Indagini finanziarie: la prova resta a carico del contribuente

la giurisprudenza è oramai constante: in caso di accertamento bancario è il contribuente a dover provare che i movimenti contestati non sono afferenti a ricavi in nero e sono stati già indicati ed utilizzati per definire le dichiarazione dei redditi

dubbioso_immagineCon l’ordinanza n. 1898 dell’1 febbraio 2016 (ud. 10 dicembre 2015), la Corte di Cassazione, richiamando il precedente pronunciamento (sentenza n. 25365 del 05/12/2007) ha confermato che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione del reddito di impresa, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, impone di considerare ricavi sia i prelevamenti, sia i versamenti su conto corrente, salvo che il contribuente non provi che i versamenti sono registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anzichè costituire acquisizione di utili; posto che, in materia, sussiste inversione dell’onere della prova, alla presunzione di legge (relativa) va contrapposta una prova, non un’altra presunzione semplice ovvero una mera affermazione di carattere generale, né è possibile ricorrere all’equità“.

Brevi considerazioni

Ancora volta la Corte deve intervenire in materia di indagini finanziarie, leggendo, con estrema chiarezza, il dettato normativo di riferimento.

Le presunzioni fondate sulle movimentazioni bancarie legittimano l’ufficio, nei confronti delle imprese, a ritenere ricavi sia i versamenti che i prelevamenti, se il contribuente non riesce a dimostrare che ne ha tenuto conto ovvero che siano estranea alla sua attività.

La sentenza che si annota si inserisce in quel filone giurisprudenziale maggioritario e uniforme secondo cui, in materia di indagini finanziarie, l’onere della prova incombe sul contribuente.

Anche di recente, la Corte di Cassazione ha avuto modo di ribadire la sua posizione. Con ordinanza n. 28160 del 21 dicembre 2011 (ud. 23 novembre 2011) della Corte di Cassazione ha, infatti, confermato che In tema di accertamento dell’IVA, la presunzione, stabilita dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 2, secondo la quale i singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dal successivo art. 54, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili, ha un contenuto complesso, consentendo di riferire i movimenti bancari all’attività svolta in regime IVA, eventualmente dalla persona fisica, e di qualificare gli accrediti come ricavi e gli addebiti come corrispettivi degli acquisti; essa può essere vinta dal contribuente che offra la prova liberatoria che dei movimenti egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che questi non si riferiscono ad operazioni imponibili (Cass. n. 3929/2002)”.

Il dettato normativo appare eloquente: procedimentalizzare la maggior capacità di spesa non giustificata dal contribuente, e correlare tale maggior capacità di spesa con le ulteriori operazioni attive effettuate presuntivamente “in nero“.

La stessa Suprema Corte, con la sentenza n. 16650 del 29 luglio 2011 (ud. del 15 aprile 2011) aveva confermato il principio secondo cui le risultanze delle indagini finanziarie sono presunzioni legali relative, accordando, comunque, al contribuente di provare l’opposto, in maniera dettagliata e circostanziata. “In virtù della presunzione stabilita dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, – che, data la fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c., per le presunzioni semplici – sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari del contribuente vanno imputati a ricavi conseguiti dal medesimo nella propria attività d’impresa, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile oppure che sono estranei alla produzione del reddito (v. tra le altre Cass. nn. 9103/2001, 15447/2001)”. Tale presunzione legale è superabile attraverso una valida prova contraria fornita dal contribuente e detta prova va “valutata dal giudice in rapporto agli elementi risultanti dai suddetti conti, per verificare, attraverso i riscontri possibili (date, importi, tipo di operazione, soggetti coinvolti), se ed eventualmente a quali movimenti la documentazione fornita dal contribuente si riferisca, così da escludere dal calcolo dell’imponibile esclusivamente quanto risultante dai singoli movimenti bancari ritenuti riferibili alla produzione documentale del contribuente”. Proseguono i giudici: “ne consegue che non può ritenersi attendibile valutazione di una eventuale prova contraria offerta dal contribuente il fatto che nella sentenza impugnata si faccia un generico riferimento – privo del benché minimo accenno ad un qualsivoglia riscontro effettuato in rapporto ai dati emergenti dai conti correnti – alla produzione di distinte relative a somme ricevute per il versamento di imposte per conto di clienti, a incassi per polizze assicurative o al recupero di crediti extraprofessionali”.

E con la sentenza n. 4688 del 23 marzo 2012 (ud. 14 marzo 2012) la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità di un atto di accertamento, fondato solo sulla base delle movimentazioni bancarie. Per la Suprema Corte, “le presunzioni fondate sulle movimentazioni bancarie legittimano l’Ufficio a considerare come ricavi i versamenti e i prelevamenti dei quali il contribuente non riesca a dare giustificazione: per poter accertare la natura di costi degli addebiti; in particolare, al fine della loro deducibilità, è necessario che il contribuente fornisca prova contraria alla rilevanza fiscale delle movimentazioni bancarie (Cass. 17/6/2008, n. 16341). La presunzione legale relativa posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, costituisce, quindi, una eccezione al principio del libero apprezzamento delle prove da parte del giudice ed alla regola dell’onere della prova”. Per la Corte, “la motivazione dei giudici d’appello è esente da censura, in ordine ad entrambi i vizi denunciati, avendo fatto corretta applicazione, con un’adeguata motivazione, dei principi in tema di presunzione ricavatale dalla movimentazione bancaria in quanto ogni accredito nel conto corrente bancario equivale a ricavo che aumenta il reddito, in mancanza di prova contraria. Anche i costi relativi ad acquisti non documentati devono considerarsi ricavo operando la presunzione di operazioni non fatturate e, nel caso di specie, in base alla motivazione della sentenza impugnata, non specificamente contestata sul punto, la ricorrente non è stato in grado di produrre fatture emesse o ricevute riconducibili alle operazioni bancarie indicate”.

La Corte di Cassazione, quindi, come peraltro rilevato dalla sentenza ultima che si annota, giunge alla medesima conclusione: i movimenti bancari vanno giustificati dal contribuente.

In presenza di accertamenti bancari, costituisce onere del contribuente dimostrare che i proventi “desumibili dalla movimentazione bancaria non debbono essere recuperati a tassazione“, o perchè egli ne ha già “tenuto conto nelle dichiarazioni“, o perchè (Cass. nn. 9573/2007 e 1739/2007) “non sono fiscalmente rilevanti” in quanto “non si riferiscono ad operazioni imponibili“. Diversamente vanno legittimamente tassati.

Ricordiamo che, sempre la Corte di Cassazione, con sentenza n. 14052 del 27 giugno 2011 (ud. del 17 maggio 2011), ha confermato che l’Amministrazione finanziaria è legittimata alla rettifica del reddito attraverso le indagini finanziarie, competendo al contribuente dimostrare analiticamente l’irrilevanza reddituale dei movimenti bancari ovvero che gli stessi hanno avuto considerazione nella determinazione della base imponibile. Osserva il collegio, nello specifico che qui ci interessa, che in base all’orientamento espresso più volte dalla Corte, che qui si conferma, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, c. 2, consente all’amministrazione finanziaria di rettificare su basi presuntive la dichiarazione del contribuente utilizzando i dati relativi ai movimenti su conti bancari. “Si tratta di una presunzione legale di carattere relativo, in quanto è ammessa la prova liberatoria da parte del contribuente. Al quale resta garantito il diritto di difesa, potendo egli far valere le sue ragioni in sede contenziosa, depositando, anche a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32, documenti e memorie fino alla data di trattazione del ricorso in primo grado. Consegue che, se il contribuente non dimostra che dei movimenti bancari acquisiti dall’ufficio egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che si tratta di movimentazioni che non si riferiscono a operazioni imponibili, è consentito all’amministrazione riferire i movimenti bancari all’attività svolta in regime d’Iva (Cass. n. 18421/2005; n. 26293/2005; n. 8422/2002; n.3929/2002; n. 8457/2001 ; n. 2435/2001; n. 9946/2000)”.

E successivamente, con la sentenza n. 625 del 18 gennaio 2012 (ud. 20 settembre 2011) la Corte di Cassazione ha confermato che “è legittima l’utilizzazione da parte dell’amministrazione finanziaria (anche attraverso un puntuale richiamo, nell’avviso di accertamento, al verbale di ispezione redatto dalla guardia di finanza) dei dati relativi ai movimenti bancari del contribuente, che costituiscono valida prova presuntiva, restando a carico del contribuente l’onere della prova contraria (v. tra le altre cass. n. 7329 del 2003 e n. 15447 del 2001)”. La Corte, inoltre, rileva “che la prova contraria fornita dal contribuente deve essere specifica (v. cass. n. 14675 del 2006), non potendo contrapporsi alla presunzione legale in materia una affermazione generica (v. cass. n. 25365 del 2007), ed essendo in particolare da evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità espressasi con specifico riguardo ad accertamento in materia di IVA, qualora l’amministrazione proceda utilizzando, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2, i dati risultanti dai movimenti dei conti correnti bancari, la prova che il contribuente è tenuto a dare della non riferibilità ad operazioni imponibili deve essere specifica e riguardare analiticamente i singoli movimenti bancari, così da dimostrare che ciascuna delle operazioni effettuate è estranea a fatti imponibili (v. cass. n. 1739 del 2007)”.

Sempre di recente, la sentenza n. 4688 del 23 marzo 2012 (ud. 14 marzo 2012) della Corte di Cassazione aveva confermato, ancora una volta, che i movimenti bancari vanno documentati in sede di indagine finanziaria. Per la Suprema Corte, “le presunzioni fondate sulle movimentazioni bancarie legittimano l’Ufficio a considerare come ricavi i versamenti e i prelevamenti dei quali il contribuente non riesca a dare giustificazione: per poter accertare la natura di costi degli addebiti; in particolare, al fine della loro deducibilità, è necessario che il contribuente fornisca prova contraria alla rilevanza fiscale delle movimentazioni bancarie (Cass. 17/6/2008, n. 16341)”. Infatti, “la presunzione legale relativa posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, costituisce una eccezione al principio del libero apprezzamento delle prove da parte del giudice ed alla regola dell’onere della prova. La motivazione dei giudici d’appello è esente da censura, in ordine ad entrambi i vizi denunciati, avendo fatto corretta applicazione, con un’adeguata motivazione, dei principi in tema di presunzione ricavatale dalla movimentazione bancaria in quanto ogni accredito nel conto corrente bancario equivale a ricavo che aumenta il reddito, in mancanza di prova contraria”. Inoltre, “anche i costi relativi ad acquisti non documentati devono considerarsi ricavo operando la presunzione di operazioni non fatturate e, nel caso di specie, in base alla motivazione della sentenza impugnata, non specificamente contestata sul punto, la ricorrente non è stato in grado di produrre fatture emesse o ricevute riconducibili alle operazioni bancarie indicate”.

E con la sentenza n. 1560 del 28 gennaio 2015 (ud. 26 novembre 2014) la Corte di Cassazione ha confermato che “a fronte di detta presunzione legale il contribuente è onerato di fornire la prova contraria, anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre comunque ad attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto a individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purchè grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative (Cass. 22502/2011)”. Prosegue la Corte affermando che “la presunzione di riferibilità dei movimenti bancari ad operazioni imponibili si correla, infatti, ad una valutazione del legislatore di rilevante probabilità che il contribuente si avvalga del conto corrente bancario per effettuare rimesse e prelevamenti inerenti all’esercizio dell’attività d’impresa, onde alla presunzione di legge (relativa) non può contrapporsi una mera affermazione di carattere generale, nè è possibile ricorrere all’equità (Cass. 13035/12)”. E nel caso di specie, osserva la Corte, “la CTR ha completamente omesso la analitica valutazione delle risultanze del conto corrente bancario poste a fondamento dell’accertamento e delle giustificazioni, correlate alle suddette movimentazioni, da parte del contribuente, erroneamente affermando da un lato che il contribuente non poteva fornire più dettagliate informazioni, in conseguenza del regime di contabilità, semplificata, adottato, dall’altro che in caso di dubbio spettava all’Amministrazione finanziaria effettuare ulteriori accertamenti. Tali statuizioni sono in contrasto con la presunzione legale posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, che ha portata generale, riguardando la rettifica delle dichiarazioni dei redditi di qualsiasi contribuente, quale che sia la natura dell’attività svolta e dalla quale quei redditi provengano (Cass. 19692/11) e che pone un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, a prescindere dal regime di contabilità. Pertanto, il contribuente – e non già l’Amministrazione finanziaria – è tenuto a fornire prova contraria alle risultanze, che deve essere valutata dal giudice, non già in modo generico, ma in rapporto agli elementi risultanti dai conti correnti, per verificare, attraverso i riscontri possibili (date, importi, tipo di attività, soggetti coinvolti), se ed eventualmente a quali operazioni la documentazione fornita dal contribuente si riferisca, così da escludere dal calcolo dell’imponibile soltanto quanto risultante dai singoli movimenti bancari (Cass. 16650/2011)”.

10 marzo 2016

Gianfranco Antico