Società e associazioni tra avvocati e con professionisti diversi

Dato il particolare ambito professionale in cui operano gli avvocati ed i particolari rapporti avvocato-cliente, le norme relative alle società o associazioni tra avvocati vanno analizzate con attenzione.

A cura di  Cinzia De Stefanis e Assunta Tomellieri.

 

Società e associazioni professionali tra avvocati

associazione tra professionistiNegli ultimi decenni la domanda di prestazioni professionali è diventata sempre più articolata; a ciò si sono aggiunte la concorrenza transfrontaliera tra i professionisti e l’esigenza di garantire prestazioni sempre più rapide e continue.

Questi nuovi fattori, come è stato acutamente osservato, presuppongono un’organizzazione più articolata degli studi, una modernizzazione degli strumenti informatici e telematici, una specializzazione dei professionisti e, in definitiva, una struttura organizzativa di cui il professionista individuale dispone raramente.

 


Associazioni tra avvocati – Giurisprudenza

sentenza corte di cassazioneNel caso, viene valorizzata, oltre alla sottoposizione della lavoratrice al potere gerarchico e disciplinare del titolare dello studio, il contenuto delle mansioni e la continuità del rapporto, valutati congiuntamente come indici del rapporto subordinato.

Nella specie, peraltro, la sussistenza di un rapporto affettivo tra le parti del rapporto di lavoro, in assenza di alcuna prova della gratuità della prestazione, non esclude secondo la Corte l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

Sul tema, in precedenza, nella giurisprudenza di legittimità, Cass., sez. L, sent. n. 5534 del 9 aprile 2003, aveva affermato che, ai fini della distinzione del rapporto di lavoro subordinato da quello autonomo, elementi rilevanti sono l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo (da esplicarsi con ordini specifici e non con semplici direttive di carattere generale), organizzativo e disciplinare del datore di lavoro e il suo inserimento nell’organizzazione aziendale, da valutarsi con riferimento alla specificità dell’incarico conferitogli e alle modalità della sua attuazione.

Lo svolgimento di controlli da parte del datore di lavoro è invece compatibile con ambedue le forme di rapporti, sicché assume rilievo ai fini della qualificazione del rapporto come subordinato solo quando per oggetto e per modalità i controlli siano finalizzati all’esercizio del potere direttivo e, eventualmente, di quello disciplinare; altri
elementi, quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario, la localizzazione della prestazione e la cadenza e la misura fissa della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva, mentre la qualificazione del rapporto compiuta dalle parti al momento della stipulazione del contratto può essere rilevante, ma certamente non è determinante.

L’apprezzamento in concreto circa la riconducibilità di determinate prestazioni all’uno o all’altro tipo di rapporto costituisce un accertamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente e correttamente motivato in riferimento ad un esatto parametro normativo.

(Nella specie, relativa ad attività inerenti la segreteria in uno studio professionale, la S.C. ha cassato con rinvio per vizio di motivazione la sentenza di merito che aveva
ritenuto la natura subordinata del rapporto in contestazione omettendo la valutazione circa l’assoggettamento a poteri direttivi e di controllo del datore di lavoro) (Cass. civ., 19 ottobre 2011, n. 21689).


 

L’unico strumento posto a disposizione degli avvocati per esercitare la professione in comune era, fino a pochi anni addietro, l’associazione tra professionisti disciplinata dall’art. 1 della legge 23 novembre 1939, n. 1815.

Secondo questa norma i professionisti possono associarsi utilizzando, nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti con i terzi, esclusivamente la dizione di

“studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario, seguita dal nome e cognome, coi titoli professionali dei singoli associati”.

 

Questioni pratiche relative alle associazioni tra professionisti

Dal punto di vista pratico, accade frequentemente che alcuni professionisti si associno di fatto, mantenendo ciascuno una propria posizione contabile e fiscale e dividendo le spese di locazione e segreteria.

Tale situazione non si può protrarre a lungo perché crea complicazioni dal punto di vista della deducibilità dei costi; pertanto occorre disciplinare, soprattutto dal punto di vista fiscale, la situazione di fatto.

Con la costituzione, per atto pubblico o scrittura privata con firme autenticate, dell’associazione tra professionisti si costituisce un nuovo soggetto che può essere titolare di diritti ed obblighi nei confronti dei terzi e che è tenuto a redigere le dichiarazioni dei redditi.

 


Associazioni tra avvocati – Giurisprudenza

sentenza corte di cassazioneLa Corte di Cassazione, con la sentenza 2474 del 21 febbraio 2012, ha stabilito che, nel caso in cui il cliente di un avvocato distrattario sia soggetto passivo, cioè abilitato a detrarre l’imposta, il medesimo professionista non ha diritto all’imposta e, di conseguenza, il soccombente è tenuto a pagare la parcella al netto dell’IVA.

Riassumendo i fatti di causa, i Giudici della Suprema Corte hanno accolto positivamente il ricorso di un’Azienda unità sanitaria locale di Catania, che era stata condannata a pagare un’azienda farmaceutica in virtù di un decreto ingiuntivo.

L’Azienda contestava, tra l’altro, l’erronea applicazione dell’IVA a favore del procuratore distrattario, stante la possibile detraibilità della stessa da parte del ricorrente vittorioso.

Nel caso di specie, dunque, l’ASL era parte soccombente nel giudizio di opposizione e il difensore della società farmaceutica aveva chiesto la parcella con esposizione dell’IVA. Sul punto, la Suprema Corte, accogliendo le doglianze dell’Azienda sanitaria, ha chiarito che la disciplina dell’IVA è governata al principio di neutralità dell’imposta: di conseguenza, dato che l’imprenditore-creditore è legittimato a operare la detrazione dell’IVA indicata in fattura dal professionista, la parte debitrice non è tenuta alla corresponsione della relativa imposta.

Altrimenti, si verificherebbe una sorta di arricchimento ingiustificato dell’ingiungente, che – secondo la Cassazione

– “da un lato incasserebbe l’IVA rifusagli, dall’altro porterebbe in detrazione l’IVA versata”.

In altri termini, sottolinea la Corte, il professionista distrattario può richiedere al soccombente solamente l’importo dovuto a titolo di onorario e spese processuali e non anche l’importo dell’IVA che gli sarebbe dovuta – a titolo di rivalsa – dal proprio cliente, abilitato a detrarla.

Inoltre, la Suprema Corte, soffermandosi sul citato rilievo, ha chiarito l’interrogativo se costituisca principio informatore in materia fiscale l’addebitabilità di una spesa al debitore solo se sussista il costo corrispondente e non anche qualora questo costo venga normalmente recuperato.

Secondo la Cassazione, il rilievo è fondato poiché

“non può essere considerata legittima una locupletazione da parte di un soggetto abilitato a conseguire due volte la medesima somma di danaro”

e tale sarebbe la situazione dell’avvocato distrattario che ottenesse l’IVA sulle proprie competenze sia dal cliente abilitato a detrarre l’imposta che dal soccombente.

In termini più generali, come noto, agli effetti dell’IVA, il soggetto soccombente in un giudizio, condannato al pagamento degli oneri e delle spese a favore dell’avvocato della controparte, è tenuto anche al pagamento dell’imposta relativa.

Ciò significa che, nell’ipotesi di distrazione delle spese a favore del difensore della parte vincitrice (ai sensi dell’art. 93 c.p.c.), il diritto, che, in base alla pronuncia giudiziaria, viene a innestarsi a favore del difensore, comporta “a valle” che il medesimo possa pretendere, in linea di principio, nei confronti diretti del soccombente, anche quanto dovutogli a titolo d’imposta.

Il soggetto passivo della rivalsa è in ogni caso il cliente.

Ne discende che, in virtù dell’art. 18 del d.P.R. 633/1972, il soggetto passivo della rivalsa sia in ogni caso il cliente, nei confronti del quale va emessa, da parte del difensore, la relativa fattura.

In fattura va, inoltre, evidenziato che, con riferimento sia all’onorario che al tributo che vi accede, la solutio è avvenuta da parte del soggetto soccombente, “legato” alla prestazione in virtù della condanna contenuta nella sentenza.

In questa ipotesi, il pagamento della somma corrispondente all’imposta rileva solo come costo del processo e viene effettuato non a titolo di rivalsa ma di condanna, e come tale vi è obbligo a tenere indenne la controparte, al pari di ogni altro onere patrimoniale, dal costo del processo.

Unica deroga nel quadro così delineato è quello esaminato dalla Suprema Corte, e cioè nell’ipotesi in cui il soggetto vincitore sia soggetto passivo d’imposta e la vertenza inerisca all’esercizio della propria attività d’impresa, arte o professione e possieda, pertanto, titolo di recuperare l’imposta della quale subisce la rivalsa in sede di
esercizio del diritto di detrazione di cui all’art. 19 del d.P.R. 633/1972.


 

associazione professionale tra avvocatiL’associazione avrà pertanto una partita IVA e tutte le fatturazioni relative all’attività comune saranno intestate alla stessa (a titolo esemplificativo l’utenza elettrica, quelle telefoniche, l’acquisto di computer e libri).

A sua volta l’associazione sarà titolare della fatturazione attiva e quindi le prestazioni rese dagli avvocati suoi componenti saranno fatturate dall’associazione, la cui denominazione costituirà il riferimento per i terzi anche ai fini della ritenuta d’acconto.

Tuttavia, la differenza fondamentale tra questo tipo di associazione e la società vera e propria può rinvenirsi nella diversa responsabilità e nel mantenimento del rapporto fiduciario in capo al professionista singolo.

 


Associazioni tra avvocati – Giurisprudenza

sentenza corte di cassazioneIl confine tra diritto di critica e offesa (sia che questa integri un’ingiuria piuttosto che una diffamazione) è stato uno dei temi che più ha impegnato la giurisprudenza penale italiana.

Come ormai noto, i confini del citato diritto, riconosciuto dall’art. 21 della Costituzione e applicato in ambito penalistico per il tramite dell’art. 51 c.p., sono rappresentati dalla verità dei fatti oggetto di asserzione, dalla continenza dell’espressione utilizzata e dal rispetto dell’altrui persona.

La giurisprudenza di legittimità, tuttavia, pare non essere più della stessa opinione.

Con la sentenza n. 3188 del 25 gennaio 2012, emessa dalla Corte di Cassazione (sezione V penale) i giudici romani hanno stabilito che il cliente che critichi, anche duramente, la prestazione intellettuale del proprio avvocato informando del suo disappunto il Consiglio dell’Ordine non commette il reato di ingiuria né quello di diffamazione.

La vicenda oggetto di esame vede un legale assumere il mandato a difendere un cliente nell’ambito di un procedimento penale, assumendo, tuttavia, contemporaneamente, le difese di un coindagato nello stesso processo.

Per tale motivo, immediatamente, il cliente decide di revocargli l’incarico conferito.

L’avvocato invia la parcella per l’attività svolta.

L’assistito risponde con una lettera che viene recapitata anche al Consiglio dell’Ordine cui appartiene l’avvocato.

Il cliente ritiene di denunciare una scarsa serietà professionale prestata dal difensore e giudica “inverosimili” le pretese economiche avanzate, lamentando anche la mancata restituzione di documenti a fronte di richieste esplicite e, a suo dire, la completa inutilità della prestazione resa.

Con la stessa missiva viene poi chiesto al Consiglio dell’Ordine una verifica sulla serietà deontologica del legale affinché vengano presi gli opportuni provvedimenti nei suoi confronti.

L’avvocato, dal canto suo, decide di portare in tribunale il suo “ex” assistito, querelandolo per i reati di ingiuria e diffamazione.

Il giudice di pace, investito del giudizio di primo grado, ritiene che l’imputato, con la lettera di offese, sia andato ben oltre i limiti della critica dell’operato del difensore.

Di talché, decide di condannarlo ad una multa salata e alla refusione delle spese di lite.

La questione viene però riproposta alla corte di Cassazione la quale, sorprendentemente, decide di ribaltare il verdetto del giudice di pace, mandando assolto l’imputato.

Per la corte di legittimità, infatti, l’asprezza dei toni utilizzati dal cliente sarebbero giustificati dall’esercizio del diritto di critica.

In altri termini, la condotta sotto esame non costituirebbe reato perché scriminata dalla citata esimente capace di epurarne l’antigiuridicità.

Nel corpo della pronuncia viene spiegato come le offese mosse dal cliente al legale altro non potevano rappresentare se non le motivazioni che hanno seguito la revoca dell’incarico.

Si sarebbe trattato, dunque, con buona pace per il prestigio professionale del legale, di una esternazione critica giustificata dal rapporto, considerato nell’insieme, che si è protratto tra le parti in causa.

Sempre secondo l’opinione dei giudici romani, inoltre, i toni della critica non avrebbero oltrepassato il limite della continenza in quanto le espressioni utilizzate, ancorché dure e perentorie, non sarebbero sconfinate in una semplice aggressione verbale dalle offese gratuite.

Si tratta, dunque, di una valutazione della continenza delle espressioni usate dai clienti dell’avvocato, che pare da limitarsi all’esame del caso concreto, essendo in controtendenza con un filone giurisprudenziale nel quale si dà maggiore riconoscimento alla tutela del decoro della professione liberale.


 

ASSOCIAZIONI tra avvocati e professionistiLa procura alle liti, ovvero il diverso incarico saranno conferiti al singolo avvocato che risponderà della propria prestazione (e degli eventuali errori) direttamente e personalmente nei confronti del cliente.

Non vi sarà quindi una responsabilità separata o concorrente tra avvocato e associazione, ma il rapporto con il cliente continuerà ad essere regolato secondo le norme codicistiche e professionali.

L’eventuale azione per il pagamento del compenso, pertanto, dovrà essere proposta dall’avvocato che ha ricevuto l’incarico, anche se il pagamento viene fatturato dall’associazione.

Il professionista che ha concordato un compenso forfetario con il cliente può ottenere un adeguamento dell’onorario per le prestazioni ulteriori prestate solo quando la richiesta è comunicato al cliente.

Il professionista deve informare immediatamente il cliente dell’eventuale aumento delle prestazioni effettuate – rispetto a quelle inizialmente pattuite – e della conseguente sopravvenuta inadeguatezza del compenso concordato.

Quindi, in assenza di questa tempestiva indicazione, il compenso concordato deve essere ritenuto congruo e non può essere ritoccato.

Questo è il principio espresso dai giudici della II sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza 18 settembre 2012, n. 15628.

 

AVVERTENZE

vantaggi di questa forma associativa sono prevalentemente di natura fiscale: i singoli associati possono liberamente determinare le quote di partecipazione ed anche variarle nel corso dell’anno con effetto retroattivo.

Così, si potranno distribuire incassi e costi secondo l’apporto individuale e secondo la convenienza fiscale.

Ovviamente ciò presuppone un rapporto di fiducia assai intenso ed infatti la formula dell’associazione è

privilegiata tra parenti o amici di vecchia data.

Il caso classico è quello dell’avvocato singolo con un fatturato molto elevato, in relazione al quale l’incidenza dell’IRPEF arriva alle aliquote massime.

Se l’avvocato in questione ha due figli, a loro volta giovanissimi avvocati, può costituire con loro un’associazione indicando una quota del 10% cadauno a favore dei figli e mantenendo per sé la residua quota dell’80%.

Così facendo, al momento della redazione delle dichiarazioni dei redditi, quel 20% sarà sottratto dallo scaglione più elevato e sarà attribuito agli altri due associati che, non avendo altri redditi, pagheranno importi minimi o addirittura nulli.

L’associazione sopra ipotizzata, frequentissima nella pratica, può essere costituita anche tra un avvocato e un praticante senza patrocinio, così come chiarito dal Consiglio nazionale forense.

La norma legislativa di riferimento non vieta la costituzione di associazioni tra esercenti professioni diverse, ed anzi impone l’obbligo di indicare i titoli professionali dei singoli associati, nonché quello di notificare l’avvenuta costituzione agli organi professionali da cui sono rappresentati i singoli associati, così implicitamente consentendo l’associazione tra iscritti in albi diversi.

Anche il modello 5/bis, appositamente predisposto dalla Cassa Forense per la comunicazione dei redditi delle associazioni delle quali facciano parte avvocati, prevede l’associazione con professionisti iscritti in albi diversi da quelli forensi. (…continua nel PDF scaricabile ⇓)

 

A cura di  Cinzia De Stefanis e Assunta Tomellieri.

 

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