I saldi negativi del conto cassa legittimano l’accertamento fiscale al contribuente

attenzione! Se il conto “cassa” va in rosso, il Fisco può accertare il contribuente, determinando maggiori ricavi almeno pari al disavanzo

Vi è un conto patrimoniale che più degli altri viene osservato con attenzione dai verificatori, soprattutto in sede di controllo sostanziale nei confronti di soggetti di piccole e medie dimensioni: il conto “cassa”. Si tratta del conto in cui vengono registrate le entrate e le uscite, appunto, di cassa e, quindi, non può mai presentare un saldo negativo, atteso che ciò significherebbe che è stato speso più denaro di quanto ce ne fosse in cassa, il che evidentemente è impossibile .

È proprio questa la ragione per cui tale conto è un osservato speciale in sede di verifica, perché l’esistenza di saldi negativi è sintomatica, innanzitutto, di mancata registrazione di incassi e di omessa dichiarazione di ricavi. Del resto, se un’impresa effettua dei pagamenti senza averne la disponibilità in cassa, determinando così un saldo negativo del relativo conto, sembrerebbe corretto presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, che una somma almeno pari all’ammanco verificatosi sia in realtà stata realizzata tramite operazioni imponibili non dichiarate, che abbiano consentito di conseguire quella liquidità sufficiente ad approntare i pagamenti registrati in contabilità.

Un’altra spiegazione al conto cassa negativo, però, potrebbe essere riconducibile ad errori di registrazione contabile, soprattutto concernenti le date delle operazioni annotate nel conto: in tal caso, tuttavia, come ribadito continuamente dalla Suprema Corte, spetta al contribuente l’onere di dimostrare tali errori, in modo tale da evitare l’accertamento che altrimenti deriverebbe legittimamente dall’esistenza di saldi negativi, considerati come gravi irregolarità contabili.

 

La sentenza 17004

Una società che gestiva una discoteca era stata sottoposta a verifica da parte della Guardia di Finanza, che aveva riscontrato, dall’esame delle scritture e dei registri, una “vera e propria anarchia contabile”, tanto che il conto cassa era risultato negativo per ben 248 volte.

Sulla base di tale rilievi, confluiti poi nel PVC redatto dalle Fiamme Gialle, l’Agenzia delle Entrate aveva proceduto ad accertamento analitico-induttivo nei confronti della società.

Impugnava l’atto impositivo la contribuente, censurando tale comportamento del Fisco che si sarebbe basato soltanto sui saldi negativi di cassa per effettuare un accertamento analitico-induttivo di cui all’articolo 39, comma 1, lettera d), del DPR 600/1973 e, ai fini Iva, all’articolo 54, commi 2 e 3, del DPR 633/1972.

La Cassazione, investita della questione, ha stabilito che la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo1.

Gli Ermellini hanno ricordato, inoltre, che la dottrina ragionieristica e, con essa, la giurisprudenza di legittimità hanno chiarito che, siccome la chiusura in rosso di un conto di cassa significa, senza possibilità di dubbio, che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, non si può fare a meno di ravvisare, senza alcuna forzatura logica, l ‘esistenza di altri ricavi, non registrati. Si deve conseguentemente ritenere che una chiusura di cassa con segno negativo oltre a rappresentare, sotto il profilo formale, un’anomalia contabile, denota sostanzialmente l’omessa contabilizzazione di attività (almeno equivalente al disavanzo). Di talché, atteso il riparto degli oneri probatori regolato dal regime di presunzioni dell’art. 54, c. 2, del DPR 633/1972 e dell’art. 39, c. 2, del DPR 600/1973, l ‘Ufficio non era tenuto fornire prova ulteriore per dimostrare il rapporto tra la movimentazione del conto cassa e gli ulteriori ricavi accertati.

In questi casi, l’onere della prova s’inverte dovendo la società contribuente offrire prove contrarie alla presunzione di ulteriori componenti positive del reddito (ad esempio, a titolo di prestiti e/o conferimenti, corrispondenti al suddetto saldo di cassa e di provenienza diversa rispetto ai ricavi contabilizzati), ovvero dimostrare errori di scritturazione e/o problemi d’impostazione contabile.

 

Consentito anche l’accertamento induttivo “puro”

Se con la sentenza in commento ed i precedenti giurisprudenziali in essa richiamati è stato stabilito sostanzialmente che l’accertamento analitico-induttivo consente, in presenza di saldi negativi di cassa, di determinare maggiori ricavi pari almeno al disavanzo, una recente pronuncia della stessa Suprema Corte ha sancito la possibilità per l’Ufficio, in presenza di cassa in rosso, di esperire l’accertamento induttivo “puro” di cui all’articolo 39, comma 2, del DPR 600/1973.

In particolare, i Giudici di piazza Cavour si sono occupati di un caso in cui l’Agenzia delle Entrate, dopo aver riscontrato la presenza del saldo di cassa negativo, non si era limitata a recuperare, in termini di maggiori ricavi, l’importo corrispondente all’ammanco, bensì aveva utilizzato tale circostanza soltanto come presupposto (grave irregolarità contabile) per poter determinare induttivamente i nuovi ricavi. Più precisamente, l’Amministrazione finanziaria aveva rilevato che alcuni anni dopo a quello di accertamento la stessa società aveva concesso l’azienda in affitto e, pertanto, aveva desunto l’ammontare del canone annuo di affitto alla stregua dei ricavi accertabili per il periodo d’imposta oggetto di controllo, sulla scorta della considerazione per cui il canone pattuito e formalmente risultante dagli atti registrati doveva ritenersi pressoché coincidente all’ammontare dei ricavi effettivamente conseguiti dalla società prima di concedere l’azienda in affitto ad altra società (peraltro, costituita dagli stessi soci).

I Supremi Giudici, considerando la presenza dei predetti saldi negativi di cassa, unitamente al fatto che la società aveva sempre dichiarato perdite di esercizio, anche negli anni precedenti a quello di accertamento, e che, nonostante ciò, gli stessi soci avessero costituito una nuova società per gestire, in affitto, l’azienda prima condotta (formalmente sempre in perdita), secondo gli Ermellini emergeva con tutta evidenza la sussistenza di elementi gravi, precisi e concordanti legittimanti l’accertamento presuntivo di maggiori ricavi non dichiarati, derivanti dall’omesso rilascio di scontrini e ricevute fiscali2.

In conclusione, quindi, in presenza di saldi negativi del conto cassa, l’Ufficio è legittimato a procedere:

  • o in via analitico-induttiva, con l’accertamento di maggiori ricavi corrispondenti al disavanzo di cassa riscontrato, utilizzando, quindi, delle presunzioni semplici qualificate (gravi, precise e concordati);

  • o con metodo induttivo puro, ovvero prescindendo anche totalmente dalla contabilità ed accertando maggiori ricavi in base ad un determinato criterio, che può essere specifico della posizione controllata (nel caso della Cass. 8330/2012, il canone di affitto d’azienda), o generico, atteso che per tale metodologia accertativa è sufficiente la sussistenza di una presunzione semplicissima, cioè sprovvista degli anzidetti requisiti di gravità, precisione e concordanza.

 

Prova contraria

Come ha osservato autorevole dottrina3, tuttavia, potrebbe esserci una diversa spiegazione da quella dell’evasione per la presenza di un disavanzo di cassa; è stato evidenziato, infatti, che un saldo negativo potrebbe essere stato determinato dai seguenti errori contabili:

  • registrazione di un pagamento di un fornitore nel conto cassa anziché nel conto banca;

  • registrazione dell’incasso di un credito nella voce banca anziché nel conto cassa;

  • registrazione cronologica prima delle uscite e successivamente delle entrate;

  • registrazione di uscite di cassa nei primi giorni dell’anno, in assenza della registrazione del saldo iniziale della cassa al 1° gennaio;

  • mancata registrazione nel conto cassa di apporti in denaro del titolare per fronteggiare temporanee esigenze di denaro contante.

Mette conto, tuttavia, di ricordare che, in tal caso, l’onere di fornire la prova contraria è sempre a carico del contribuente, come ribadito dalla Suprema Corte nelle sentenze in precedenza citate.

 

11 ottobre 2012

Alessandro Borgoglio

1 Nello stesso senso: Cass. 11998/2011, 24509/2009, 27585/2008.

2 Cass. 8330/2012.

3 Cfr. F. Dezzani e L. Dezzani, “Cass., n. 24509 del 20 novembre 2009 – Cassa negativa uguale ricavi non contabilizzati. Ipotesi alternative?” in “il fisco” n. 31 del 2 agosto 2010, pag. 1-4935.