Società di comodo: ancora dubbi e incertezze per contribuenti e professionisti

non c’è pace per le problematiche relative all’interpello sulle società di comodo: la Cassazione si pronuncia nuovamente sull’impugnabilità del diniego in contrasto

La Corte di cassazione torna, dopo poco più di un mese, nuovamente a pronunciarsi sull’annosa questione dell’impugnabilità del parere negativo reso a seguito della proposizione dell’interpello disapplicativo sulle c.d. “società di comodo”.

L’ordinanza n. 20394 del 29 novembre 2012, che si pone sulla scia della sentenza n. 8663 del 15 aprile 2011, contrasta con la recente sentenza dello scorso 5 ottobre, con la quale i Giudici di Legittimità avevano ritenuto il diniego del Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate di disapplicazione di norme antielusive, ai sensi dell’art. 37-bis, c. 8, del DPR n. 600 del 1973, come rientrante nel novero degli atti impugnabili, in via facoltativa, da parte del contribuente.

Il contrasto creato dalle citate sentenze non è di poco conto e fomenta l’incertezza di chi vede respingersi dall’Amministrazione Finanziaria l’interpello proposto ai sensi dell’art. 37-bis, c. 8, del DPR n. 600 del 1973, richiamato dal comma 4-bis dell’articolo 30, Legge 23 dicembre 1994, n. 724.

Il tutto trae origine dall’art. 19, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 rubricato “Atti impugnabili e oggetto del ricorso”, ove si rinviene l’elencazione degli atti impugnabili innanzi alle Commissioni Tributarie.

All’elencazione fornita dalla citata norma deve darsi un’interpretazione estensiva poiché, come le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno, da tempo, affermato “la riforma del 2001 ha … necessariamente comportato una modifica del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19” in quanto “l’aver consentito l’accesso al contenzioso tributario in ogni controversia avente ad oggetto tributi, comporta … la possibilità per il contribuente di rivolgersi al giudice tributario ogni qual volta la Amministrazione manifesti (anche attraverso la procedura del silenzio-rigetto) la convinzione che il rapporto tributario (o relativo a sanzioni tributarie) debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare (in assenza di simile manifestazione di volontà espressa o tacita non sussisterebbe l’interesse del ricorrente ad agire in giudizio ex art. 100 c.p.c.)” (Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza 10 agosto 2005, n. 16676).

Pertanto, a fronte della ristretta elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, la Corte di Cassazione, rifacendosi anche agli orientamenti delle Sezioni Unite, ha ravvisato “la necessità – in forza di una interpretazione aderente alle norme costituzionali, sia di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) che (art. 97 Cost.) di buon andamento (anche sub specie di evitare il connesso inutile dispendio di energie) dell’attività della pubblica amministrazione, oltre che in conseguenza dell’allargamento (Corte di Cassazione, sez. Unite, sentenza 15 maggio 2007, nn. 11076 e 11077) della giurisdizione del giudice tributario operato con la novella del 2001 – di estendere – anche sulla scia interpretativa seguita pure dalle sezioni unite nelle richiamate decisioni del luglio 2007 (NdR Corte di Cassazione, sez. Unite, sentenza 24 luglio 2007, n. 16293 e sentenza 26 luglio 2007, n. 16429) laddove scrivono che “l’ente impositore non può modificare a suo piacimento dichiarando “non impugnabili” atti che impugnabili sono” e, in immediato prosieguo, che “spetta al giudice di merito sceverare con congrua motivazione gli atti impositivi dagli atti che impositivi non sono, esaminando gli aspetti sostanziali dell’atto, che possono non trovare compiuta corrispondenza nei suoi aspetti formali (Corte di Cassazione, sentenza n. 14482 del 29 settembre 2003) – la possibilità di ricorrere alla tutela del giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che, con l’esplicazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è naturaliter preordinato, si vesta della forma autoritativa propria di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dall’art. 19 cit. atteso l’indubbio sorgere in capo al contribuente destinatario, già al momento della ricezione di quella notizia, dell’interesse (art. 100 c.p.c.) a chiarire, con pronuncia idonea ad acquistare effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, ad invocare una tutela giurisdizionale – ormai, allo stato, esclusiva del giudice tributario – comunque di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva e/o dei connessi accessori vantati dall’ente pubblico” (Corte di Cassazione, sentenza 8 ottobre 2007, n. 21045).

In questo contesto, si rileva che il comma 4-bis dell’articolo 30, Legge 23 dicembre 1994, n. 724 stabilisce che “In presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4, la società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi dell’articolo 37-bis, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600”.

La Circolare 2 febbraio 2007, n. 5 dell’Agenzia delle Entrate – Direzione Centrale Normativa e Contenzioso- chiarisce che “la legge prevede la presentazione dell’interpello c.d. disapplicativo, disciplinato dall’articolo 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973,quale unico rimedio per dimostrare le obiettive situazioni che hanno determinato l’impossibilita’ di conseguire per la società l’ammontare minimo di ricavi, di incrementi delle rimanenze e di proventi, nonché del reddito, previsto dal comma 1 dell’articolo 30 della legge n. 724 del 1994”.

La presentazione dell’istanza di interpello è, quindi, un obbligo di legge, per la società che voglia discostarsi dal reddito calcolato secondo il mero calcolo matematico dei parametri stabiliti dalla disciplina sulle c.d. società di comodo.

In risposta a questo, fa seguito il parere rilasciato dal Direttore Regionale la cui natura è stata legislativamente determinata: l’art. 1, c. 6 del Decreto 19 giugno 1998 del Ministero delle Finanze n. 259 statuisce che “le determinazioni del direttore regionale delle entrate vanno comunicate al contribuente, non oltre novanta giorni dalla presentazione dell’istanza, con provvedimento che è da ritenersi definitivo.

Si tratta, in sostanza, di un atto insindacabile: compiuto il procedimento amministrativo incardinato presso la Direzione regionale, né l’organo gerarchicamente sovraordinato né quello inferiore potranno legittimamente disconoscerne o sostituirne il contenuto provvedimentale.

Questo il quadro normativo e procedimentale in cui si inseriscono le vicende legate all’impugnazione del parere negativo.

La Cassazione fornì una prima interpretazione con la sentenza n. 8663 del 15 aprile 2011 con la quale statuì il seguente principio di diritto: “le determinazioni del Direttore regionale delle Entrate sulla istanza del contribuente volta ad ottenere il potere di disapplicazione di una norma antielusiva ai sensi dell’art. 37-bis, 8° comma, DPR n. 600 del 1973, costituiscono presupposto necessario ed imprescindibile per l’esercizio di tale potere. Le determinazioni in senso negativo costituiscono atto di diniego di agevolazione fiscale e sono soggette ad autonoma impugnazione ai sensi dell’art. 19, I comma, lett. h del DLgs.n. 542 del 1992. Tale atto rientra tra quelli tipici previsti come impugnabili da detta disposizione normativa, e pertanto la mancanza di impugnazione nei termini di legge decorrenti dalla comunicazione delle determinazioni al contribuente ai sensi dell’art. 1, comma 4, D.M. 19.6.1998, n. 259, rende definitiva la carenza del potere di disapplicazione della norma antielusiva in capo all’istante. Il giudizio innanzi al giudice tributario a seguito della impugnazione si estende al merito delle determinazioni impugnate.

Sulla scia di questa interpretazione si sono pronunciate in senso favorevole all’immediata impugnazione del provvedimento diverse Commissioni Provinciali e Regionali.

Tuttavia, la Cassazione è intervenuta successivamente sul tema, con la sentenza n. 1710 del 5 ottobre 2012, ove si sostiene che il diniego del Direttore regionale delle Entrate di disapplicazione di norme antielusive, ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, del DPR n. 600 del 1973, rientrerebbe nel novero degli atti impugnabili, in via facoltativa.

La risposta all’interpello- a detta dei Giudici di Legittimità nella citata sentenza – non impedirebbe “innanzitutto alla stessa amministrazione di rivalutare – in sede di esame della dichiarazione dei redditi o dell’istanza di rimborso – l’orientamento (negativo) precedentemente espresso, né al contribuente di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale nei confronti dell’atto tipico che gli venga notificato, dimostrando in tale sede, senza preclusioni di sorta, la sussistenza delle condizioni per fruire della disapplicazione della norma antielusiva”.

Questo orientamento, non esaustivo ai fini della risoluzione della vicenda, è stato contraddetto con la recente ordinanza del 29 novembre 2012, n. 20394, in cui la Corte di Cassazione si rifà espressamente a quanto stabilito con sentenza n. 8663 del 15 aprile 2011, di cui ribadisce i principi, “anche alla luce della ulteriore sentenza di questa Corte n. 17010 del 5 ottobre 2012”.

A fronte di questa presa di posizione e dell’evidente contrasto venutosi a creare all’interno della stessa Corte di Cassazione, appare evidente che sulla questione un intervento risolutivo potrà avvenire solo da una pronuncia delle Sezioni Unite.

Tuttavia, in medio tempore, non potendosi ignorare che il provvedimento di diniego incide pesantemente sulla sfera della società e ritenendo che, in ogni caso, il carattere di definitività amministrativa del provvedimento rende, quantomeno difficile, sia l’accoglimento di una richiesta di rimborso che un riesame successivo dell’Ufficio sulla dichiarazione (nel primo caso si ricorda che il contribuente presenta una dichiarazione adeguandosi al reddito minimo, mentre nel secondo caso, pur non essendovi un adeguamento del reddito, presumibilmente non vi sono elementi diversi da quelli presentati in sede di interpello essendo lo stesso preventivo rispetto alla presentazione della dichiarazione), la scelta di impugnare immediatamente il provvedimento di diniego appare, a parere di chi scrive, preferibile.

 

14 gennaio 2013

Valeria Nicoletti