Quando l'attività commerciale è anche attività d'impresa? Un numero rilevante di transazioni, anche effettuate su portali di vendita on line, qualifica l’attività di impresa, anche se manca l’organizzazione

sono numerosi i contenziosi in cui va valutato l’effettivo svolgimento dell’attività d’impresa ai fini dell’applicazione della corretta imposizione fiscale: nell’ambito delle attività commerciali rientrano solo quelle svolte in forma di impresa, qualificate dai caratteri dell’abitualità (ancorché non dell’esclusività) e della professionalità

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6235 del 27 marzo 2015, dopo aver ricordato che nell’ambito delle attività commerciali rientrano solo quelle svolte in forma di impresa, qualificate dai caratteri dell’abitualità (ancorché non dell’esclusività) e della professionalità, dovendo quindi ritenersi rilevanti solo le cessioni e le prestazioni compiute nell’esercizio di attività commerciali continuative e stabili e non quelle che si esauriscono in isolati atti di produzione o commercio (conf. Cass. 20716/07), ha evidenziato che, secondo la Corte di Giustizia (in causa Galin Kostov, §27 e §31), è comunque da considerare soggetto d’imposta la persona fisica che eserciti un’attività economica, da intendersi come quella che comporta lo sfruttamento di un bene, materiale o immateriale, per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità.

 

Nel caso all’attenzione dei giudici, l’Amministrazione Finanziaria aveva contestato l’omessa dichiarazione di ricavi derivanti dall’attività di vendita di prodotti filatelici per oltre 500 mila euro.

Le cospicue e ripetute vendite fatte dal contribuente rientravano quindi nel concetto di esercizio di attività d’impresa abituale e professionale, anche considerato che non trovava riscontro la tesi che dette vendite scaturissero da una dazione a scopo di garanzia.

La fattispecie (proprio in merito ad attività di vendite di francobolli) è stata del resto già affrontata anche dalla giurisprudenza di merito.

 

La Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, per esempio, con la sentenza n. 56/06/2011, depositata in data 16/06/2011, aveva già enunciato un importante principio di diritto, poi confermato anche da altra Sezione della stessa Commissione con la sentenza n. 03/19/2012, depositata in data 23/01/2012 e ora ribadito dalla Suprema Corte nella sentenza in commento: la nozione tributaristica di esercizio di imprese commerciali non coincide con quella civilistica, perché l’art. 51 D.P.R. 917/1986 intende come tale l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, delle attività indicate dall’art. 2195 c.c., anche se non organizzate in forma di impresa, e prescinde quindi dal requisito organizzativo, fondamentale per la qualificazione civilistica di impresa.

L’attività di intermediazione (anche effettuata su portali di vendita on line) qualifica, pertanto, l’attività di impresa, quando vi sia un numero rilevante di transazioni: i proventi, di conseguenza, sono redditi di impresa e non redditi diversi, anche se manca l’organizzazione.

Il contribuente quindi non può in questi casi contestare la sussistenza dei requisiti di organizzazione e di abitualità nella sua attività, escludendo la natura di reddito di impresa.

Il numero rilevante di transazioni e l’entità degli importi sono infatti già elementi che evidenziano come il requisito dell’abitualità sia insito nell’attività posta in essere.

A questo proposito, peraltro, la Suprema Corte si era già anche espressa a favore dell’attività impositiva dell’Ufficio in un caso in tutto e per tutto assimilabile a quello de quo, affermando che “la nozione tributaristica dell’esercizio di imprese commerciali non coincide con quella civilistica, giacché l’art. 51 del DPR 22 dicembre 1986, n. 917 intende come tale l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate dall’art. 2195 cod. civ, anche se non organizzate in forma di impresa, e prescinde quindi dal requisito organizzativo, che costituisce invece elemento qualificante e imprescindibile per la configurazione dell’impresa commerciale agli effetti civilistici, esigendo soltanto che l’attività svolta sia caratterizzata dalla professionalità abituale, ancorché non esclusiva. L’accertamento, ai fini delle imposte sui redditi, in ordine alla riconducibilità della cessione di un bene all’esercizio di un’attività di commercio posta in essere nell’esercizio abituale e professionale di un’impresa, valutato in relazione alle concrete modalità ed al contenuto oggettivo e soggettivo dell’atto, costituisce poi un accertamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato…” (Cass. civ. Sez. V, 20 dicembre 2006, n. 27211).

 

Ribadita dunque la “non coincidenza fra la nozione di impresa commerciale civilistica e quella fiscale”, ai fini fiscali, i requisiti che qualificano un’impresa, permettendo di definirla come commerciale, sono:

  1. attività indicate dall’art. 2195 c.c., o attività agricole indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 32 che eccedono i limiti ivi stabiliti;

  2. esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva e anche se non organizzata in forma di impresa.

 

Giova evidenziare peraltro, a tal proposito, che anche l’attività di intermediazione svolta on line è qualificabile come reddito di impresa e solo nel caso di prestazioni occasionali, come definite al comma 2 dell’art. 61 del D.P.R. 276/2003, i compensi percepiti rientrano nella categoria dei redditi diversi ex art. 67 del TUIR.

Per capire l’importanza del principio basti pensare che, secondo stime ottimistiche, l’85% dei venditori su aste on line non rilascia alcun documento fiscale.

Il “trucco”, in sostanza, è iscriversi come venditori occasionali, mentre in realtà viene posta in essere una vera e propria rivendita professionale.

Quando le transazioni superano una certa soglia, il venditore non può però essere più considerato occasionale, ma professionale, e deve pertanto aprire la partita Iva e pagare le imposte sulla parte di guadagno ottenuta.

Solo la prestazione meramente occasionale, invece, rientra nei redditi diversi ed è esclusa dal campo di applicazione dell’Iva ai sensi dell’articolo 5 del Dpr 633/1972 (carenza del presupposto soggettivo) e dall’Irap.

Ciò che rileva, quindi, è non tanto la definizione di venditore privato, quanto quella di venditore occasionale.

L’occasionale del web è, ad esempio, colui che vende un proprio bene (lo scooter, la chitarra, o un qualsiasi altro oggetto). Questa è di semplice dimostrazione nel caso di chi vuol vendere, ad esempio, una vecchia collezione di LP.

Dimostrare, invece, l’occasionalità quando il processo di cessione diventa un fatto sistematico diventa più arduo.

Tornando al caso all’attenzione della sentenza in commento, la decisione di merito, poi confermata, poneva del resto in luce proprio questi elementi, rilevanti ai fini della qualificazione del reddito, quali la qualità del contribuente di ex socio di società dedita al commercio di francobolli, la notevole entità economica delle vendite, le rilevanti movimentazioni bancarie, l’effettiva appartenenza dei francobolli al contribuente, la pluralità delle compravendite, le incongruenze temporali e documentali circa il presunto prestito, la ricezione in garanzia e la vendita a terzi.

Tale conclusione, infine, secondo i giudici della Corte, non poteva neppure essere inficiata dalla sentenza penale che aveva assolto il contribuente e che la difesa aveva allegato senza però attestazione della sua definitività da parte della cancelleria.

Oltre infatti alla circostanza che la mancata allegazione rendeva processualmente inutilizzabile la sentenza (Cass. 21469/13), nessuna automatica autorità di cosa giudicata può comunque attribuirsi alla sentenza penale di assoluzione, ancorché i fatti esaminati siano gli stessi che fondano l’accertamento tributario, perché nel processo tributario vigono peculiari regole di prova presuntiva estranee al giudizio penale.

4 maggio 2015

Giovambattista Palumbo