I presupposti di legittimità delle indagini finanziarie; utilizzo di dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari formalmente intestati ai soci, non alla società

analisi delle differenze che esistono in caso di accertamenti bancari fra i rilievi relativi ad imposte dirette ed i rilievi relativi al recupero dell’IVA

 

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4871/2015 dell’11.3.2015, ha stabilito che, nel caso in cui l’Amministrazione Finanziaria, nel considerare, da un lato, i versamenti del socio sul suo conto bancario come ricavi imponibili per operazioni non fatturate e non dichiarate e, dall’altro, i prelievi come acquisti non autofatturati (a seguito di mancata emissione di fattura da parte del cedente) li consideri in via presuntiva come corrispondenti ad “acquisti” ai fini IVA, non viola l’art. 51, c. 2, n. 2, del d.P.R. n. 633 del 1972. 

Tale interpretazione, pur evidenziando che la norma, in ragione del suo tenore testuale, non è perfettamente simmetrica a quella dettata per le imposte dirette, che prevede una presunzione di ricavi con riguardo sia ai versamenti che ai prelievi bancari, consente infatti di evitare, ai fini dell’IVA, la duplice incongruenza, da un lato, di ritenere irrilevanti le movimentazioni bancarie in uscita e, dall’altro, di non avere a disposizione alcun criterio per distinguere tra le movimentazioni comportanti una presunzione di cessione e quelle comportanti una presunzione di acquisto.

 

L’art. 51, c. 2, n. 2, per. 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, dopo aver stabilito che i risultati delle indagini finanziarie “sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 54 e 55 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili”, aggiunge infatti che “sia le operazioni imponibili sia gli acquisti si considerano effettuati all’aliquota in prevalenza rispettivamente applicata o che avrebbe dovuto essere applicata”.

Il riferimento alle operazioni imponibili e agli acquisti induce dunque a ritenere che, ai fini IVA, le movimentazioni bancarie si presumono corrispondere a cessioni di beni o prestazioni di servizi (operazioni imponibili), se in entrata (in misura pari agli gli importi accreditati), o ad acquisti, se in uscita (ad esempio, prelievi).

L’onere della prova contraria incombe dunque sul contribuente, il quale deve dimostrare di aver tenuto conto di tali importi nelle dichiarazioni ovvero che essi non si riferiscono ad operazioni imponibili.

 

Nel caso all’esame della Corte, inoltre, la CTR osservava che:

a) l’art. 32, c. 1, n. 7, del d.P.R. n. 600 del 1973 (per le imposte sui redditi) e l’art. 51, c. 2, n. 7, del d.P.R. n. 633 del 1972 (per l’IVA), nella loro nuova formulazione, consentivano di richiedere, previa autorizzazione del Comando regionale della Guardia di finanza, copia dei conti intrattenuti con il contribuente e di imputare presuntivamente a ricavi gli importi riscontrati con gli assegni bancari incassati, salva la prova contraria del contribuente medesimo;

b) l’ufficio tributario può procedere anche all’esame dei conti intestati a soggetti diversi dal contribuente, purché dimostri “prima” il collegamento esistente tra il contribuente e detti soggetti;

c) tale collegamento è in re ipsa nel caso in cui tra la società di capitali contribuente ed i terzi sussista un rapporto organico, come per i rapporti amministratori (società o diversamente anche soci) società, poiché i soci, pur potendosi considerare terzi (non contribuenti), non sono estranei alla società;

d) l’autorizzazione ad estendere le indagini a terzi, non presuppone presunzioni gravi, precise e concordanti circa l’esistenza di tale collegamento;

e) dette presunzioni qualificate, invece, debbono sussistere con riguardo alle risultanze bancarie già acquisite, al fine di riferire al contribuente le operazioni bancarie poste in essere dai soggetti “collegati“;

f) nella specie, le indagini sui conti bancari dei soci si giustificavano in base al rapporto societario, nonché in base ad altri elementi, indiziari, ma precisi e concordanti, tali da indurre gli accertatori a prefigurare operazioni effettuate in evasione (magazzini della società con materiali non denunciati; differenze, sia pure riferite ad un diverso anno d’imposta, tra giacenze effettive e documentate);

g) dalle operazioni bancarie dei soci scaturivano presunzioni gravi, precise e concordanti nel senso della riferibilità dei conti alla società mediante interposizione fittizia e non erano state fornite convincenti spiegazioni dei movimenti accertati.

La Corte di Cassazione, in merito ai suddetti punti, precisa poi che la giurisprudenza di legittimità ha già in passato chiarito che l’art. 32, n. 7, del d.P.R. n. 600 del 1973 e l’art. 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 autorizzano l’ufficio finanziario a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi, ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente, acquisendo dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi a tali conti, sulla base di elementi indiziari o quando comunque l’ufficio abbia motivo di ritenere, in base agli elementi indiziari raccolti, che i conti siano stati utilizzati per occultare operazioni commerciali, ovvero per imbastire una vera e propria gestione extra-contabile, a scopo di evasione fiscale.

 

La questione poi della prova della interposizione fittizia o fiduciaria nella intestazione dei conti o depositi o comunque della prova della pertinenza delle movimentazioni bancarie ad operazioni commerciali o finanziarie riconducibili alla attività di impresa svolta dalla società viene in rilievo soltanto nella fase valutativa dell’accertamento, successiva alle indagini (per tutte, Cass. n. 27509 del 2014 ed i precedenti, in detta sentenza citati; v. anche Cass. n. 443 del 2015).

E’ dunque legittima l’utilizzazione dei risultati delle indagini esperite nei confronti dei singoli soci e l’imputabilità alla società dei risultati delle verifiche esperite sui conti dei soci sulla base di presunzioni relative, mantenendo in capo ai soci l’onere di dimostrare l’inesistenza di correlazione fra i movimenti bancari accertati sui propri conti personali e l’attività imprenditoriale della società.

In sostanza, l’intestazione dei conti correnti ai soci non può impedire l’accertamento, ma comporterà soltanto che, seppur per presunzioni semplici, l’Amministrazione dovrà ottemperare al proprio onere della prova.

Gli accertamenti bancari forniscono infatti un insieme di dati sufficientemente sicuri, che possono legittimamente essere posti a base di un avviso di accertamento e quando l’Amministrazione ha adempiuto all’onere della prova che su di essa grava, il contribuente non può limitarsi ad una generica contestazione, ma ha l’onere di fornire elementi che costituiscano la prova contraria richiesta dalla legge.

 

L’Amministrazione può quindi utilizzare, oltre ai dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari formalmente intestati all’ente, anche quelli relativi a conti formalmente intestati ai soci, amministratori o procuratori generali, allorché risulti provata, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati, in particolare laddove, magari, i soci non risultino svolgere alcuna diversa attività produttiva di reddito, né avere operato dismissioni patrimoniali, o essere divenuti beneficiari di atti di liberalità.

Come evidenziato anche dalla CTR nella sentenza oggetto di impugnazione nel caso in esame, il rapporto intercorrente fra i soci amministratori di società e la società amministrata è del resto talmente stretto (per il principio di immedesimazione organica) da realizzare una sostanziale identità di soggetti, tale da giustificare l’utilizzazione dei dati bancari raccolti attraverso l’indagine svolta anche relativamente ai conti intestati ai soci stessi; e ciò in quanto “la presunzione di riferibilità dei movimenti bancari ad operazioni imponibili si correla a una valutazione di rilevante probabilità che il contribuente si avvalga di tutti i conti di cui possa disporre per le rimesse e i prelievi inerenti all’esercizio di attività (vedi anche Cassazione, sentenza n. 4987 del 1° aprile 2003).

La documentazione bancaria rappresenta dunque, senza dubbio, una forte presunzione, sia ai fini Iva che imposte dirette, superabile soltanto da una altrettanto forte prova contraria, che il contribuente deve in ogni caso fornire se vuole superare l’accertamento dell’Ufficio.

La “sottigliezza” da non perdere di vista, del resto, consiste nell’aver presente che non è l’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 il presupposto necessario per il legittimo ricorso alla procedura degli accertamenti bancari di cui all’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973, essendo vero invece il contrario, e cioè che, sulla base dell’accertamento ex art. 32, sarà possibile imputare al contribuente, ex art. 37, i redditi formalmente appartenenti ad altra persona.

 

Come infatti confermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 19003 del 28 settembre 2005L’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 muove dalla – ovvia – considerazione che gli evasori occultano le poste attive e non le poste passive. Pertanto, in caso di acquisizione dei movimenti di un conto corrente bancario riconducibili all’impresa (nel caso di specie, di pertinenza del socio accomandante su cui operavano i soci accomandatari) debbono essere considerati ricavi sia le operazioni attive sia quelle passive (a meno che l’imprenditore non dimostri che corrispondono ad operazioni già contabilizzate o estranee all’attività aziendale), senza che si debba procedere alla deduzione presuntiva di oneri e costi deducibili, essendo onere del contribuente indicare e provare eventuali specifici costi deducibili”.

 

1 ottobre 2015

Giovambattista Palumbo