Operazioni inesistenti: il caso del contribuente che ha omesso la dichiarazione

la contestazione dell’inesistenza delle operazioni fatturate si poggia su presunzioni molto forti se il contribuente, che ha emesso le fatture contestate, per gli anni verificati ha omesso la presentazione delle dichiarazioni IVA e dei redditi

Con la sentenza n. 1031/03/14, depositata in data 22.09.2014, la CTP di Firenze si è pronunciata sulla fattispecie delle operazioni (oggettivamente) inesistenti, respingendo il ricorso di un contribuente, con condanna alle spese di giudizio, che aveva impugnato sei avvisi di accertamento emessi dall’Ufficio finanziario per il recupero delle maggiori imposte dirette ed Iva conseguenti all’emissione di fatture false per importi milionari.

Più precisamente gli accertamenti, emessi a seguito di una verifica della Guardia di Finanza di Firenze, riguardavano gli anni dal 2003 al 2010.

Considerata la natura di evasore totale del contribuente, che nei predetti anni aveva omesso la presentazione della dichiarazione nonchè il versamento di qualsiasi imposta e l’emissione di fatture per operazioni inesistenti in favore di due società con cui aveva avuto rapporti negli stessi anni (la cui compagine societaria era peraltro composta da parenti in linea retta dello stesso contribuente), l’Ufficio finanziario aveva accertato il reddito di impresa del ricorrente (in misura pari al compenso verosimilmente percepito per l’emissione delle fatture inesistenti, quantificato in misura pari alla metà dell’Iva esposta in fattura, ovvero al 10% dell’imponibile fatturato) ed effettuato i conseguenti recuperi di imposta.

Il contribuente, con il ricorso presentato in Commissione Tributaria, contestava l’operato dell’ufficio, eccependo, tra le altre cose, il difetto di prova dell’asserita inesistenza oggettiva delle operazioni fatturate, che invece, secondo il ricorrente, erano veritiere e rappresentavano le effettive prestazioni artigianali da lui svolte in favore delle due società, il difetto di motivazione degli accertamenti e la violazione del principio del contraddittorio preventivo.

L’Ufficio, per parte sua, confermava la legittimità del proprio operato per avere esposto, sia nel PVC sia nell’accertamento che lo richiamava, una serie di elementi precisi e concordanti, tali da creare un quadro probatorio inequivoco sull’inesistenza oggettiva delle operazioni “milionarie” fatturate dal contribuente.

L’Amministrazione replicava, altresì, all’eccepito difetto di motivazione, rilevando, anche a mezzo di recenti pronunce della Suprema Corte, la legittimità della motivazione per relationem e rilevava, oltre all’inesistenza di un principio generale sul contraddittorio preventivo, ancor più l’inesistenza di un obbligo in tal senso nel caso in cui l’Ufficio contestasse l’emissione di fatture inesistenti.

 

La CTP di Firenze, con la sentenza citata, considerati i principi di diritto espressi dalla Suprema Corte sulla fattispecie di “fatture per operazioni inesistenti” e valutati gli elementi di fatto acquisiti ed esposti dall’Ufficio a seguito dell’attività di indagine sul contribuente, ha dunque rigettato il ricorso.

Con riferimento alle operazioni inesistenti, del resto, è noto l’orientamento consolidato e univoco della Cassazione, che, anche di recente, confermando i principi già espressi in precedenti sentenze, così si è espressa: “giova richiamare i principi espressi da questa Corte nella sentenza n. 24426/2013, con riguardo, in particolare, al tema delle fatture emesse per operazioni inesistenti, mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno. Nella sopracitata pronuncia di questa Corte, si è chiarito che, nel caso in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni oggettivamente inesistenti, e quindi contesti l’indebita detrazione dell’IVA e/o la deduzione dei costi, lo stesso “ha l’onere di fornire elementi probatori del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata (ad esempio, provando che la società emittente la fattura è una “cartiera”)”, prova che può tuttavia anche consistere in presunzioni semplici, che costituiscono comunque una prova completa, alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento (Cass. n. 9108 del 2012). Assolto dall’Agenzia tale onere probatorio (anche attraverso elementi presuntivi), “passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate”, non essendo sufficiente la sola “esibizione della fattura”, né “la sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati” (Cass. n. 19766 del 19 settembre 2014).

E la CTP di Firenze, alla luce degli elementi emersi dall’istruttoria dell’ufficio e della mancanza di prova contraria da parte del contribuente, ha dunque affermato che “appare evidente dagli atti prodotti e dal verbale della guardia di Finanza che le prestazioni relative alle fatture accertate non sono state rese e si tratta perciò di fatture emesse per operazioni inesistenti”.

L’ufficio infatti, negli avvisi di accertamento, descriveva dettagliatamente l’attività di indagine della Guardia di Finanza in tutti i suoi passaggi e gli esiti della stessa, con riferimento alla pluralità di elementi “sospetti”, “stranezze” o “anomalie” rilevati.

Peraltro, tutti gli elementi, dati e notizie esposti nel PVC trovavano riscontro anche nella consultazione delle banche dati ufficiali in uso all’Amministrazione finanziaria, nelle dichiarazioni fornite dal Contribuente stesso alla Finanza e nell’attività di indagine e controllo (verifiche e accessi) che aveva riguardato le due società beneficiarie delle false fatturazioni, consentendo di acquisire documentazione contabile.

 

In particolare, nonostante il comportamento reticente e poco collaborativo del contribuente che, oltre alla mancata esibizione delle scritture contabili, si era sempre sottratto ai contraddittori su invito della Guardia di Finanza, l’attività investigativa, svolta sia sul contribuente sia sulle due società con cui aveva intrattenuto rapporti “falsi”, aveva fatto emergere una pluralità di elementi significativi e concordanti quali “indizi” di inesistenza oggettiva delle operazioni fatturate, ovvero:

  • mancata istituzione delle scritture contabili;

  • mancata conservazione dei documenti contabili ed extracontabili;

  • completa evasione fiscale e assenza di versamenti di imposte;

  • dichiarazioni di non aver affidato ad alcuno la tenuta della contabilità e la predisposizione delle dichiarazioni perché, trattandosi di “prestazioni occasionali” (dall’importo però di oltre due milioni di euro), non vigeva l’obbligo di istituzione delle scritture contabili, di conservazione dei documenti e di dichiarazione;

  • assenza di una struttura organizzativa (locali, attrezzature, merci, personale dipendente, ecc.) idonea a rendere le prestazioni fatturate;

  • mancata dimostrazione di aver acquistato le merci e/o i servizi necessari all’esecuzione delle prestazioni di servizio fatturate;

  • dichiarazione, all’apertura della verifica, di esistenza di rapporti solo con una delle due società poi risultate utilizzatrici delle fatture false;

  • entità del fatturato, come emersa dalle fatture consegnate alle due società con cui aveva avuto rapporti ed acquisite in sede di verifica, non riconducibile al lavoro svolto da una sola persona

  • genericità delle fatture emesse nella descrizione della prestazioni,

  • mancanza di qualsiasi contratto o lettera d’incarico che regolasse i rapporti tra il contribuente e le due società;

  • alcuni pagamenti effettuati in contanti per importi considerevoli, certamente non usuali nella pratica commerciale;

  • alcuni bonifici da parte delle due società utilizzatrici delle fatture false risultati effettuati a soggetti diversi dal contribuente;

  • alcune matrici di assegni, fatte figurare come dati in pagamento al contribuente, recanti invece un beneficiario diverso;

  • fatture nei confronti delle due società con cui intratteneva rapporti falsi, recanti progressivi identici ma importi e date diverse.

Alla luce di tali inequivoci elementi di fatto, è dunque del tutto condivisibile la decisione della CTP di Firenze, che, facendo corretta applicazione dei principi di diritto enunciati dalla Corte di Cassazione, ha ritenuto legittimi e fondati gli avvisi di accertamento impugnati dal contribuente.

Anche con riferimento agli altri motivi di ricorso, la sentenza della CTP, che li ha rigettati, è conforme non solo al dato normativo ma anche alla giurisprudenza di legittimità formatasi in materia.

La CTP di Firenze ha infatti considerato “priva di rilievo l’asserita mancanza di motivazione degli accertamenti perché fa riferimento esclusivamente al p.v.c. della guardia di Finanza. La motivazione per relationem degli atti di imposizione tributaria è legittima e prevista dall’art. 42 DPR 600/73 con l’unico obbligo per l’Amministrazione finanziaria di indicare specificamente l’atto richiamato e renderlo disponibile al contribuente”.

 

Nel caso di specie, trattandosi di PVC debitamente notificato al contribuente e quindi già in suo possesso e conosciuto, “non può ravvisarsi … il vizio di motivazione acvendo il ricorrente preso parte alla verifica, risposto direttamente alle domande dei verificatori e ricevuto copia del processo verbale con gli allegati in esso richiamati direttamente dalla Guardia di Finanza”.

Del resto la decisione della CTP è in linea con l’orientamento univoco della Corte di Cassazione che, anche nella recente sentenza n. 20420 del 26.09.2014, ha avuto modo di ribadire che “è – per vero – del tutto pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, che, nel regime introdotto dalla L. n. 212 del 2000, art. 7, l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche “per relationem”, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, che siano collegati all’atto notificato, quando lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, ossia l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato (cfr. Cass. 1906/08; 6914/11; 9032/13)”.

Stessa sorte, ovvero il rigetto, ha avuto l’eccezione con cui il contribuente denunciava la violazione da parte dell’ufficio dell’art. 6, comma 5 L. 212/2000 e comunque di un non meglio individuato obbligo di contraddittorio preventivo.

La CTP, condividendo le argomentazioni dell’Ufficio, ha infatti chiarito che “nessuna norma impone all’Amministrazione finanziaria di far precedere l’accertamento con il contraddittorio; l’art. 6, c.5 della L. 212/200 citato dalla ricorrente si riferisce al controllo automatizzato ex art 36 bis e solo quando vi siano incertezza su aspetti rilevanti della dichiarazione. Il contribuente, ove lo avesse ritenuto necessario, avrebbe potuto far pervenire le sue osservazioni nei 60 giorni successivi alla consegna del PVC, cosa che non ha fatto”.

Per concludere, nei contenziosi relativi alla fattispecie di fatturazione per operazioni inesistenti, non paga una difesa che si limiti ad addurre argomentazioni generiche, prive di supporto documentale e smentite dai dati di fatto già emersi nella fase di indagine.

 

E stato quindi facile per il Giudice fiorentino rigettare l’argomentazione del contribuente secondo cui le fatture, seppur non registrate dal commercialista, sono state emesse per vere operazioni, effettivamente svolte: a parte l’irrilevanza, nel giudizio tributario, delle presunte carenze del commercialista (che ne risponderà semmai in sede civile qualora il contribuente intendesse promuovere un’azione di responsabilità nei suoi confronti), trattavasi di argomentazione direttamente smentita dalle dichiarazioni rese alla Guardia di Finanza dallo stesso contribuente che, a verbale, aveva affermato di non aver mai affidato a nessuno la tenuta della contabilità.

Anche sotto il profilo dell’effettività delle prestazioni fatturate, l’argomentazione, così come proposta dal ricorrente, è risultata assai debole; non solo perché consisteva in una mera asserzione di parte, priva di qualsiasi riscontro probatorio ed anzi, smentita direttamente dagli elementi emersi in sede di verifica, ma anche perché trattavasi di un’eccezione che, nel caso di specie, se accolta, avrebbe addirittura nuociuto al contribuente, considerato che l’Ufficio, proprio sul presupposto dell’inesistenza delle operazioni fatturate dal contribuente, ha ricostruito il suo reddito di impresa, facendo riferimento non agli importi fatturati, bensì, come detto, al compenso verosimilmente percepito per l’emissione delle fatture false; se, al contrario, fossero state considerate effettive le prestazioni fatturate, allora il reddito del contribuente doveva essere rideterminato in misura pari agli importi fatturati (essendo il contribuente evasore totale).

 

In conclusione, nel caso di specie non risultavano in alcun modo prove addotte dal contribuente in grado di controbattere efficacemente le presunzioni dell’Ufficio, le quali avevano indiscutibilmente i requisiti di gravità, precisione e concordanza posti dall’art. 2729 c.c..

Gravità intesa come rilevante contiguità logica col fatto ignoto; precisione in quanto il fatto noto da cui la presunzione prendeva le mosse era certo nella sua oggettività; concordanza perché tutti gli indizi erano dello stesso segno e non si contraddicevano tra di loro.

Non si poteva dunque proprio dire che le operazioni in contestazione fossero relative a “normali rapporti commerciali”.

E come giustamente concluso anche dalla Suprema Corte, con la sentenza n. 7650 del 02.04.2014, “… in ipotesi di fatture che l’Ufficio ritenga relative ad operazioni oggettivamente, o anche solo soggettivamente, inesistenti, o che ancorchè effettivamente poste in essere si iscrivono in combinazioni negoziali fraudolente ai danni del fisco, l’Amministrazione stessa ha l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere, o non lo è stata tra i soggetti che figurano nella fattura, o che tale documento sottende un’operazione fraudolenta cui il cessionario sia partecipe. E non può revocarsi in dubbio che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 39, comma 1, lett. d)) (cfr. Cass. 21953/07, che fa riferimento alla possibilità che l’amministrazione produca elementi anche indiziari, a sostegno della pretesa fiscale azionata; Cass. 9108/12; 15741/12, in motivazione; 23560/12; 27718/13; nello stesso senso C. Giust. 6.7.06, C 439/04, C. Giust., 21.2.06, C 255/02; C. Giust. 21.6.12, C 80/11; C. Giust. 6.12.12, C 285/11; C. Giust. 31.1.13, C 642/11)”.

 

Del resto, è di tutta evidenza che, nel caso di operazioni oggettivamente inesistenti, è escluso in radice che possa configurarsi la buona fede del cedente, il quale sa bene se una determinata fornitura di beni o prestazione di servizi l’ha effettuata o meno.

In conclusione, qualora l’Amministrazione fornisca attendibili riscontri indiziari sull’inesistenza delle operazioni fatturate, ricade sul contribuente medesimo l’onere di dimostrare l’effettività della stessa.

Come dunque confermato dai giudici di legittimità nella sentenza sopra citata, gli elementi forniti dall’Amministrazione nel caso di specie, consistenti nella totale assenza di strutture e mezzi idonei a consentire di effettuare le forniture oggetto delle fatture in contestazione, erano dunque “elementi di forte spessore indiziario e presuntivo”, senz’altro idonei a sostenere la pretesa dell’Amministrazione Finanziaria.

14 ottobre 2014

Giovambattista Palumbo e Fabiola Bigiarini