L'imposta sostitutiva sui finanziamenti è un costo pluriennale?

il costo per imposta sostitutiva sostenuto dal contribuente in virtù di un finanziamento non deve essere qualificato come imposta, bensì come parte del corrispettivo del finanziamento, deducibile in base al criterio di competenza dal reddito d’impresa secondo le regole del TUIR

Aspetti generali

Il costo sostenuto dal contribuente in virtù di un finanziamento e rappresentato dalla traslazione economica dell’imposta sostitutiva di cui all’art. 17 del D.P.R. n. 601/1973 non deve essere qualificato come imposta, bensì come parte del corrispettivo del finanziamento, deducibile secondo il criterio di competenza a norma dell’art. 108 terzo comma del TUIR, ovvero nei limiti della quota imputabile a ciascun esercizio. 

Si tratta dell’imposta sostitutiva delle imposte di registro, di bollo, ipotecarie e catastali e delle tasse sulle concessioni governative applicata in ragione dello 0,25 per cento dell’ammontare complessivo dei finanziamenti relativi a operazioni di credito a medio e lungo termine [art. 15, D.P.R. n. 601/1973] e ad altre tipologie di operazioni di credito [art. 16, D.P.R. n. 601/1973].

Il principio sopra sinteticamente espresso è stato enunciato dalle Corte di Cassazione nella sentenza n. 3770 del 25.2.2015.

Esso va confrontato con gli orientamenti assunte dalla prassi interpretativa ufficiale oltre che con le precedenti sentenze della stessa Cassazione.

Il caso

La società ricorrente aveva ottenuto nel 2001 due finanziamenti con l’obbligo contrattuale di rimborsare all’ente mutuante quanto da questo dovuto all’amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 17 del D.P.R. 601/1973, il quale stabilisce che gli enti che effettuano operazioni di credito, a seguito di specifica opzione, possono corrispondere, in luogo delle imposte di registro, di bollo, ipotecarie e catastali e delle tasse sulle concessioni governative, un’imposta sostitutiva.

Tali oneri sono stati considerati dalla società come pluriennali, assoggettati ad ammortamento per quote annuali, sulla base della considerazione che si trattasse di un caso di traslazione dell’imposta, divenuta sostanzialmente parte del corrispettivo dovuto per il finanziamento, con conseguente inapplicabilità della regola di deducibilità per cassa prevista dall’art. 99 del TUIR.

Queste somme, corrisposte dalla ricorrente all’istituto mutuante, non erano quindi qualificabili come oneri fiscali; restavano infatti a carico del mutuante gli obblighi di versamento dell’imposta e di dichiarazione del maggior reddito derivante dal rimborso del versamento, con il conseguente obbligo di assolvimento delle ulteriori imposte dovuto su tale maggior reddito.

L’indeducibilità delle imposte

Il primo comma dell’art. 99 del Testo Unico, relativo agli oneri fiscali e contributivi, prevede che le imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa, non sono ammesse in deduzione, mentre le altre imposte sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento.

Nel contenzioso di merito, la CTR aveva ammesso il recupero a tassazione da parte dell’ufficio fiscale competente della quota di ammortamento del costo capitalizzato relativo all’imposta sostitutiva, nel presupposto che, sulla base della disposizione normativa richiamata, il costo doveva essere dedotto nel periodo di imposta in cui era avvenuto il pagamento o aveva inizio la riscossione dei ruoli (nel caso di specie, si trattava del 2001 e non del 2002).

I motivi di ricorso per cassazione

La richiamata sentenza della Corte di Cassazione n. 3770 del 25.2.2015 si è pronunciata su alcuni motivi di ricorso tra i quali spicca il secondo, articolato in due profili.

La parte ricorrente per cassazione denunciava in particolare la violazione dell’art. 17 del D.P.R. n. 601/1973 e la violazione e falsa applicazione dell’art. 64 – ora 99 – del TUIR.

Due rilevanti finanziamenti erano stati ottenuti dalla società nel 2001, con obbligo di rimborsare all’ente mutuante quanto da questo dovuto all’erario ai sensi della norma citata.

Questa prevede, come rammentato dalla Corte, che gli enti che effettuano operazioni di credito a medio e lungo termine «sono tenuti a corrispondere, in luogo delle imposte di registro, di bollo, ipotecarie a catastali e delle tasse sulle concessioni governative, una imposta sostitutiva», disciplinata nelle successive disposizioni normative.

Questi oneri sono stati intesi dalla società come pluriennali, e pertanto assoggettati ad ammortamento per quote annuali, trattandosi di un caso di traslazione dell’imposta, in sostanza divenuta parte del corrispettivo dovuto per il finanziamento, con conseguente inapplicabilità dell’art. 64 (ora 99) del TUIR.

In sintesi, la ricorrente formulava i seguenti quesiti:

  1. «se, alla luce del disposto di cui all’art. 17 DPR 601/73, il costo sostenuto dal mutuatario rappresentato dalla traslazione economica dell’imposta sostitutiva sui finanziamenti, debba essere qualificato non come imposta bensì come parte del corrispettivo del finanziamento deducibile secondo l’ordinario principio di competenza ex art. 74 DPR 917/86 (ora 108)»;

  2. «se l’art. 64 DPR 917/86 (ora art. 99) debba essere interpretato nel senso di escluderne l’applicabilità all’imposta sostitutiva sui finanziamenti in quanto onere accessorio di diretta imputazione al costo del finanziamento ed in quanto tale deducibile secondo l’ordinario principio di competenza, ovvero nei limiti della quota imputabile a ciascun esercizio (art. 108 DPR 917/86)».

La soluzione fornita dalla Corte

Secondo la Cassazione il motivo di ricorso è fondato.

Afferma infatti la Corte che nel caso di specie non trovava applicazione la disciplina già dettata dall’art. 64, primo comma, del TUIR, e ora dall’art. 99, primo comma, poiché le somme corrisposte dalla società ricorrente all’istituto mutuante non dovevano essere qualificate come oneri fiscali.

La clausola contrattuale in esame non implicava la corresponsione dell’imposta al fisco da parte di un soggetto diverso da quello su cui gravava la relativa obbligazione ex art. 17 del D.P.R. n. 601/1973 (cioè di un soggetto obbligatosi a pagarla in vece e conto di quest’ultimo), ma configurava una mera traslazione convenzionale del corrispondente carico impositivo, da ritenersi consentita in via generale in mancanza di una specifica diversa disposizione di legge.

Per tale imposta sostitutiva non è peraltro previsto alcun obbligo di rivalsa.

Questa traslazione veniva a esaurirsi in un incremento dei proventi del mutuante in misura pari alla somma che doveva versare all’erario (rimborsata dalla società all’istituto mutuante stesso), senza alcun esonero né da quest’ultimo versamento né dall’obbligo di dichiarare all’amministrazione finanziaria il maggior reddito conseguente al rimborso del versamento e di pagare le ulteriori imposte dovute sullo stesso maggior reddito.

Era stata quindi stipulata una pattuizione di carattere privatistico che non incideva sul rapporto pubblicistico tra contribuente e fisco, con la conseguenza che restavano a carico del mutuante tutti i suoi obblighi tributari derivanti dalla pattuizione in forza della quale il suo reddito aumentava, compreso, in via principale, l’obbligo della dichiarazione.

Ne conseguiva, secondo la lettura fornita dalla Corte, che ai costi pluriennali in questione doveva applicarsi l’ordinario regime di deducibilità stabilito dall’art. 74, terzo comma, del TUIR [ora art. 108, terzo comma], cioè nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio.

La posizione espressa dall’amministrazione nel 2000

In epoca anteriore rispetto all’attivazione dell’Agenzia delle Entrate, con circolare n. 136 del 5 luglio 2000, l’amministrazione finanziaria aveva precisato che:

  • la disposizione di cui al vecchio art. 64 (e nuovo art. 99) del TUIR consente la deducibilità della quota accantonata, riferita alle imposte ancora da versare, solo nell’esercizio in cui vengono presentate le relative dichiarazioni, nei limiti delle imposte da queste risultanti (principio di cassa);

  • secondo un altro orientamento, per i tributi soggetti all’obbligo di dichiarazione sarebbe stato possibile riconoscere la deduzione secondo il criterio di competenza degli accantonamenti iscritti in bilancio;

  • a norma del terzo comma dell’art. 64 del vecchio TUIR, corrispondente all’attuale secondo comma dell’art. 99, gli accantonamenti sono deducibili nei limiti dell’ammontare corrispondente alle dichiarazioni presentate, agli accertamenti o provvedimenti degli uffici e alle decisioni delle commissioni tributarie;

  • ai fini della determinazione del reddito d’impresa, la generalità delle aziende di credito aveva proceduto alla deduzione degli accantonamenti relativi alla quota ancora da liquidare a fine esercizio, riguardanti l’imposta di bollo assolta in modo virtuale, la tassa sui contratti di borsa e l’imposta sostitutiva per le operazioni di finanziamento, adottando, ai fini dell’imputazione al periodo d’imposta, il principio di competenza economica;

  • secondo la circolare in commento, il terzo comma dell’art. 64 del TUIR era stato irritualmente invocato: i tributi considerati, risultando in modo specifico dagli atti, dai contratti e dai finanziamenti stipulati nel corso dell’esercizio, costituivano veri e propri oneri di competenza, certi e determinati, individuando «debiti tributari precisi da rilevare tra le passività, laddove lo stanziamento di accantonamenti ai relativi fondi è correttamente effettuato solo per oneri futuri che siano incerti o indeterminati nel quantum o nel momento di insorgenza».

In questo contesto, con un’ampia ricostruzione delle basi normative di riferimento e della prassi pregressa, il Ministero aveva ritenuto che le imposte traslate perdessero la loro generica natura di oneri tributari privi di connessione diretta con l’attività d’impresa, e dovessero, come oneri direttamente collegati ai ricavi, essere dedotti per competenza secondo gli ordinari criteri.

Il principio di correlazione tra costi e ricavi veniva infatti a collocarsi come centrale rispetto al derogatorio principio della deduzione per cassa di cui all’attuale art. 99 primo comma del TUIR.

La circolare chiudeva affermando che in casi come quello qui esaminato dovesse trovare applicazione il menzionato principio generale, mentre restavano riconducibili al principio di cassa «tutti i tributi per i quali si pone autonomamente un problema di riferibilità a periodo, giacché trattasi di oneri che – a differenza dell’Iva indetraibile, dell’imposta di bollo, della tassa sui contratti di borsa e dell’imposta sostitutiva sui finanziamenti – non sono imputabili a beni e servizi o non sono autonomamente associabili a ricavi specifici e riconoscibili».

Considerazioni di sintesi

Stabilisce il terzo comma dell’attuale art. 108 del TUIR che «le altre spese relative a più esercizi, diverse da quelle considerate nei commi 1 e 2 sono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio. Le medesime spese, non capitalizzabili per effetto dei principi contabili internazionali, sono deducibili in quote costanti nell’esercizio in cui sono state sostenute e nei quattro successivi».

Il primo comma dell’art. 99 del medesimo Testo Unico stabilisce, come si è visto, che le imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa, non sono ammesse in deduzione, mentre le altre imposte sono deducibili per cassa nell’esercizio in cui avviene il pagamento.

Come si è visto, il secondo comma aggiunge che gli accantonamenti per imposte non ancora definitivamente accertate sono deducibili nei limiti dell’ammontare corrispondente alle dichiarazioni presentate, agli accertamenti o provvedimenti degli uffici e alle decisioni delle commissioni tributarie.

In linea generale, dovendo guardare agli indirizzi della prassi e della giurisprudenza esaminate, sembra possibile affermare che:

  1. tutti gli oneri che conservano la propria natura tributaria e sono deducibili dall’impresa in quanto non rientranti nelle ipotesi di cui al predetto art. 99 primo comma concorrono in negativo al reddito in base al principio di cassa, cioè guardando all’erogazione;

  2. i soli oneri fiscali che sono direttamente correlati ai ricavi (tra i quali rientrerebbe anche l’imposta sostitutiva sui finanziamenti) dovrebbero poter essere dedotti secondo gli ordinari criteri, ossia secondo il principio di competenza economica [circolare ministeriale n. 136/2000];

  3. gli oneri fiscali dovuti da un soggetto ma rifusi dall’altro in base a una specifica pattuizione (come nel caso sopra esaminato sulla base della giurisprudenza di legittimità) perdono la propria natura tributaria e divengono in sostanza un extra-prezzo che segue il principio di competenza (nel caso di specie, data la struttura dell’obbligazione assunta), in qualità di costo pluriennale.

20 maggio 2015

Fabio Carrirolo