Il fatto noto deve essere incontestabile

il fatto notorio, in deroga al principio dispositivo delle prove e al principio del contraddittorio, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze comuni della collettività con tale grado di certezza da apparire incontestabile

Il fatto notorio, derogando al principio dispositivo delle prove e al principio del contraddittorio, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire incontestabile. E’ questo il principio che si ricava dalla lettura della sentenza n. 22950 del 29 ottobre 2014 (ud. 7 ottobre 2014) della Corte di Cassazione.

La vicenda

La vicenda trae origine dall’impugnazione, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, della sentenza della CTR della Campania che, accogliendo l’appello del contribuente avverso la sentenza CTP di Napoli, ha dichiarato l’illegittimità dell’avviso di accertamento per l’anno 1999, sulla base di parametri ritenuti “insufficienti alla relativa giustificazione di rettifica, avendo il contribuente apportato elementi contraddittori rispetto alle elaborazioni matematico-statistiche e non avendo la C.T.P. apprezzato la nozione di fatto della scarsa puntualità di pagamento, nella zona considerata e secondo le tabelle ufficiali, dei clienti meridionali del libero professionista destinatario dell’accertamento, oltre che del criterio di contabilizzazione di cassa”.

La sentenza

Rileva la Suprema Corte che “la C.T.R. ha ritenuto erronea la sentenza dei primi giudici, laddove essi non avrebbero fornito adeguato risalto a particolari situazioni di mercato ovvero di svolgimento dell’attività prevalente tali da opporsi alle risultanze dei parametri presuntivi. E nell’accogliere l’appello, ai fini di contrastare in particolare il criterio di contabilizzazione di cassa, posto dall’Ufficio, oltre che a base di una circolare (n. 25/E del 14.3.2001) altresì quale indice di ricostruzione dei ricavi e del conseguente maggior reddito nel caso del contribuente accertato, la sentenza qui impugnata ha conferito portata fondativa al proprio convincimento – l’avvenuto superamento delle presunzioni discendenti dai parametri di cui alla L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181 – avendo riguardo ad una nozione di fatto. Quest’ultima, individuata nella circostanza per cui ‘i clienti meridionali non sempre corrispondono onorari conformi alle tabelle professionali’, palesa evidenti limiti rispetto alle ‘nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza’ ai sensi dell’art. 115 c.p.c., comma 2, poichè la sua rilevazione, per quanto appartenente all’indagine officiosa del giudice del merito, non appare rispettosa di quegli indici di univocità e sicura percezione in un dato contesto ambientale o sociale voluti dalla norma”.

In maniera puntuale la Corte di Cassazione stigmatizza la sentenza di secondo grado, ritenendo che “la stessa enunciazione della C.T.R. è innanzitutto incoerente con la certa acquisizione del fatto notorio, laddove la sentenza impugnata da conto (‘è risaputo’) in modo suggestivo e meno che probabilistico alla descritta prassi disapplicativa del pagamento a tariffa piena dei professionisti, esprimendosi, con riguardo ai ‘clienti meridionali’, secondo una ricognizione contraddittoria (‘non sempre corrispondono onorari’)”.

Inoltre, osserva ancora il Collegio “che la stessa circostanza in sé denuncia un elevato grado di incomprensibilità logica rispetto alla nozione di prova contraria e decisiva che dovrebbe comunque emergere, di regola per iniziativa di parte o comunque per acquisizione officiosa, così da superare il principio di corrispondenza, in via presuntiva, dei ricavi desunti dall’applicazione dei parametri rispetto a quelli non dichiarati: porre a fondamento della decisione un fatto rientrante nella comune esperienza, così superando il principio dispositivo ed imponendosi sui limiti del contraddittorio, significa assumere con tale valenza un ‘fatto acquisito alle conoscente della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile’ (Cass. 6299/2014), cioè discernendo – come invece non avvenuto nella fattispecie – soggettive opzioni sociologiche e regole di parziale valutazione della realtà rispetto a ben più rigorose circostanze fattuali, così estese nella percezione e puntualmente determinate o almeno indicate da imporsi secondo un criterio di notorietà ristretta e controllabile, in modo tale che il giudice, imponendosi esse all’osservazione comune, sia in grado direttamente di inferirne valutazione critica e conseguenze giuridiche nella costruzione della ratio decidendi”.

Conclude la Corte, affermando che “la sentenza è invero frontalmente inottemperante all’indirizzo, già in parte anticipato ed anche di recente statuito in sede di legittimità, per cui il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati nè controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscente della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile. Ne consegue che restano estranei a tale nozione le acquisizioni specifiche di natura tecnica, gli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari o richiedono il preventivo accertamento di particolari dati, nonchè quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poichè questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione d’analoghe controversie (così Cass. 14063/2014, 16959/2012, 3234/2010, 5232/2008)”.

Breve nota

L’art. 115, C.p.c., titolato “Disponibilità delle prove”, dopo aver affermato al comma 1, che, salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita, al comma 2 prevede che “Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”.

Nel campo tributario la prova documentale è rara, emergendo, invece, “il carattere interpretativo della prova, la sua natura di ragionamento, di argomentazione”1: di fatto, siamo spesso in presenza di presunzioni che, ai sensi dell’art. 2727 c.c., sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato, giusto il disposto dell’art. 39, c. 1, lett. d, D.P.R. n. 600/73, che stabilisce che l’incompletezza, la falsità, l’inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione dei redditi, ovvero l’esistenza di attività non dichiarate possono essere desunte sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise, e concordanti.

La Suprema Corte – con sentenza n.5052 del 4 febbraio 1987, depositata il 10 giugno 1987 ha stabilito che “ ….in tema di prove su presunzioni non occorre che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignorato come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, bastando, invece, che l’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza colte dal Giudice, per giungere all’espresso convincimento circa tale probabilità di sussistenza e la compatibilità del fatto supposto a quello accertato…”.

Come osservato in dottrina2, “in effetti, l’importanza delle presunzioni risiede nella capacità, in ultima analisi, di determinare l’inversione dell’onere de quo, il quale viene ad essere traslato in capo al soggetto passivo di imposta. È evidente che tale effetto si osserva esclusivamente in caso di presunzioni relative che, come noto, ammettono la prova contraria. Nel caso, invece di presunzioni assolute detta possibilità è interdetta per espressa previsione di legge: siamo in presenza del massimo vigore dell’istituto in questione. In generale, comunque, sia il legislatore civilistico che quello tributario mantengono un atteggiamento di particolare rigore nella valenza attribuita alle presunzioni. Queste devono essere caratterizzate da gravità, quanto alla capacità dimostrativa, precisione, quanto all’esatta definizione dei confini entro i quali manifestano effetti, e concordanza, quanto alla convergenza verso risultati che possono essere ritenuti univoci”.

Secondo un principio ormai consolidato della Corte di Cassazione (sent. n. 7931/1996) i predetti requisiti, quanto alla gravità occorre che siano oggettivamente e intrinsecamente consistenti e come tali resistenti alle possibili obiezioni…”, quanto alla precisione occorre che risultino “… dotati di specificità e concretezza e non suscettibili di diversa altrettanto (o più verosimile) interpretazione…”, e quanto, alla concordanza è necessario che conducano a conclusioni, conformi e corrispondenti, risultando ovviamente “… non configgenti tra loro e non smentiti da dati ugualmente certi…”, e (sent. n. 11206 del 20/12/2006, dep. il 16/05/2007) il giudice del merito deve, innanzi tutto, valutare in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari al fine, da una parte, di scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e, dall’altra, di conservare quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, ossia presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, lo stesso giudice deve procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni indizi. Perciò, nel caso di specie, la decisione con la quale il giudice del merito si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi (nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento), è pertanto viziata da errore di diritto e, di conseguenza, censurabile in sede di legittimità.

Sono diverse le sentenze della Corte (peraltro richiamate nella sentenza che si annota) che intendono il fatto notorio in senso rigoroso.

  • Con la sentenza n. 5232 del 28 febbraio 2008 (ud. del 14 dicembre 2007) la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza di una commissione tributaria regionale che, in una controversia concernente l’avviso di accertamento in rettifica del valore di un immobile ai fini dell’imposta di registro, aveva ritenuto corretta la valutazione effettuata dall’Ufficio in quanto “in perfetta sintonia con ivalori di mercato vigenti al momento del trasferimento per terreniedificabili in similari condizioni“). Per la Corte il fatto noto deve essere inteso come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire incontestabile. Ne consegue che tra le nozioni di comune esperienza non possono farsi rientrare le acquisizioni specifiche di natura tecnica e quegli elementi valutativi che richiedono il preventivo accertamento di particolari dati estimativi, come la determinazione del valore corrente degli immobili.

  • Sempre la Cassazione (con la sentenza n. 16959 del 5 ottobre 2012, ud. 14 aprile 2011), con riferimento al ricarico inerente alle tazzine di caffè, ha affermato che “non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, ne quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poichè questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 23978 del 19/11/2007 n. 11946 del 2002)”.

  • E da ultimo, con la sentenza n. 14063 del 20 giugno 2014 (ud. 11 aprile 2014), la Corte di Cassazione ha rilevato l’errore commesso dalla C.T.R. nell’avere qualificato la donazione del padre in favore della figlia come fatto notorio pur a fronte della contraria interpretazione, fornita da precedenti pronunce della Corte, dell’art. 115 c.p.c.. “Il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile; di conseguenza, non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio (così, con orientamento costante, questa Corte: tra le tante, Cass. n. 2808 del 2013; id. n 23978 del 19/11/2007). Va, pertanto, escluso da tale nozione un evento o una situazione soltanto probabile (Cass. n. 16881 del 05/07/2013) quale, nel caso in esame, la mera ‘prassi familiare’ di liberalità da parte dei genitori in favore dei figli”.

6 febbraio 2014

Gianfranco Antico

1 LUPI, in Manuale professionale di Diritto Tributario, 1998, pagg. 304 e ss.

2 PISANI, La prova testimoniale nell’accertamento tributario, in “il fisco“, n. 46/ 2003, pag. 7209.