalla Corte Suprema, non sono assolutamente insindacabili, in particolare quando la concatenazione degli atti configura chiaramente un’operazione ex se antieconomica.

A tal proposito giova richiamare quanto affermato dalla Corte di Cassazione (Cass., Sez. Tributaria, n. 6337/2002), secondo la quale, “anche in presenza di scritture contabili formalmente corrette, è possibile il ricorso ad un accertamento analitico-induttivo, qualora la contabilità stessa sia complessivamente inattendibile in quanto configgente con i criteri di ragionevolezza”.

L’imprenditore, afferma ancora la Suprema Corte, è libero di concludere buoni o cattivi affari, ma dei limiti, come appunto quello dell’economicità delle operazioni, devono comunque essere individuati.

Se è vero infatti che le scelte economiche dell’imprenditore sono normalmente insindacabili, tuttavia il Fisco non è tenuto a credere che un imprenditore agisca in modo antieconomico e quando si scopre un comportamento antieconomico, è lecito quanto meno dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate, “con la conseguenza che l’Ufficio può presumere maggiori ricavi o minori costi e l’onere della prova si sposta sulla parte privata” (v. anche Cass. 18.10.2000 n.1821; Cass. 27.09.2000, n. 12813; Cass. n. 11645/2001).

Pertanto, in presenza di un comportamento che sfugga a questo parametro di “buon senso”, è legittimo il fondato sospetto che l’incongruenza sia soltanto apparente e che dietro di essa si celi una diversa realtà.

In particolare tale incongruenza potrà essere, per esempio, rilevata laddove una società, invece di ottenere un margine di guadagno, risulti vendere sottocosto, conseguendo ricavi addirittura inferiori al costo sostenuto ed arrivando a praticare vere e proprie “svendite”, con comportamento chiaramente in contrasto con i criteri di ragionevolezza ed economicità a cui si informa (rectius: si dovrebbe informare) ogni attività commerciale, il cui scopo tipico, come noto, è lo scopo di lucro.

La posizione dell’Ufficio, però, come anche evidenziato dalla sentenza in commento, non deve rappresentare un’astratta posizione di principio, ma deve fondarsi su un riscontro effettivo, operato sulla base di gravi e precise incongruenze, verificate in sede di accertamento e non chiarite dal contribuente, quali, per esempio:

– la produzione costante di perdite consistenti in un arco temporale rappresentativo;

– il costante versamento, da parte dei soci, di finanziamenti infruttiferi con rinuncia alla restituzione;

– la mancata percezione da parte dei soci di somme dalla società, né sotto forma di utili, né di compensi amministratori, o stipendi;

– la mancanza di valide spiegazioni.

A fronte di tali gravi incongruenze, magari perduranti nel tempo, l’Ufficio potrebbe certo dubitare (legittimamente) della veridicità delle risultanze delle scritture contabili, seppur regolarmente tenute (v. Cass. 18038 del 9/9/2005 22698 del 9/9/2008) e procedere all’accertamento, ai sensi degli artt. 39 co. 1 lett. d) del DPR 600/73 e 54 c. 2 del DPR 633/72.

Del resto, secondo quanto già riconosciuto dalla Corte di Cassazione, l’Amministrazione Finanziaria può ricorrere alla determinazione induttiva del reddito imponibile, anche fuori dai casi previsti dall’art. 39, D.P.R n. 600/1973, laddove sia riscontrabile una grave ed ingiustificabile incongruenza fra i componenti positivi dichiarati e quelli desumibili dall’attività svolta (vedi per tutte sentenza n. 24436 del 02.10.2008).

Ma, anche il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, c. 1, lett. d, dispone che è sì consentito, anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, procedere alla rettifica della dichiarazione dei redditi, senza riscontro analitico della documentazione, secondo il metodo cosiddetto induttivo, purché però “l’accertamento in rettifica risulti fondato su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall’art. 2729 cod. civ. e desunte da dati di comune esperienza, oltre che da concreti e significativi elementi offerti dalle singole fattispecie” (vedi ancora Cass., sentenza cit., n. 24436/08).

In questi casi, in conclusione, la questione non riguarderà la motivazione dell’accertamento, ma la prova in giudizio.

E rientra sicuramente nell’id quod plerumque accidit ritenere che laddove una stessa società abbia operato costantemente in condizioni di antieconomicità, tale condizione, probabilmente, non avrebbe potuto protrarsi a lungo senza attingere a risorse finanziarie non dichiarate.

In contenzioso, allora, la questione non potrà riguardare la sufficienza o idoneità della motivazione dell’accertamento e quindi la sua legittimità, ma, semmai, la sufficienza o idoneità della prova dei fatti contestati e in particolare del confronto comparativo, nel merito, con le prove contrarie addotte dal ricorrente.

E del resto, come anche riconosciuto da giurisprudenza costante, si deve rilevare che nella prova per presunzioni la relazione tra fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza di quest’ultimo derivi dal primo come conseguenza ragionevolmente possibile e verosimile, secondo un criterio di normalità (Cass. 9265/95; Cass. 4976/95; Cass. 9042/97 e anche CTC 5235/97 Cass. 7213/93; 1061/94; 3824/91).

Come già affermato dalla Corte Suprema (Cass. 9.02.2001, n. 1821), in conclusione, in casi di antieconomicità dell’operazione, il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatica di possibili violazioni di disposizioni tributarie (v. anche Cass. 03.08.2001, n. 10649), sulla base delle prove fornite dal contribuente.

E la prova andrà fornita caso per caso.

Laddove tale prova venga fornita, l’antieconomicità della gestione non sarà più allora un elemento (seppur solo presuntivo) a favore dell’Amministrazione, utile a sostenere una pretesa accertativa.

2 maggio 2016

Giovambattista Palumbo