la Corte di Cassazione, con una recente sentenza, é intervenuta in merito alla delicata questione dell’applicabilità dell’accertamento induttivo nei riguardi delle aziende commerciali, quando la contestazione è fondata solo sul differenziale fra prezzi di acquisto e di vendita applicati
In tema di accertamento induttivo, per presumere l’esistenza di ricavi superiori a quelli contabilizzati ed assoggettati ad imposta non bastano semplici indizi, ma occorrono circostanze gravi, precise e concordanti.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 20709 del 01 ottobre 2014, ha osservato che non è legittima la presunzione di ricavi, maggiori di quelli denunciati, basata sul raffronto tra prezzi di acquisto e di rivendita fondato su alcuni articoli, anziché su un inventario generale delle merci da porre a base dell’accertamento.
Non è, inoltre, legittimo il ricorso al sistema della media semplice, anziché quello della media ponderata, quando tra i vari tipi di merce esiste una notevole differenza di valore, ed i tipi più venduti presentano una percentuale di ricarico inferiore a quella risultante dal ricarico medio.
A seguito di processo verbale di constatazione, l’Ufficio notificava ad un soggetto esercente l’attività di farmacista rurale, un avviso di accertamento, con il quale veniva recuperato a tassazione, in via analitico-induttiva ai sensi degli artt. 39, comma primo, lett. d) del D.P.R. n. 600 del 1973 e 54 del D.P.R. n. 633 del 1972, il maggior valore del reddito e della produzione ed il più consistente volume di affari, conseguiti dal contribuente nell’anno di imposta 2002, ai fini IRPEF, IRAP ed IVA.
L’atto impositivo veniva impugnato dal contribuente dinanzi alla CTP di Avellino che accoglieva il ricorso.
L’appello proposto dall’Agenzia delle entrate veniva, peraltro, parzialmente accolto dalla CTR della Campania, con la quale il giudice di appello riteneva legittima, in mancanza di un inventario generale delle merci, la determinazione del ricarico applicabile alle vendite dei prodotti di banco con il criterio della media aritmetica semplice, anziché con quello della media ponderata.
Per la cassazione della sentenza ha proposto, quindi, ricorso il contribuente che ha osservato come la CTR avrebbe errato nel ritenere che, ai fini della determinazione in via induttiva dei maggiori ricavi e del maggior volume di affari conseguiti dal contribuente nell’anno 2002, possa farsi applicazione, nella fattispecie concreta, del criterio della media aritmetica semplice – mediante il mero raffronto tra prezzi di acquisto e di rivendita della merce, peraltro operato in relazione ad un numero limitato di prodotti rientranti in macrocategorie formate dall’Ufficio, senza indicazione alcuna delle ragioni di tale opzione combinatoria – in luogo di quello, più adatta alla fattispecie concreta, della media ponderata.
Il criterio seguito nel caso concreto si paleserebbe, invero, del tutto illegittimo, attesa la notevole differenza di valore esistente tra le merci oggetto della sua attività, le più vendute delle quali presentano, tra l’altro, una percentuale di ricarico molto inferiore a quella della media degli altri prodotti.
L’impugnata sentenza sarebbe, inoltre, affetta dal vizio motivazionale, avendo la CTR escluso che fosse possibile ricorrere al criterio – più coerente con l’eterogeneità dei prodotti considerati – della media ponderata, basata su un raffronto tra le differenti percentuali di ricarico dei diversi prodotti ed in relazione alla media del settore, in base alla sola considerazione della mancanza dell’inventario generale delle merci in magazzino. A siffatta conclusione il giudice di appello sarebbe, peraltro, pervenuto senza prendere in esame alcuno le allegazioni difensive del contribuente, il quale aveva rilevato che l’Ufficio ben avrebbe potuto desumere gli elementi necessari all’applicazione del criterio delle media ponderata dall’esame delle fatture dell’anno in contestazione, non ché dalla cadenza giornaliera e dai contenuti costanti della rotazione del magazzino.
A parere della Suprema Corte tali censure esposte dal contribuente sono risultate fondate.
Il giudice di legittimità ha osservato, al riguardo, che, sia in tema di accertamento delle imposte sui redditi che di accertamento ai fini IVA, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, ai dell’art. 39, comma primo, lett. d), del D.P.R. del 1973 e dell’art. 54 del D.P.R. n. 633 del 1972, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile, in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente. In tali casi, pertanto, è consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, ad esempio determinando il reddito del contribuente utilizzando le percentuali di ricarico, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente medesimo (Cass. nn. 6849/2009; 7871/2012; 27488/2013).
E tuttavia, proprio in quanto, per presumere l’esistenza di ricavi superiori a quelli contabilizzati ed assoggettati ad imposta, non bastano semplici indizi, ma occorrono circostanze gravi, precise e concordanti, non è legittima la presunzione di ricavi, maggiori di quelli denunciati, fondata sul raffronto tra prezzi di acquisto e di rivendita operato su alcuni articoli, anziché su un inventario generale delle merci da porre a base dell’accertamento. E neppure si rende legittimo il ricorso al sistema della media semplice, anziché a quello della media ponderata, quando tra i vari tipi di merce esiste una notevole differenza di valore ed i tipi più venduti presentano una percentuale di ricarico inferiore a quella risultante dal ricarico medio (Cass. nn. 6849/2009; 13319/2011; 3197/2013).
Orbene, nel caso di specie, dall’esame dell’impugnata sentenza si evince che è stato adoperato dall’Ufficio il criterio della media aritmetica semplice, fondata sul mero raffronto tra i prezzi di vendita ed i prezzi dei listini delle case fornitrici. E ciò senza tenere conto alcuno della disomogeneità degli articoli venduti che avrebbe richiesto un’analisi quantitativa, secondo il criterio della media ponderata, in relazione al volume delle vendite relative all’uno e all’altro tipo di occhiali, ed ai dati relativi al mercato (piccola città di provincia) nel quale il contribuente si trova ad operare.
Per di più, nella fattispecie in esame, la determinazione del ricarico è avvenuta mediante raggruppamento delle merci in sei “macrocategorie” – in ordine alla cui formazione, con riferimento alla scelta dei prodotti da includervi, non risulta che l’Ufficio abbia fornito indicazione alcuna – ed in ciascuna delle quali sono stati individuati solo dieci prodotti. La percentuale media calcolata dall’Ufficio, sulla base del raffronto tra i prezzi di vendita ed i prezzi di acquisto, è stata, di poi, estesa al costo del venduto di tutte le merci rientranti nelle varie tipologie ricomprese nelle “macrocategorie”, ad onta della sussistenza di una notevole differenza di valore tra le merci, e del fatto che quelle più vendute avevano una percentuale di ricarico inferiore rispetto alla media delle altre.
Ebbene – al contrario di quanto ritenuto dalla CTR – il campione prescelto non può considerarsi certamente rappresentativo, né sul piano quantitativo, attesa l’esiguo numero di prodotti presi in considerazione, in relazione alla notevolissima varietà di merci oggetto dell’attività farmaceutica, né sul piano qualitativo, difettando del tutto l’indicazione, da parte dell’Ufficio, degli elementi idonei ad evidenziare che la composizione del campione prescelto sia avvenuta in modo appropriato (Cass. n. 3197/2013).
L’impugnata sentenza si fonda, in realtà, essenzialmente sul rilievo dell’indisponibilità di un inventario generale delle merci. Senonché, tale circostanza non può ritenersi ostativa all’applicazione, nel caso in esame, del criterio della media ponderata, tenuto conto della possibilità per l’Ufficio di desumere comunque gli elementi relativi alla consistenza del magazzino sulla base dell’esame delle fatture relative all’anno in contestazione, nonché della verifica concreta della quantità e della composizione delle merci in giacenza.
Tanto più che la stessa CTR dà atto della circostanza che non era stata contestata affatto, dal’Amministrazione finanziaria, la regolare tenuta del registro di magazzino da parte del contribuente.
Per dette ragioni, dunque, la Cassazione ha accolto le censure fatte dal contribuente. La Corte ha, dunque, accolto il ricorso del contribuente, con la condanna del Fisco alle spese del presente giudizio.
Accertamento analitico, analitico-induttivo e induttivo puro
Nell’ambito dei redditi d’impresa, l’Agenzia delle entrate può procedere alla rettifica di quanto dichiarato dal contribuente secondo le disposizioni previste dall’art. 39, D.P.R. 600/1973.
Tale articolo prevede tre diverse modalità di ripresa a tassazione, comunemente denominate accertamento:
– analitico;
– analitico-induttivo;
– induttivo puro.
Accertamento analitico
Viene denominato analitico l’accertamento effettuato ai sensi dell’art. 39, co. 1, lett. a), b), c) e d) primo periodo, D.P.R. 600/1973, volto a recuperare materia imponibile in presenza di:
– incongruenza tra i dati presenti nel bilancio o nel Conto economico dei soggetti non tenuti alla presentazione del bilancio, e quelli desumibili dalla dichiarazione dei redditi;
– errata applicazione delle disposizioni contenute nel D.P.R. 917/1986;
– incongruenza tra i dati desumibili dalla dichiarazione e quelli raccolti dall’Agenzia delle Entrate a mezzo verbale/questionario, esibizione di documenti e/o di registri da parte del contribuente, ovvero indagini eseguite presso terzi;
– irregolarità riscontrata nella completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri documenti raccolti dall’Ufficio, da cui derivino discordanze rispetto ai dati desumibili dalla dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente.
Questo tipo di accertamento si caratterizza per il fatto che l’Ufficio, in base ai dati ed alle notizie comunque raccolti, determina un maggior reddito imponibile anche in presenza di una regolare tenuta della contabilità.
Accertamento analitico-induttivo
Ai sensi del secondo periodo della lett. d) del co. 1 dell’art. 39, D.P.R. 600/1973, l’Ufficio può desumere l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate, anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.
Accertamenti induttivi
A dispetto delle tipologie di accertamento sopra evidenziate, nell’accertamento induttivo puro, disciplinato dal co. 2, dell’art. 39, D.P.R. 600/1973, l’Ufficio ha facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili, anche avvalendosi di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, quando:
– il reddito d’impresa non è stato dichiarato;
– il contribuente non ha tenuto ovvero ha sottratto all’ispezione una o più delle scritture contabili obbligatorie, ovvero queste non sono disponibili per cause di forza maggiore;
– le irregolarità riscontrate sono così gravi, numerose e ripetute da rendere complessivamente inattendibili le scritture contabili;
– il contribuente non dà seguito all’invito posto dall’Ufficio circa il deposito di documenti ovvero la richiesta di informazioni rilevanti ai fini dell’accertamento;
– il contribuente omette la compilazione degli studi di settore, indica cause di esclusione/inapplicabilità inesistenti, ovvero compila in maniera infedele il modello e da ciò deriva una differenza superiore al 15%, o comunque pari o superiore a e 50.000, tra i ricavi o compensi stimati applicando gli studi sulla base dei dati corretti e quelli stimati sulla base dei dati indicati in dichiarazione.
In tutti questi casi, l’Agenzia delle entrate può prescindere in tutto o in parte dalle scritture contabili, procedendo ad una ricostruzione sintetica del reddito del contribuente.
Vincenzo D’Andò
11 ottobre 2014